La felicità interna lorda
Comunità dell’Isolotto – Firenze, 18.05.2008
I problemi tra percezione e realtà
riflessioni di Carlo, Claudia, Lorenzo, Luisella, Maurizio
con le testimonianza di Lorenzo e Cristina
1. Letture dal Vangelo
2. Premessa
3. Problemi reali e problemi percepiti
4. Testimonianza di Lorenzo
5. Testimonianza di Cristina
6. Credito al Consumo: una fonte di ricchezza per alcuni e di povertà per altri
7. Felicità interna lorda
8. L’esperienza del Bhutan
9. Alcuni articoli
1. Letture dal Vangelo
Disse ai discepoli: "Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? Guardate i gigli, come crescono: non filano, non tessono: eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede? Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l'animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. [Luca, ]
Alzati gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo :”Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare ?”. Diceva così per metterlo alla prova ; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. Gli rispose Filippo :”Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo.” Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea fratello di Simon Pietro :”C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cosa è questo per tanta gente?”. Rispose Gesù :”Fateli sedere.” C’era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. E quando si furono saziati, disse ai discepoli :”Raccogliete i pezzi avanzati perché nulla vada perduto.”
[Giovanni, 6, 1-13]
Il commento a questo brano è quello di don Luigi Ciotti, nel suo libro “Fra terra e cielo” :
“[...] Ogni giorno misuriamo la distanza fra il poso e il necessario, e specialmente i più poveri tra noi non hanno la certezza di trovare il pane quotidiano. Ancora più ampio è il divario tra il poco e il tanto, tra il nulla e il troppo. Eppure Gesù ci dimostra che anche il poco condiviso può bastare, anzi avanza. [...] Se c’è condivisione e giustizia nessuno rimane privo del pane per vivere. Il poco, il gesto in apparenza inutile, diventa risorsa per tutti. Gesù ci invita a credere nelle nostre poche briciole, anche se ci sembrano insignificanti; a condividerle con gli altri, anche se ci pare di non poter fare abbastanza. Perché quella inutilità apparente non sia schermo per rinunciare a fare ciò che è giusto, a scommettere sulla vita, a fare la nostra parte, per piccina che essa sia.“
2. Premessa
Secondo un rapporto dell’Istat di questi giorni i 10 problemi prioritari, secondo le opinioni dei cittadini, sono nell’ordine: 1. disoccupazione, 2. criminalità, 3. povertà; 4. immigrazione extracomunitaria; 5. inefficienza del sistema sanitario; 6. evasione fiscale; 7. problemi ambientali, 8. debito pubblico; 9. inefficienza del sistema giudiziario e 10. inefficienza del sistema scolastico.
Abbiamo pensato di riflettere su questi problemi:
sul confronto tra realtà e percezione a partire dal tema della sicurezza che tanto ha inciso sulla recente campagna elettorale;
sulla povertà con la testimonianza di Lorenzo che dal suo negozio ha una particolare visuale dei problemi concreti delle persone, e con la testimonianza di Cristina, la sorella di Lorenzo, che è ufficiale giudiziario e che un’altra visuale particolare.
sul credito al consumo.
sul FIL
3. Problemi reali e problemi percepiti
Secondo dati ISTAT recentemente pubblicati i 10 problemi prioritari, secondo le opinioni dei cittadini, sono nell’ordine: 1. disoccupazione (70,1%); 2. criminalità (58,7%); 3. povertà (29,4%); 4. immigrazione extracomunitaria (27,3%); 5. inefficienza del sistema sanitario (25,9%); 6. evasione fiscale (17,9%); 7. problemi ambientali (16,2%); 8. debito pubblico (12,4%); 9. inefficienza del sistema giudiziario (10,6%) e 10. inefficienza del sistema scolastico (6,3%).
Si tratta di percezioni che riguardano tutti gli italiani ma con differenze regionali anche molto rilevanti (per questo abbiamo allegato una tabella con i dati di 3 regioni italiane).
Tabella 1 Problemi considerati prioritari nel Paese per Italia e alcune regioni – 2006 (per 100 persone di 14 anni della stessa regione)
Gli omicidi sono in calo: dal 2000 a oggi si è assistita a una progressiva riduzione del numero dei delitti, da un dato di 13,1 a 10,3 per milione di abitanti. La gran parte degli omicidi sono commessi nel Mezzogiorno, in particolar modo in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna e, in misura minore, in Basilicata. Anche qui emerge l'andamento decrescente che si osserva a livello nazionale. Si può quindi immaginare che la riduzione degli assassini sia strettamente legata alla diminuzione degli omicidi di criminalità organizzata rilevata nelle regioni del Sud e nelle isole.
Nel panorama europeo, l'Italia è uno dei Paesi più sicuri per numero di morti violente: si colloca al di sotto della media, con 14 delitti per milione di abitanti e in ottava posizione dopo Austria, Lussemburgo, Svezia, Germania, Malta, Slovenia e Repubblica Ceca. Le ex repubbliche russe del Baltico, Lituania, Estonia e Lettonia, detengono il record negativo, con indici rispettivamente pari a 118,3, 83,9 e 55,2 per milione di abitanti.
Nonostante i dati siano incoraggianti, la criminalità preoccupa il 58,7%, più della metà degli italiani. Le altre fonti di angoscia sono la disoccupazione, indicata dal 70,1% della popolazione e la povertà, che negli ultimi anni ha accresciuto la sua rilevanza come problema nella percezione dei cittadini: dal 17,0% nel 2000 al 29,4%, con un incremento di 12,4 punti percentuali.
Ambiente. Nel 2005 il 41,7% delle famiglie italiane ha segnalato problemi relativi all'inquinamento dell'aria nella zona di residenza e il 22,1% ha lamentato la presenza di odori sgradevoli.
Nel Nord le problematiche dell'inquinamento atmosferico sono sentite da una percentuale molto alta di famiglie (superiore al 40%) in quasi tutte le regioni, in Lombardia si raggiunge addirittura il 57 per cento; solo in Valle d'Aosta il valore scende al di sotto del 25%. Al Centro la regione che presenta valori dell'indicatore più elevati - circa 50 per cento - è il Lazio, dove il fenomeno è particolarmente sentito nelle aree metropolitane, ma anche Toscana, Umbria e Marche presentano quote consistenti (una media tra il 28% e il 38% delle famiglie segnala problemi di inquinamento atmosferico). Nel Mezzogiorno la situazione peggiore è in Campania, dove la metà delle famiglie segnala il problema, mentre i valori più bassi si rilevano in Basilicata e Molise (inferiori al 17%) e, poco più elevati, in Sardegna e in Calabria (intorno al 20%).
Va meglio per quanto riguarda la percezione di odori sgradevoli, la situazione è piuttosto uniforme su tutto il territorio. Nel 2005 la regione in cui si rileva la percentuale più alta è la Campania, con un valore che supera il 32%; seguono la Lombardia (26,8%) e il Lazio (23,7%). Le regioni con i valori più bassi per qs indicatore sono invece la Basilicata (9,3%), la Valle d'Aosta (11%) e il Molise (11,3%).
Lavoro. L'occupazione è in crescita (0,3% nel 2007) ma ancora lontana dagli obiettivi fissati a Lisbona nel 2000 che prevedono il raggiungimento entro il 2010 di un tasso complessivo pari al 70% per gli uomini e al 60% per le donne. Nel 2007 in Italia risulta occupata il 58,7% della popolazione nella fascia di età 15-64 anni. Tuttavia sono notevoli le differenze di genere, a scapito della componente femminile: le donne con un impiego sono solo il 46,6%, gli uomini il 70,7%.
A essere penalizzati ci sono anche i giovani. Nel 2007 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è pari al 20,3%. Anche in questo caso le differenze di genere sono rilevanti: il tasso di disoccupazione giovanile delle donne italiane (23%) supera quello maschile di oltre cinque punti.
Energia. L'Italia consuma mediamente tra i 5 e i 6 mila kwh di energia elettrica per abitante, meno della media europea, mentre la produzione netta supera di poco i 50 gwh per 10.000 abitanti. Il nostro paese, come è scritto sul rapporto, " è fortemente dipendente dall'estero e, nel 2006, importa 45.000 Gwh, il 13% della domanda nazionale".
Rifiuti. Anche se nel corso degli ultimi cinque anni l'Italia ha ridotto il ricorso allo smaltimento in discarica a favore di altre modalità di gestione, con un valore di 325 kg di rifiuti per abitante, si colloca nel 2006 ancora significativamente al di sopra della media europea. Nello stesso anno solo un quarto dei rifiuti solidi urbani prodotti risulta avviato a raccolta differenziata e la quantità di frazione umida, trattata in impianti di compostaggio per la produzione di compost di qualità (una misura della capacità di recupero della materia proveniente dalla raccolta differenziata), si attesta intorno al 22%.
Un commento di Ilvo Diamanti:
La lotta all' immigrazione. Ai romeni. Agli zingari. Oggetto, non a caso, dei primi provvedimenti annunciati dal governo. Non può garantire rassicurazione, perché indica bersagli precisi quanto limitati. E, soprattutto, lontani dall' origine vera dell' insicurezza. Che risale, principalmente, al cambiamento violento e profondo del nostro mondo. Il nostro ambiente di vita quotidiana: non ci protegge più. Un tempo, neppure troppo tempo fa, era visibile, vivibile e vissuto. Impigliato in una tela fitta di relazioni sociali e di vicinato. Il territorio esisteva. Vi si passeggiava, incontrando persone conosciute. I "foresti" si individuavano subito. Era facile tenerli d' occhio. Il paese e le città: esistevano. Luoghi di relazione e di incontro. Proteggevano dal "mondo". Anche se erano costrittivi. E un po' soffocanti. Oggi non è più così. Le grandi città sono spesso anonime. Anche i paesi, i villaggi lo stanno diventando. Devastati da una dilatazione urbana senza limiti. Guidata dagli interessi immobiliari assai più che dai disegni delle amministrazioni locali. Sulle strade circolano solo auto e moto. Le piazze: vivono solo nei centri storici. Finché cala la sera e le botteghe chiudono. La gente si rifugia, sempre più, in casa. Il mondo incombe. Ci minaccia da vicino con le sue crisi e le sue guerre. E noi sappiamo tutto, in diretta, attraverso la televisione. Il mondo è tra noi. Ha i volti degli gli stranieri, che popolano la nostra realtà, sempre più numerosi. L' insicurezza nasce dallo spaesamento. [....]
4. Testimonianza di Lorenzo
Ho un negozio di alimentari qui all’Isolotto.
Vorrei fare una premessa, le cose che vi racconterò ora non riguardano soltanto la mia singola attività, ma confrontandomi con altri colleghi sono situazioni che si sono verificate più o meno a tutti.
Con l’avvento dell’euro (nel 2002) il lavoro è molto aumentato con incassi elevati rispetto agli anni precedenti, ho avuto la sensazione che le persone non si rendessero conto del valore reale delle loro spese.
Negli anni successivi il lavoro è progressivamente diminuito, e da circa tre anni le cose sono notevolmente cambiate: si vendono principalmente i generi di prima necessità e molto meno gli “sfizi”, inoltre mi sono accorto che negli ultimi 10 giorni del mese il lavoro cala, gli spiccioli aumentano notevolmente, perché molti clienti pagano con questi, altri rompono i salvadanai e chiedono di poter cambiare gli spiccioli messi da parte. Periodi critici sono anche dopo le festività (Natale, Pasqua ecc.) o in prossimità di ponti. Questo ci fa capire che molte persone o famiglie stentano ad arrivare alla fine del mese.
Il calo di fatturato non riguarda solo piccole imprese come la mia, ma anche la grande distribuzione.
Mi sembra anche che i nostri clienti abbiano perso la percezione di quanto andranno a spendere per comprare alcune cose, come pane, latte….e la maggioranza di essi non hanno più la capacità di programmare le proprie spese.
Mi chiedo a volte perché il famoso “libro nero” in uso fino a 10 anni fa non torni di moda..per mancanza di fiducia? O per imbarazzo dei clienti?
5. Testimonianza di Cristina
Il settore di Firenze dove svolgo la mia attività di Ufficiale Giudiziario è considerata zona “bene” (abitato da una classe media composta di professionisti, piccoli imprenditori, piccola borghesia), cioè il quartiere delle Cure, Coverciano, Fiesole. Nel corso degli ultimi 20 anni è avvenuta una specie di fuga da parte dei ceti meno abbienti che non potevano permettersi di sostenere i costi di una abitazione da acquistare: chi non aveva la casa di proprietà è stato sfrattato e si è spostato verso zone più periferiche (Campi, Lastra a Signa, Le Piagge). Attualmente il quartiere è abitato da tanti piccoli proprietari che negli anni ’80 hanno fatto le ultime “corse all’accaparramento”. L’impoverimento è avvertibile più nelle zone periferiche, quanto più periferiche, tanto è maggiore. La concentrazione di extracomunitari è spostata verso le periferie, anche se pure nelle zone “bene” si trovano diversi nuclei familiari che come minimo vivono in situazioni di precarietà.
Vi è stato un fortissimo aumento di sfratti per morosità, che riguardano anche cittadini italiani, e sono praticamente scomparsi gli sfratti per finita locazione.
A fronte degli attuali stipendi, affitti di 800-900 euro al mese sono fortemente al di sopra delle possibilità di operai e impiegati. Si salvano chi ha la casa di proprietà e i nuclei familiari che usufruiscono di 2 stipendi “normali”. Ho constatato che tanti negozi e piccoli artigiani hanno chiuso i battenti e ci sono stati cambi di gestione nelle varie attività. Chi non può contare su un’esperienza consolidata nella gestione di un’attività, che gli consente di commisurare i rischi, immancabilmente si espone e non ce la fa a decollare. Tantissimi piccoli negozi hanno dovuto soccombere di fronte ad affitti esosi, scoperti bancari e calo di vendite.
6. Credito al Consumo: una fonte di ricchezza per alcuni e di povertà per altri
Compri oggi e paghi quando vuoi. Non hai i soldi subito? non c’è problema, puoi pagare con comode rate fino a 30 mesi. E’ questo il messaggio che ci spinge a fare acquisti, anche se non ne abbiamo i mezzi e che sempre più spesso ci arriva attraverso pubblicità, offerte, vendite promozionali di grandi magazzini, negozi di elettronica, mobilifici, concessionarie d’auto, agenzie di viaggio.
Che cos’è il credito al consumo? (definizione della Banca d’Italia): per credito al consumo si intende il credito per l’acquisto di beni e servizi o per soddisfare esigenze di natura personale (ad esempio: prestito personale) concesso ad una persona fisica. Il credito al consumo può assumere la forma di dilazione del pagamento del prezzo dei beni e servizi acquistati ovvero di prestito. Non costituisce credito al consumo il prestito concesso per esigenze di carattere professionale. Il consumatore è obbligato: a) nel caso di dilazione di pagamento a pagare il prezzo di beni/servizi alle date convenute; b) nel caso di concessione di un prestito, a restituire l’importo concesso (capitale erogato) e a pagare gli interessi calcolati sulla base di un parametro finanziario (tasso di interesse).
L’adempimento dell’obbligo di restituire il capitale e di corrispondere gli interessi avviene in modo graduale nel tempo attraverso versamenti periodici (le rate), il cui pagamento è di regola mensile.
Il consumatore cui è stato concesso il prestito è inoltre tenuto a pagare le spese necessarie per la conclusione del contratto. Il TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale) è un indice del costo complessivo del contratto di credito al consumo.
Cosa si compra con il credito al consumo? si comprano soprattutto mobili, elettrodomestici, auto, motorini, televisori e prodotti elettronici, ma anche viaggi e vacanze, e il numero di cose che è possibile acquistare con a rate si fa sempre più vasto.
Con quali tassi di interesse? ci sono le situazioni più disparate. Si va da oggetti che comprati a rate vengono caricati, rispetto al bene comprato in contanti, con un tasso di interesse di poco inferiore al tasso d’usura; e ci sono oggetti comprati a rate che vengono a costare come se fossero stati comprati in contanti subito. In questo caso l’interesse del venditore è di vendere comunque, di far entrare nel suo grande negozio il maggior numero di persone e il maggior numero di volte le persone certo che chi entra non esce mai senza aver comprato anche qualcosa che non aveva idea di comprare.
Che differenze con il passato? Anche un tempo si comprava a credito: c’era l’alimentari vicino casa che segnava il conto sul quaderno e si pagava a fine mese o quando arrivava lo stipendio. Ma la cosa era molto diversa: c’era un rapporto personale e di conoscenza, oggi invece il meccanismo è impersonale e implacabile. Anche un tempo i nostri genitori possono aver comprato a rate la lavatrice o la 600: ma un tempo si compravano cose davvero necessarie, indispensabili, oggi si compra il televisore al plasma o la vacanza alle Mauritius.
Chi ci guadagna e chi ci perde? Le banche e le finanziarie ci guadagnano e molto. Considerano il credito al consumo uno dei settori economici più redditizi, un settore in grande crescita, su cui puntare e investire. Nel corso di un convegno organizzato da Abi (Ass. Banche Italiane) e da Assofin nel 2006 si è detto che il credito al consumo è cresciuto del 18,5%, passando da 57,9 miliardi di euro del 2004 a 68,7 miliardi di euro del 2005. Per ABI e Assofin vi è stato un cambiamento culturale che permette alle famiglie di non sentirsi più in imbarazzo per il proprio indebitamento e di gestire con maggiore consapevolezza sia i risparmi che i guadagni futuri.
Per contro c’è un reale e concreto rischio di impoverimento per tutti e in particolare per le fasce di popolazione più deboli e meno avvedute. Questo rischio di impoverimento è confermato da:
· una elevata e generale riduzione del “potere d’acquisto” delle retribuzioni,
· secondo l’Istat il 14,4% delle famiglie italiane si trova in difficoltà alla scadenza dei pagamenti per aver acquistato a rate beni di consumo (mobili, auto, prodotti elettronici, vacanze);
· secondo la Banca d’Italia il debito complessivo cui devono far fronte le famiglie italiane ammonta a circa 300 miliardi di euro (circa 13.000 euro a famiglia di debito). Di questi 300 miliardi circa 250 sono per i mutui per la casa. Se è vero che i per la casa pesano molto sono debiti per credito al consumo che sono cresciuti molto e più molto velocemente.
Morale della favola: la società consumistica induce le persone e le famiglie non solo a desiderare e comprare beni di cui potremmo ben fare a meno, ma anche a spendere soldi che non abbiamo, facendo passare questi indebitamento come una cosa normale, semplice, banale. In questo gioco c’è chi spinge e ci guadagna sulla pelle di chi ci ritrova beffato e impoverito.
La felicità interna lorda
Abbiamo preso spunto da diversi articoli e abbiamo voluto indagare su gli indicatori atti a misurare la ricchezza ed altro dei vari paesi e ne abbiamo individuati alcuni:
1. Il Prodotto Interno Lordo (PIL), in inglese GDP (Gross Domestic Product), è il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all'interno di un Paese in un certo intervallo di tempo (solitamente l'anno) destinati al consumo finale; non viene quindi conteggiata la produzione destinata ai consumi intermedi inter-industriali, cioè quella parte della produzione riutilizzata e scambiata tra le imprese stesse. È considerato la misura della ricchezza prodotta in un Paese.
a. il PIL è detto Lordo perché è al lordo degli Ammortamenti[1]. b. il PIL è detto Interno in quanto comprende il valore dei beni prodotti all'interno in un paese (indipendentemente dalla nazionalità di chi li produce)
c. A partire dal PIL è definibile il reddito pro-capite[2]. Il PIL tiene conto solamente delle transazioni in denaro, e trascura tutte quelle a titolo gratuito: restano quindi escluse le prestazioni nell’ambito familiare, quelle attuate dal volontariato (si pensi al valore economico del non-profit) ecc. Il PIL tratta tutte le transazioni come positive, cosicché non entrano a farne parte i danni provocati dai crimini, dall’inquinamento, dalle catastrofi naturali. Ad esempio se compri un'auto il PIL cresce, se stai in coda e consumi più benzina senza muoverti di un metro il PIL cresce, se hai un incidente, il PIL cresce, se sei ospedalizzato il PIL cresce e così via. In questo modo il PIL non fa distinzione tra le attività che contribuiscono al benessere e quelle che lo diminuiscono: persino morire, con i servizi connessi ai funerali, fa crescere il PIL! Il PIL tratta il deprezzamento del capitale naturale/ambientale e del capitale sociale come componente positiva e ciò rappresenta una violazione dei più elementari e sani principi contabili. (Esempio: se una proprietà agricola di pregio viene trasformata in un parcheggio, il PIL contabilizza l’ammontare del denaro coinvolto ma non considera il deprezzamento del capitale naturale per una siffatta trasformazione, da suolo fertile e produttivo a superficie asfaltata. I tumori causati dall'inquinamento fanno aumentare il PIL, perché generano posti di lavoro e spese per le cure che vengono conteggiate in positivo, mentre non viene contabilizzato il danno sociale e umano della malattia; viene invece contabilizzata l'eventuale perdita di remunerazione nel caso in cui la persona colpita non possa lavorare). a. Lo sviluppo umano coinvolge e riguarda alcuni ambiti fondamentali dello sviluppo economico e sociale: la promozione dei diritti umani e l'appoggio alle istituzioni locali con particolare riguardo al diritto alla convivenza pacifica, la difesa dell'ambiente e lo sviluppo sostenibile delle risorse territoriali, lo sviluppo dei servizi sanitari e sociali con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi ed ai gruppi più vulnerabili, il miglioramento dell'educazione della popolazione, con particolare attenzione all'educazione di base, lo sviluppo economico locale, l'alfabetizzazione e l'educazione allo sviluppo, la partecipazione democratica, l'equità delle opportunità di sviluppo e d'inserimento nella vita sociale. b. Si misura tenendo conto dell’Indice di Aspettativa di vita, Indice di Educazione, Livello di Istruzione degli adulti, Indice di iscrizioni scolastiche, Indice Pil procapite.
3. Il Genuine Progress Indicator (GPI), cioè l'indicatore del progresso genuino (spesso tradotto anche come indice di progresso effettivo o indicatore del vero/reale progresso) è una metrica che ha l'obiettivo di misurare l'aumento della qualità della vita di una nazione. a. Per questi motivi è calcolato distinguendo tra spese positive (che aumentano il benessere, come quelle per beni e servizi) e negative (come i costi di criminalità, inquinamento, incidenti stradali), diversamente dal PIL, al quale si propone come alternativa, che considera tutte le spese come positive e che non considera tutte quelle attività che, pur non registrando flussi monetari, contribuiscono ad accrescere il benessere di una società (casalinghe, volontariato) c. Alcuni studi sul GPI hanno mostrato che mentre il PIL è cresciuto negli ultimi decenni, il GPI è aumentato solo fino ai primi anni 1970, dopodiché ha iniziato a decrescere.
ANALISI E CONSIDERAZIONI (R. Kennedy - Discorso del 18.3.1968 alla
Kansas University)
« Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende l'inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell'equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta »
Sempre a testimoniare la crescente attenzione del mondo politico per il tema, il presidente francese Nicolas Sarkozy nel corso della conferenza stampa di inizio 2008, ha annunciato di aver incaricato due premi Nobel per l'economia, l'americano Joseph Stiglitz e l'indiano Amartya Sen, di riflettere su come cambiare gli indicatori della crescita in Francia. «Bisogna cambiare il nostro strumento di misura della crescita», ha detto Sarkozy, convinto che contabilità nazionale e PIL abbiano «evidenti limiti» che non rispecchiano «la qualità della vita dei francesi». Non basta il Pil, dunque. Anzi, oltre alla soglia di ragionevole benessere, la ricchezza sembra fare più male che bene all'umore di uno Stato. Nelle classifiche delle nazioni conviene insomma tenere conto di parametri alternativi rispetto al PIL - le relazioni interpersonali, valori legati a famiglia, qualità dei servizi, sanità, fiducia nelle istituzioni -, oltre al "paradosso della felicità": una volta raggiunto il livello di vita confortevole, ogni aumento di reddito apporta una certa diminuzione di felicità.
A questo sta lavorando il premio Nobel israeliano Daniel Kahneman, uno dei padri dell'economia comportamentale e pioniere (insieme ad Amartya Sen) di un approccio che tenga conto dell'irrazionalità delle scelte alla base della vita economica.- Da psicologo di formazione (lavora all'Università di Princeton), Kahneman propone di basare la valutazione dei successi delle politiche economiche non solo sulla ricchezza prodotta ma su misuratori legati alla qualità della vita e alla soddisfazione degli individui rispetto alla collettività. Qualche primo risultato del suo personalissimo "Indice del benessere nazionale", una specie di "classifica della felicità" internazionale, da abbinare al Pil nella valutazione dei progressi di un popolo: "I Paesi più felici - spiega - sembrano essere quelli del Nord Europa, mentre tra quelli più infelici c'è l'ltalia. C'è una differenza sostanziale: nei Paesi nordici è alta la "life satisfaction", una valutazione più oggettiva della qualità della vita, per esempio sui servizi, l'istruzione, i beni pubblici, la sanità, ma risulta bassa la felicità intesa come esperienza quotidiana, poiché legata e dipendente da fattori quali l'umore, il temperamento e lo stato d'animo. In Italia sembra essere il contrario cioè: alta la felicità soggettiva (temperamento, positività, stato d'animo), molto bassa invece la life satisfaction intesa come qualità della vita. Siete insomma allegri, con un temperamento gioioso, ma non soddisfatti". Urge insomma, secondo il Nobel, una politica economica che faccia crescere il "Pil di felicità" oltre alla produzione, "con politiche serie a sostegno della famiglia che è la principale produttrice di beni relazionali".
Per la verità, gli economisti della "felicità" non si spingono fino al paradosso opposto, cioè che il povero stia meglio del ricco, e sono lontanissimi dal negare una correlazione tra ricchezza e felicità. Ma si tratterebbe, per loro, di un rapporto negativo. Più reddito porta maggiore salute, istruzione, opportunità, ma nei paesi avanzati il maggior reddito è associato ad un super lavoro che ha, in certi casi, effetti negativi sulla persona e sempre meno tempo per i rapporti con gli altri e per l'amicizia. L'investimento di risorse per l'acquisizione di beni non aumenta di per sé il benessere soggettivo per la presenza di meccanismi psicologici e sociali che fanno sì che ai beni più costosi ci si adatti velocemente, o che assieme ai beni acquisiti crescano anche le nostre aspirazioni - ma condizionerebbe negativamente, almeno al di là di una certa soglia, la soddisfazione in altri ambiti della vita, quello relazionale su tutti
Già, ma qual è la soglia di ricchezza utile? Quella che serve a soddisfare i bisogni primari - risponde Kanhemann -, per poter condurre una vita dignitosa. Fin lì siamo sicuri che la ricchezza contribuisce al benessere, dopo questo punto il discorso si complica a tutte le latitudini perché la trasformazione della ricchezza in felicità dipende dalla cultura e dalla rete di rapporti interpersonali del soggetto".
C'è chi ha calcolato più pragmaticamente il livello di benessere ragionevole. L'economista inglese Richard Layard, della London School of Economics, sostiene che "un incremento di guadagno aiuta ad essere più felici sotto i 15 mila dollari all'anno, ma fa poca differenza al di sopra di quella cifra". Per converso, l'economista Oswald ha invece calcolato in dollari il "valore"di alcuni eventi della vita.
Un matrimonio solido, ad esempio, "vale" la stessa felicità che possono dare 100 mila dollari l'anno. Un lutto è pari ad una perdita di 245 mila dollari. Stime anche per il sesso, giudicato l'attività a cui gli individui associano il più alto livello di felicità. Aumentare la frequenza dei rapporti da una volta al mese a una a settimana sarebbe uguale a un incasso "una tantum" di 50mila dollari.
Un altro pioniere, Richard Easterlin, spiega che "la felicità è costante anche se il Pil aumenta. La gente ha un'illusione prodotta dal denaro. Pensa che più soldi portino più felicità, ma non si accorge che appena ne hanno di più la loro idea di quel che serve per vivere bene aumenta più o meno della stessa misura".
Sul piano macroeconomico, infatti, la prosperità e il benessere sono ancora prevalentemente misurati in termini di Pil. E questa misura rispecchia inesorabilmente la forma, i contenuti e i valori della società. Ma il Pil è un indicatore economico che non considera le condizioni e la gratificazione dei lavoratori. Paradossalmente, persino un aumento della criminalità, delle catastrofi naturali o delle guerre può determinare una crescita del Pil, anche se il benessere e la felicità delle persone stanno in realtà diminuendo. Del resto, lo dicevano poeti e filosofi dell’antichità: la felicità va ricercata dentro, non nei beni materiali. Sembra proprio che gli economisti moderni stiano imparando la lezione.
Si studia come misurare la "felicità oggettiva" di un popolo, e affiancarla - se non sostituirla- ai parametri più tradizionali. "Il concetto di reddito, utilizzato in economia per dare a un tempo una misura dell'attività economica di un sistema e del benessere del sistema medesimo, è sempre più soggetto a critica ed è diffusa la persuasione che sia ormai inutilizzabile come indicatore di benessere".
Il fine verso cui tende l’Uomo è la felicità individuale.
Il fine verso cui tende la comunità mondiale è la felicità universale.
Cosa è, però, la felicità?
Il suo raggiungimento coincide pienamente con il possesso materiale ed il danaro?
Adam Smith, profeta dell’economia classica, nutriva più di un dubbio al riguardo, se nel lontano 1759, nella “Teoria dei sentimenti morali”, scriveva che è un inganno pensare che il ricco possieda maggiori mezzi per essere felice. Innanzitutto, perché per raggiungere questo obiettivo deve sottoporsi ad immani e stressanti fatiche, ma anche perché la capacità di godere dei beni è limitata e l’uomo ricco può consumare solo in minima parte ciò che possiede.
In definitiva, la nostra società moderna, dominata da un capitalismo finanziario senza controllo, sicuramente ha reso più infelici i tanti impoveriti dalla mancanza di lavoro o dalla diminuzione del potere d’acquisto dei salari, ma non per questo ha reso più felici i rari ricchi. Anzi, una volta raggiunto un livello di vita più che confortevole, l’aumento di reddito porta a una “perdita” di felicità, soprattutto sul piano individuale, privato, perché vengono duramente compromesse le relazioni personali, lo svago, il tempo da trascorrere in famiglia o con gli amici.
Ma quanti sono i ricchi nel Mondo? Solo il 2% della popolazione adulta che possiede oltre la metà di tutta la ricchezza mondiale: come risulta da uno studio condotto dal
World Institute for Development Economics Research delle Nazioni Unite, con sede ad Helsinki.
E i poveri? Chi sono? Il restante 98% della popolazione mondiale, al cui interno, la metà meno abbiente è costretta a spartirsi soltanto l’1% delle risorse .
Ovviamente si tratta di dati che fanno riferimento alla ricchezza materiale, secondo la tradizionale ottica economica.
Da un lato, tutto ciò può essere tradotto in una serie di azioni pratiche , da parte dei Governi, tese ad accrescere la ricchezza individuale,non solo attraverso misure come riduzione delle tasse e aumento dei salari, ma anche migliorando la qualità della vita alle persone e accrescendo il loro benessere psico-fisico.
Dall’altro, si afferma il Principio fondamentale che il dovere della Politica di ridistribuire la ricchezza non è un “togliere ai ricchi per dare ai poveri” , bensì un modo per rendere un po’ più felici tutti:
· I poveri, alle prese con mille difficoltà quotidiane, oppressi dall’ansia del futuro e dalle privazioni.
· i ricchi i quali, quando si supera di molto il limite del benessere materiale, per il mantenimento della loro “ricchezza inutile”,( perché non serve ad acquistare e a consumare di più), vengono privati di quei piaceri affettivi e relazionali che sono i soli portatori di autentica felicità a misura umana.
Se ,per finire, volessimo sintetizzare il tutto in uno slogan , cioè la riedizione moderna dei vecchi proverbi popolari, potremmo dire “Non dare alla ricchezza un assoluto valore positivo,bensì alla povertà un valore negativo”
L’esperienza del Bhutan
Il termine è stato coniato dal re del Bhutan Jigme Singye Wangchuck che ha messo in rilievo il suo impegno per la costruzione di un'economia coerente con la cultura tradizionale del suo paese basata sui valori spirituali del buddhismo e si basa sui seguenti fattori: · Buon governo e sviluppo economico sostenibile
· Tutela dei valori culturali e religiosi
· L’annullamento della povertà
· La salvaguardia dell’ambiente
· Assistenza sanitaria
· istruzione
Fin dal l 1972 il sovrano, dichiarò che “la felicità interna lorda è più importante del prodotto interno lordo”. Il concetto elaborato nella piccola nazione buddista, tra le meno sviluppate in termini di reddito e consumo, prese il nome di Gross national happiness (Gnh).
Da allora, nel paese himalayano di 800mila abitanti, il governo ha cercato di rendere operativo quest’idea, che agli occhi di economisti e politici sembrò un’uscita naif di un giovane re fuori dal mondo. E invece il Bhutan, che fino al 1990 aveva conservato un volontario isolamento, pur rimanendo povero secondo i criteri correnti, ha costruito, vendendo la sua energia idroelettrica all’India, una rete di distribuzione dell’elettricità e un sistema sanitario ed educativo che arriva nei villaggi più sperduti, portando in poco tempo la speranza di vita da 46 a 66 anni.
Dopo oltre 30 anni, la felicità interna lorda non è più materia per sognatori, ma oggetto di studi accademici. Di Gross national happiness si discute in Canada, all’università di St. Francis Xavier, Nuova Scozia. 400 tra studiosi, alti funzionari governativi e monaci buddisti di una dozzina di paesi hanno cercato di elaborare un concetto più soddisfacente di prosperità, concordando su una definizione che suona all’incirca così: la prosperità è raggiunta quando c’è equilibrio tra benessere pubblico e soddisfazione delle persone.
Ma lo stesso Centro Studi del Bhutan, ente che si occupa di promozione della Gnh in tutta la nazione, ammette che tale fattore non può ancora essere misurato, ma sicuramente lo sarà un giorno.
Trovare anomalie nel concetto di Gnh è facilissimo. Ciò nondimeno intellettuali, imprenditori, studenti dei paesini più isolati pensano che sia un ottimo modo per mantenere integre e oneste le istituzioni.
Il Primo Ministro Lyonpo Zimba ha affermato che:
“I pilastri cruciali del Bhutan sono rappresentati dalla sua cultura, dalla sua religione, dalla sua lingua, dal suo ambiente e dalla sua popolazione. In un certo senso, siamo identici a una qualsiasi piccola azienda con una sua particolare nicchia di mercato. “Per sopravvivere dobbiamo modernizzarci. Ma dobbiamo riuscirci al contempo assicurandoci di non distruggere, nel corso di questo processo, le peculiarità che ci rendono unici. La Gnh è stata la trovata del nostro Re per far sì che non perdessimo la nostra identità nel cammino verso la civilizzazione”.
E che si dice, invece, per quanto concerne stime più convenzionali?
Il Bhutan è pieno di fattori da misurare, alcuni positivi e altri meno. Partiamo dal negativo. Secondo alcune analisi, circa il 90 per cento della popolazione del paese vive al limite della soglia di minimo sostentamento. Quasi due terzi del paese manca ancora di elettricità, un quarto non ha a disposizione acqua potabile.
Quest’ultimo elemento è probabilmente una delle principali ragioni per cui il Bhutan non è un luogo particolarmente salubre in cui vivere. L’aspettativa di vita media si aggira intorno ai 66 anni, di gran lunga inferiore rispetto alle medie dei paesi industrializzati.
Gli individui abbastanza fortunati da riuscire a raggiungere un ospedale di una delle città maggiori, come Thimphu o Phuentsholing, si trovano a disposizione strutture di grandi dimensioni e di estetica moderna. Ma il problema è che la gran parte del personale medico e paramedico manca delle competenze di base, e non sa nulla né di chirurgia né di cure ambulatoriali.
C’è da considerare, però, che il processo di modernizzazione del Bhutan ha avuto inizio solo negli anni Cinquanta. Prima, non esistevano strade asfaltate, la maggior parte delle abitazioni era fatta di erba e fango, il tasso di alfabetismo era bassissimo, e la mortalità estremamente elevata.
I progressi che il paese è riuscito a compiere da allora sono a dir poco straordinari. L’attuale Re, salito al trono nel 1974, ha investito le magre finanze della nazione nella costruzione di un aeroporto, di una strada di collegamento tra la parte orientale e quella occidentale della regione, di ponti, scuole pubbliche, strutture sanitarie, e tecnologie di produzione energetica alternativa come le centrali idroelettriche, che soddisfano il pressoché totale fabbisogno di elettricità del paese.
E in fin dei conti la cosa ha assolutamente funzionato. Dal 1993 al 2003, l’economia è cresciuto in media del 6,72 per cento l’anno. A parte la Cina, nessuna delle regioni limitrofe – compresa l’India – ha sperimentato un incremento del genere. Oltre il 90 per cento dei bambini, oggi, arrivano a frequentare almeno la quinta elementare. Nel 2003 è stata inaugurata la prima università.
Nel corso del processo di modernizzazione, il Bhutan ha anche potenziato la regolamentazione volta a controllare l’inquinamento, le estrazioni minerarie e il disboscamento. Circa il 70 per cento delle foreste della regione è zona protetta. Nuove leggi, inoltre, bandiscono il fumo, il gioco d’azzardo e la prostituzione; e sono stati attivati anche dei codici anticorruzione e antispeculazione edilizia.
Un convinto sostenitore del FIL, di un benessere non condizionato dai soli consumi, è il Dalai Lama che , a tal proposito, ha dichiarato : «Come buddhista, sono convinto che il fine della nostra vita è quello di superare la sofferenza e di raggiungere la felicità. Per felicità però non intendo solamente il piacere effimero che deriva esclusivamente dai piaceri materiali. Penso ad una felicità duratura che si raggiunge da una completa trasformazione della mente e che può essere ottenuta coltivando la compassione, la pazienza e la saggezza. Allo stesso tempo, a livello nazionale e mondiale abbiamo bisogno di un sistema economico che ci aiuti a perseguire la vera felicità. Il fine dello sviluppo economico dovrebbe essere quello di facilitare e di non ostacolare il raggiungimento della felicità»..”
Il re del Bhutan, a suo tempo, ha affermato:” Siamo una piccola nazione non abbiamo potere economico. Non abbiamo forza militare. Non possiamo avere una posizione dominante per la dimensione del nostro territorio e della nostra popolazione e perché il nostro paese non ha sbocchi sul mare. L’unico fattore che può rendere più forte la sovranità del Bhutan è la nostra originale identità e l’unicità della nostra cultura.”
Un esempio concreto è dato quando il Bhutan ha espulso circa 100.000 cittadini di origine nepalese, che lavoravano per la modernizzazione del paese, sostenendo che non sono dei "veri" bhutanesi in quanto portatori di costumi e valori diversi.Ciò ha avuto un effetto negativo sul
PIL, ma non sulla Felicità Interna Lorda.
Anche il turismo è in crescita, per quanto una serie di rigidi vincoli sulla costruzione di nuovi edifici e una tassa giornaliera per i turisti che può arrivare a 170 euro tengano lontane le orde di visitatori con zaino in spalla che hanno invaso il vicino Nepal. Nel 1999 è stata concessa la televisione ed internet che hanno creato qualche preoccupazione.
Ora è successo che il monarca tanto amato dai suoi sudditi ha abdicato al trono per consegnare il potere al suo popolo. Il 21 Marzo 2008 si sono svolte le elezioni; potevano essere eletti solo laureati che nel paese sono solo 3000. Ha votato il 74,4 % dei 318000 elettori registrati.
I nuovi leader del Bhutan dovranno affrontare un gran numero di sfide, non ultima quella di un popolo ancora innamorato del suo re e scettico nei confronti della democrazia.
Può una società mantenere la propria identità di fronte al potere omogeneizzante della globalizzazione?
E’ possibile sposare gli aspetti positivi della modernità senza essere travolti da quelli negativi?
E si potrà mai trovare un equilibrio fra tradizione e sviluppo?
7. Alcuni articoli
Le tante ronde della comunità perduta di Ilvo Diamanti La Repubblica 11.5.2008
A VOLTE l' ideologia impedisce di riconoscere le cose. Occhiali deformanti, che sfalsano la percezione di chi osserva. Coerentemente con l' intenzione che anima i protagonisti della scena osservata. è il caso (uno dei tanti) delle "ronde padane".Associazione di volontari che pattugliano il territorio e i quartieri, di città e paesi del Nord, per denunciare - e inibire - l' illegalità e la criminalità comune. Stigmatizzate alla stregua di squadracce fasciste, da chi è ostile alla Lega e, in generale, alle iniziative che "privatizzano" la gestione della sicurezza e dell' ordine pubblico. Contro "i nemici che vengono da fuori". Immigrati, stranieri, nomadi e poveracci. Considerate, al contrario, un metodo di "autodifesa dei cittadini indifesi". Lasciati soli dalle istituzioni, abbandonati dalle forze dell' ordine. Si tratta di posizioni speculari. Le accuse colpiscono il bersaglio accogliendo la definizione tracciata dagli autori. Dalla Lega. E, in primo luogo, dal promotore e organizzatore dell' iniziativa. L' on. Mario Borghezio. Sempre all' avanguardia nella lotta contro i "nemici della civiltà padana". Contro il musulmano, l' islamico, l' immigrato (non necessariamente) clandestino e irregolare. Tuttavia, viste da vicino, queste camicie verdi sparse sul territorio, non rammentano le camicie nere che prepararono l' avvento del fascismo. Terrorizzando, davvero, prima e durante il ventennio, gli oppositori o, semplicemente, gli scettici e i tiepidi nei confronti del regime. Le "ronde padane" sono "dopolavoristi". Militanti di partito sguinzagliati per le strade: a piedi, in bicicletta, talora in auto. Cellulare alla mano, per segnalare ai vigili e alle questure eventuali presenze sospette. Per denunciare minacce, prima ancora che veri episodi di illegalità. Ora, promettono Borghezio e i padani, le cose cambieranno. Con il sostegno del neoministro Maroni, le ronde verranno istituzionalizzate. Ma, per ora, la loro azione non sembra troppo efficace. Più che per i criminali, inoltre, l' attività delle ronde è pericolosa per le ronde stesse. Che si troverebbero a mal partito se dovessero trovarsi di fronte spacciatori, banditi o protettori - agguerriti e senza scrupoli. Tanto che, non di rado, mentre le ronde proteggono i cittadini, la polizia locale è chiamata a proteggere le ronde. Le quali, più degli immigrati irregolari, disturbano, talora, quelli regolari. Non a caso, An, in molte realtà locali, ne ha criticato l' impiego, con definizioni sprezzanti, proponendo e opponendo, in alternativa, il reclutamento di vigilantes professionisti. Tuttavia, le ronde continuano a suscitare un dibattito che resta acceso. E sembrano, perfino, riscuotere un certo consenso. Come suggeriscono tre diversi segnali. (a) Anzitutto, l' elezione di due "sperimentatori". Gianpaolo Vallardi, sindaco di Chiarano, e Gianluca Forcolin, sindaco di Musile di Piave. Entrambi leghisti. Passati dal Parlamento padano a quello romano. (b) La fiducia sociale nei loro confronti cresce, come rivela, da ultimo, da un sondaggio condotto da Ipsos (per Vanity, aprile 2008), da cui emerge che il 53% dei cittadini vede con favore il ricorso alle ronde (contrario il 43%). (c) La riproduzione diffusa dell' esperimento, riveduto e corretto. Infatti, numerosi comuni, alcuni governati dal centrosinistra (Firenze e Bologna, fra gli altri), hanno istituito oppure stanno istituendo servizi di vigilanza (informazione, attenzione) "volontaria", affidati ai cittadini. Talora, poliziotti in pensione. Spesso, persone comuni, a volte giovani. Naturalmente, le amministrazioni di centrosinistra e i partiti che le sostengono negano ogni parentela con l' esperienza "rondista". Soprattutto perché si tratta di iniziative pubbliche, promosse dagli enti locali. Senza bandiera né etichetta politica. E senza pregiudizi. Tuttavia, l' affinità è innegabile. Chiamiamole "ronde democratiche" o "italiane". Tentativi (magari non "faziosi") di rispondere al medesimo problema: la sicurezza. O meglio l' insicurezza "locale". Cresciuta, esponenzialmente, negli ultimi anni. Insieme ai reati definiti "minori", nel linguaggio corrente. "Maggiori", nella percezione sociale, perché toccano direttamente le persone. I furti in appartamento. Ma anche quelli di auto e di motorini. Questi reati, nel corso degli anni, sono cresciuti. Anche se, nello stesso periodo, gli immobili, le auto e i motorini sono, a loro volta, cresciuti in misura forse maggiore. Il divario tra i fatti e la percezione, peraltro, è elevato. L' incidenza dei furti in appartamento (e, quindi, la probabilità che avvengano) è di circa dello 0,23% (Fonte Min. Interni 2006). Mentre il timore di esserne vittima coinvolge il 23% dei cittadini (Inchiesta Demos-Unipolis, ottobre 2007). Una quota di persone, cioè, 100 volte superiore. Tuttavia, richiamare lo iato fra realtà e percezione non serve. Dal punto di vista sociale, le percezioni contano più dei fatti. Per cui l' insicurezza e la paura "sono". Esistono. "Dati" pesanti e concreti. Inutile girarci intorno. La distanza fra realtà e rappresentazione limita, semmai, l' efficacia delle soluzioni. La lotta all' immigrazione. Ai romeni. Agli zingari. Oggetto, non a caso, dei primi provvedimenti annunciati dal governo. Non può garantire rassicurazione, perché indica bersagli precisi quanto limitati. E, soprattutto, lontani dall' origine vera dell' insicurezza. Che risale, principalmente, al cambiamento violento e profondo del nostro mondo. Il nostro ambiente di vita quotidiana: non ci protegge più. Un tempo, neppure troppo tempo fa, era visibile, vivibile e vissuto. Impigliato in una tela fitta di relazioni sociali e di vicinato. Il territorio esisteva. Vi si passeggiava, incontrando persone conosciute. I "foresti" si individuavano subito. Era facile tenerli d' occhio. Il paese e le città: esistevano. Luoghi di relazione e di incontro. Proteggevano dal "mondo". Anche se erano costrittivi. E un po' soffocanti. Oggi non è più così. Le grandi città sono spesso anonime. Anche i paesi, i villaggi lo stanno diventando. Devastati da una dilatazione urbana senza limiti. Guidata dagli interessi immobiliari assai più che dai disegni delle amministrazioni locali. Sulle strade circolano solo auto e moto. Le piazze: vivono solo nei centri storici. Finché cala la sera e le botteghe chiudono. La gente si rifugia, sempre più, in casa. Il mondo incombe. Ci minaccia da vicino con le sue crisi e le sue guerre. E noi sappiamo tutto, in diretta, attraverso la televisione. Il mondo è tra noi. Ha i volti degli gli stranieri, che popolano la nostra realtà, sempre più numerosi. L' insicurezza nasce dallo spaesamento. Dal logorarsi dei legami sociali. Dalla solitudine delle persone. Dalla perdita di confidenza con il territorio intorno a noi. Di giorno. Tanto più di sera e la notte. Quando si incontrano solo gli "altri". Per questo le terapie contro l' insicurezza si traducono in tentativi di "controllare" il territorio. Dove è divenuto un deserto abbandonato dalla società. Da un lato: attraverso la militarizzazione. La moltiplicazione di polizie pubbliche e private. La cui presenza rassicura e preoccupa al tempo stesso. Perché le auto della polizia o i vigilantes confermano che il pericolo effettivamente c' è. Dall' altro: i sistemi di sorveglianza elettronici. Videocamere ovunque. Fuori dalle case, nelle piazze, accanto a negozi, banche, uffici. Si tratta di placebo. Soluzioni che rendono più acuto il senso di spaesamento. Rimpiazzano la comunità vigilante con i vigilantes. Gli occhi delle persone con quelli elettronici. Freddi. Scrutano la nebbia attraversata da penombre. Accettano la desertificazione sociale del territorio. Infine, ci sono le "ronde". Padane e democratiche. Associazioni e gruppi di volontari. In camicia verde o in borghese. Persone che passano per le strade e per le piazze. Persone che passano dove - e in ore in cui - le persone comuni non passano più. Con la loro presenza tentano di riprodurre tracce di comunità. Oppure, come la Ronda di notte dipinta da Rembrandt, vorrebbero richiamare l' identità urbana, difesa dalle milizie civiche (lo ha suggerito Wlodek Goldkorn). Si illudono. Imitano un controllo sociale che non esiste - e non può esistere - perché non esiste più la società. Di cui fanno la caricatura. Sono le ronde della comunità perduta. Più che paura, suscitano nostalgia. E tristezza. Come bonsai piantati in un vaso, dove prima c' era un bosco.
La sindrome del nemico
Repubblica — 14 maggio 2008 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
Devono stare attenti tutti - governo, partiti, media - a misurare le parole e i concetti, e a non evocare l' inferno, che ogni giorno è in agguato dietro la solitudine e lo smarrimento delle nostre nuove vite globalizzate. Napoli è sempre stata una città di straordinaria accoglienza. La sua storia - uno sterminato e millenario accumulo di depositi europei e mediterranei, di incroci, di fusioni, di convivenze - l' ha resa fortunatamente così. Sono perciò tanto più preoccupanti e inattesi i fuochi di violenza razzista - una specie di esasperata e abnorme rappresaglia - che arrivano da qualcuna delle sue più tormentate periferie. E sono segnali che non dobbiamo sottovalutare. Leggendo i nomi dei quartieri e delle strade coinvolte - Ponticelli, via Argine - viene subito da pensare a un' atroce guerra di diseredati: la disperazione della Napoli più devastata dai suoi mali recenti e lontani, contro la disperazione di chi non fa altro che galleggiare nel vuoto del proprio degrado. La guerra degli abbandonati, dei lasciati soli, dei senza-Stato, da entrambe le parti. Ma questa storia non ci parla solo di Napoli, e delle sue tragedie. Napoli è soltanto un nervo scoperto. Non è lei soltanto - una sua parte - che rischia di perdersi. È l' intero Paese ad essere scosso da un brivido che viene dal suo fondo più buio, e che in qualche caso sta assumendo i tratti di una vero e proprio riflesso condizionato. Paura di non farcela, di non riuscire a padroneggiare il proprio destino, di vedere polverizzati i legami sociali su cui si pensava di poter contare, di non sapere più gestire problemi anche elementari di convivenza, di confronto con la diversità. Paura di vedersi ridotti i propri spazi di vita, le proprie risorse, il proprio tempo. Paura di scoprire nell' "altro" il nemico, alla soglia di casa. Ebbene, dobbiamo avere il coraggio di dire che se questa "sindrome del nemico" si radica nei nostri comportamenti collettivi, se diventa una parte - anche minoritaria ma pur sempre attiva - del nostro contesto culturale, del nostro vissuto sociale, del nostro sfondo mentale, allora noi saremo perduti. Perduti come Paese, perduti come società viva e capace di innovazione, di slancio, di sviluppo. Perduti, in una parola, come protagonisti sulla scena del mondo. Diventeremo una comunità chiusa e ringhiosa - come non siamo mai stata - senza futuro e senza storia. Questo, naturalmente, non ha nulla a che fare con problemi effettivi di gestione della sicurezza urbana e di repressione dell' illegalità, che dobbiamo saper affrontare in modo efficiente e realistico, e anche diverso rispetto al passato. In questo senso, ogni sforzo di razionalizzazione delle misure e dei provvedimenti da parte del nuovo governo non potrà che essere benvenuto. Ma ha molto a che fare invece con un' ideologia della serrata, (qualche giorno fa ho scritto "del guscio"), della chiamata a raccolta delle forze "sane", della difesa di una nostra identità immaginata come minacciata e in pericolo, di un rifiuto di tolleranza e di confronto, che si sta pericolosamente diffondendo, che ha i suoi propugnatori e adepti, e che rischia di immettere tossine nei nostri pensieri di cui proprio non avremmo bisogno. E c' è qualcosa di più da aggiungere. Questa non è solo una questione di etica - che pure non sarebbe cosa da poco. È in gioco la nostra capacità e la nostra volontà di continuare a rimanere un Paese moderno, o di uscire fuori dal vento della storia. Chiusi e intolleranti si muore. Aperti e accoglienti si vince. Non c' è altra verità. E dunque il problema non è di scegliere fra due strade entrambe praticabili, ma di come attrezzarci per poter percorrere l' unica possibile. Come far sentire meno "soli" i nostri cittadini, meno abbandonati a se stessi nella gestione di ogni convivenza culturalmente più complessa, più rassicurati dalla vicinanza dello Stato e delle istituzioni. Più protetti, e più aperti. La desolazione sociale di Ponticelli genera mostri. Da entrambi i lati. È quello il male assoluto, è lì che l' "altro" diventa il nemico. Quanto è accaduto parla di noi e delle nostre impotenze, molto di più che dei rom e della loro cultura. - ALDO SCHIAVONE
[1] Per ammortamento si intende il procedimento con il quale si distribuiscono su più esercizi i costi di beni a utilità pluriennale, che possono essere di diversa natura.
[2] Il reddito pro-capite è pari al rapporto tra il PIL e il numero dei cittadini: è evidente la correlazione diretta fra la ricchezza individuale e quella nazionale.