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giovedì 25 aprile 2013

Dalla teocrazia alla democrazia


Dalla teocrazia alla democrazia. Dal potere esercitato in nome di Dio a quello emancipato da riferimenti ultraterreni; dalle società pre-moderne fondate sui miti e sul sacro, alla società moderna occidentale desacralizzata, secolarizzata e post-religiosa. Questo il tema su cui rifletteremo
domenica 28 aprile alle ore 10,30 all'assemblea della Comunità dell'Isolotto,in via degli Aceri 1-Firenze
L'interrogativo è:  regge oggi questa rappresentazione, oppure anche nella nostra società è presente una dimensione religiosa, magari nella forma di una nuova religione? Secondo Walter Benjamin la religione del nostro tempo è il capitalismo. Si è così aperto un dibattito fra chi sostiene essere la nostra una società non religiosa, secolarizzata e desacralizzata, e chi, al contrario, riconduce la secolarizzazione ad un insieme di credenze che costituiscono una vera e propria “mitologia programmata”.

 Domenica 28 Aprile 2013 – Elena, Maria, Giulia, Sergio, Gianpaolo, Roberto

 

 Disincanto del mondo, demitizzazione, secolarizzazione o  “mitologia programmata”?                                      

            E’ la nostra una società post-religiosa oppure si basa anch’essa su un
                sostrato religioso, magari nella forma di una nuova religione?


                                                                       I
La tesi che la secolarizzazione sia il contrassegno della società occidentale nel nostro tempo, sia insomma lo specifico della modernità, ha conosciuto indubbiamente un notevole successo, esercitando una vera e propria egemonia culturale, non senza però un qualche contrasto. Nota è la contrapposizione fra la tesi di Karl Löwith (Significato e fine della storia- 1949) - per la quale la modernità non è altro che l’escatologia cristiana secolarizzata, e quella di Hans Blumemberg (La legittimità dell’età moderna 1966) che vede la modernità affermarsi contro il cristianesimo.  Su queste tematiche il dibattito è proseguito anche negli anni successivi. In proposito appare interessante la discussione sviluppatsi in Francia a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 del ‘900.
La concezione che con lo sviluppo delle tecniche e delle procedure democratiche ci si stia movendo verso una società estranea alla religione, post-religiosa potremmo dire, è sostenuta da Marcel Gauchet (Vedere Le désenchantement du monde – Une Histoire politique de la religion – 1985 – - Il disincanto del mondo – Una storia politica della religione e l’articolo dello stesso Dalla teocrazia alla democrazia in Micromega 2/1992).
Scrive, infatti, Gauchet che “L’avvento di un potere democratico nell’Occidente moderno non può essere compreso altro che nell’ambito di un processo di uscita dalla religione”. Perfino una società che “al limite…non comprendesse  che dei credenti” sarebbe comunque “una società al di là del religioso”. E ciò perché si è dissolta la concezione di un mondo strettamente fondato sul proprio passato, sulle proprie origini tramandate dal pensiero mitico elaborato in forme simboliche.
Nelle società religiose, infatti, il potere ha un fondamento meta-sociale e quindi esterno alla collettività e fuori portata per gli esseri umani chiamati solo ad obbedire alle imposizioni ricevute dall’alto, la cui memoria viene perennemente rinnovata dal racconto mitico. Si tratta quindi di un’alienazione di potenza al di fuori della società, nelle divinità di cui parlano le religioni ed i miti, che viene rappresentata simbolicamente come base dell’ordine sociale allo scopo di legittimare l’esercizio di potere dei dominanti sui dominati, in modo che quest’ultimi accettino la loro condizione di inferiorità. “Il religioso è originariamente un modo di istituzione della società, un tipo di legame fra gli esseri umani attraverso l’ineguaglianza, ineguaglianza di essenza sacrale, legame attraverso una gerarchia che ripercuote ovunque nel mondo terreno la superiorità ultima dell’al di là. Gerarchia la cui chiave di volta è costituita dal potere sacro.” “Religione, per condensare il concetto in una parola,   è  eteronomia, e il sacro è la figura in cui l’eteronomia si materializza, si incarna in maniera sensibile”.
Nelle società moderne, al contrario, con la formazione dello Stato, il fondamento del potere è trasportato dall’al di là all’al di qua, e immesso all’interno della formazione sociale stessa, senza riferimento ad alcuna dipendenza da una realtà esterna superiore. Questo non vuol dire che anche nel mondo moderno non sia presente la frattura fra dominanti e dominati. Solo che ora essa deve essere giustificata con argomenti logici, razionali, senza alcun richiamo a simboli mitici, giacché il mondo è stato disincantato, cioè depurato delle incrostazioni mitico-sacrali che bloccavano qualsiasi apertura al cambiamento. Così “Questa radicale trasformazione fa passare la legittimazione del legame collettivo dall’extra-sociale a l’intra-sociale, dal passato fondatore all’avvenire indeterminato, dalla ragione teologica all’ideologia“. Per questo, uscendo dalla teocrazia, le società moderne si sono sviluppate gradatamente con l’attivazione di una forte pratica di critica sociale e politica, orientandosi così verso la democrazia, cioè verso la legittimazione popolare dell’esercizio del potere. Certo non è scomparso il pericolo che “risiede nell’insidioso operare di un ultimo residuo di forme sacrali all’interno delle democrazie”. Comunque, per concludere, il dato rilevante di connotazione della società moderna consiste nella fine della religione nel ruolo di strutturare lo spazio sociale. Si può dire, allora, che “La società moderna non è una società senza religione, è una società che si è costituita nelle sue articolazioni principali con la metabolizzazione della funzione religiosa”. Comunque “Mondo terreno e aldilà cessano di costituire insieme uno stesso essere…. Questo mondo e l’altro mondo cessano, se si vuole, di formare in ultima istanza un solo mondo… Questo mondo costituisce in se stesso una realtà. E’ chiuso in se stesso. Dio è del tutto altrove ”.
Anche i monoteismi mantengono questa esteriorità del fondamento collettivo della società, però non la collocano più fuori dal tempo, nel mito delle origini e della sacralità della natura, ma in un Dio interamente separato dal mondo. Si instaura così una separazione nuova fra naturale e soprannaturale, fra il mondo umano e quello di Dio, aprendo quindi la possibilità di un rapporto nuovo fra l’essere umano e la natura, disincantata, demitizzata, desacralizzata. Con la ritirata di Dio il mondo da realtà donata, come era, diviene una realtà da costruire, e quindi si apre all’essere umano sia sul piano della conoscenza che su quello dell’azione pratica. Comunque anche con i monoteismi il mondo rimane magico, per cui “la sfera visibile continua ad essere abitata da potenze invisibili” ed “affollata di sacralità”. In conclusione, di per sé stesso, il monoteismo non è sufficiente a produrre il disincanto del mondo. E’ il cristianesimo con l’Incarnazione che apre questa prospettiva. “Se Dio si fa uomo per rivolgersi agli uomini,…invece di parlare loro direttamente per bocca di un profeta, vuol dire per un verso che egli appartiene radicalmente ad un luogo distinto dalla sfera degli uomini, e per l’altro, che questa sfera è dotata di una consistenza che la chiude relativamente su se stessa. Una consistenza tale che colui che vi penetra, anche se si tratta di Dio, deve adottarne le regole”.
Certamente la Chiesa ha usato l’Incarnazione per riunire gerarchicamente l’al di qua con l’al di là, proponendosi come mediatrice assoluta. Ma questa mediazione fra il sacro ed il profano, fra il cielo e la terra, si presenta altamente problematica in rapporto al fatto che la mediazione storica realizzatasi una volta per tutte è quella di Cristo. In conseguenza di ciò “Non è l’Incarnazione che genera il moto del secolo, è il moto del secolo che risveglierà il fondamentale contenuto dell’Incarnazione consentendole di agire”, nel senso di riconoscere validità all’autonomia degli esseri umani.
Gauchet non ignora il ritorno del religioso, ma lo vede come effetto del crollo delle grandi speranze racchiuse nel sogno di un futuro radioso, di una società migliore di quella presente. Di conseguenza “Nel fondo del cosiddetto ritorno del religioso vi è soprattutto la riappropriazione identitaria del passato in sostituzione di un futuro che sfugge

La tesi contrapposta alla precedente è sostenuta da due politologi – M.D.Pierrot e G.Rist ed un antropologo – F.Sabelli – nello scritto La Mythologie programmée- L’économie des croyances dans la société noderne (La mitologia programmata – L’economia delle credenze nella società moderna.
Gli autori riprendono la concezione di un sociologo francese Durkheim esposta in un’opera rimasta famosa – Le forme elementari della vita religiosa – pubblicata nel 1912. Vi si sostiene che la religione può esistere al di fuori di ogni istituzione specializzata, al di fuori di ogni riconoscimento formale di una divinità o di una pluralità di dei. La religione esprime la società, nel senso di assicurarne la coerenza e la stabilità, in quanto diffonde fra i suoi membri i medesimi valori di fondo, i medesimi pregiudizi e la medesima tradizione, portandoli a condividere comportamenti che rendono possibile la loro convivenza, in modo da permettere la coesione sociale. Si tratta, quindi, di un insieme di credenze comuni ad una determinata collettività. Di conseguenza, ogni società è governata da credenze largamente condivise, che sarebbe pericoloso rimettere in questione, ed è in questo senso che si può considerare religiosa. Pertanto, non esistono religioni senza società, ma neppure società senza religioni. Anche una società di atei, che senz’altro non crede in Dio, ma non per questo sarebbe senza religione e credenze. In sostanza, il fenomeno religioso non consiste in verità accettate a titolo individuale, ma in una rappresentazione collettiva che si impone a tutti come se essa provenisse dall’esterno e che serve a sigillare l’unità del gruppo. Ciò che determina le pratiche sociali non è allora il contenuto di ciò che si crede, bensì il fatto stesso di credere.
Anche la nostra società non sfugge a questa regola. Vi sussistono infatti credenze sociali, nonostante l’incredulità individuale, tanto che si possono inquadrare come forme religiose anche la laicità e la secolarizzazione. Pertanto il disincanto del mondo e la demitizzazione non sono che apparenti, in quanto ciò che non è riconosciuto come religioso è nondimeno vissuto come tale. Basti pensare ai fondamenti della modernità: l’individualismo, la razionalità calcolatrice ed utilitaristica, la produzione e la crescita economica, il dominio sulla natura e via dicendo.
A questo punto gli autori presentano una serie di credenze, non riconosciute ufficialmente come tali, e di pratiche connesse, definite come insieme “mitologia programmata”. “La mitologia programmata è un sistema di credenze socialmente condivise, collettivamente costruite dall’immaginario sociale, utilizzando i materiali forniti dalla storia (navetta spaziale, programma televisivo, evento politico, diritti dell’uomo ,una pubblicità, una scoperta scientifica, ecc.) che permette di rendere socialmente accettabili le pratiche moderne e di presentarle in funzione di un avvenire posto come legittimo e necessario”. Essa agisce sul piano esistenziale, nel senso di restituire all’individuo una parte del senso di cui è stato privato dalla demitizzazione e dalla desacralizzazione compiuta dagli intellettuali a partire dall’Illuminismo. I suoi principali gestori sono lo Stato ed il capitale.
A questo punto gli autori prendono ad analizzare una serie di queste credenze e delle pratiche che vi sono connesse.
Una consiste nel passaggio dalla ragione alla razionalità basata su una logica utilitaristica come rapporto fra mezzi e fini in senso economico. Il suo centro è l’impresa che, oltre a produrre merci, crea una credenza mitologica, presentando il sistema economico come espressione di una verità sulla natura umana, e quindi ponendosi come fabbrica della cultura quotidiana e laboratorio di sperimentazione culturale. Anche la “carta di credito” funziona come forza identitaria, che apre al mondo della ricchezza senza denaro e senza limitazioni di spesa. Entrando in questo mondo di opulenza generalizzata “voi non sarete mai soli” recita una pubblicità dell’American Express. A sua volta la “bioetica” è giudicata come uno strumento di sacralizzazione crescente delle biotecnologie, nel senso di avallare il programma di dominio sul vivente, in un contesto dove dalla scienza si tende a passare alla tecnoscienza. Anche molte cerimonie moderne, legate a feste laiche, recuperano strutture mitologiche antiche in modo da rendere credibili nuovi valori e indiscutibile la riorganizzazione delle pratiche. Le stesse “Esposizioni internazionali” esaltano la potenza economica del mondo industriale, diventando fucina di desideri collettivi, laboratori della società di consumo. Le “Dichiarazione dei diritti”, hanno anch’esse un carattere religioso, compresa quella del 1948. Essendo sistematicamente violata essa vale come principio morale o semplice raccomandazione, col carattere di promessa, di utopia, di mito, caso mai come programma da realizzare.
Anche “l’amore per l’umanità” ha il carattere del mito religioso. Con la crisi della socialità a gestione statale ha preso spazio e riconoscimento la carità individuale. Campione di ciò è la figura di Madre Teresa di Calcutta, scoperta e costruita programmaticamente come mito allo scopo di rendere accettabile il ripristino di pratiche sociali risalenti ad un lontano passato, di soffocare ogni critica sull’efficacia di questa forma di carità e, soprattutto, di non rimettere in discussione i meccanismi che generano la povertà. Sul piano strettamente ecclesiastico, essa rappresenta una teologia preconciliare, strettamente legata al principio gerarchico ed alle posizioni vaticane in materia di sessualità e dei mezzi anticoncezionali artificiali. Infine l’ultimo mito preso in considerazione è quello della solidarietà Nord-Sud. Essa è presentata come una sorte di religione di salvezza per i popoli del terzo mondo sottomessi a forze malefiche (la povertà, il basso sviluppo economico), la crescita delle differenze in termini di Pil con i paesi ricchi, la mentalità irrazionale, l’analfabetismo ecc. In base alla “credenza” nello sviluppo economico di tipo occidentale, presentato come irreversibile ed ineluttabile, lo scopo è quello di immetterli in quel processo economico, incentrato sulla concorrenza che assicurerebbe il loro progresso. In sostanza, il mito dell’universalismo e dell’umanitarismo dissimulano, magari anche in maniera non consapevole, il progetto di diffondere le forme economiche tipiche dell’Occidente capitalista e quindi i suoi interessi. Se ciò fosse dichiarato apertamente non sarebbe accettabile, ma lo diviene perché la sua legittimità è basata su una credenza condivisa.
Per concludere, gli autori ribadiscono che, nonostante le apparenze, la nostra società “moderna o “post-moderna” è una società che ha tradizione come tutte le altre, e le figure della “mitologia programmata” sopra illustrate mostrano i nostri riti, le nostre cerimonie, i nostri feticci, i nostri personaggi sacri che, oggi come una volta, suscitano adesione, rinforzano il consenso, esercitano la loro obbligatorietà, sono performativi, benché talvolta incontrino resistenze. Il paradosso è che una società che pretende distaccarsi da ogni religione, deve ricorrervi incessantemente per imporre la legittimità del suo programma.


                                                                       II

 Nel presente panorama filosofico italiano e non solo, sta occupando un rilievo notevole la discussione sul rapporto fra la religione cristiana ed il capitalismo. Il tema era già stato al centro della riflessione di Max Weber , secondo il quale il calvinismo aveva fornito il contributo decisivo allo sviluppo dello spirito capitalistico dei paesi anglosassoni e dell’Olanda (Vedere L’etica protestante e lo spirito del capitalismo- 1904/5). Altri storici e sociologi si sono poi confrontati col problema, ridimensionando però la radicalità della tesi weberiana.
Il problema ha ritrovato attualità di fronte alle condizioni sociali e culturali nelle quali si trova oggi la nostra società, che vedono trionfare un vero e proprio totalitarismo economicistico, con l’economia (mercati finanziari, investitori ecc.) che sottrae ai singoli ed alle comunità il controllo del proprio destino. In altre parole, al posto di un Dio trascendente come regolatore dall’alto della vita individuale e collettiva, troviamo la pervasività totalizzante del mercato capitalistico, innalzato a condizione naturale ed a-storica, quindi necessaria ed immutabile, di fronte al quale si dichiara impossibile qualsiasi prospettiva di cambiamento e di governo democratico. Di nuovo quindi un potere trascendente, incontrollato ed incontrollabile
Non desta perciò meraviglia se un frammento giovanile di Walter Benjamin, scritto nel 1921, torna oggi al centro di una riflessione che trova nel pensiero di alcuni filosofi italiani un interessante sviluppo. Fra gli altri, due nomi spiccano per importanza: quello di Giorgio Agamben (Vedere il libro Il Regno e la Gloria- Per una genealogia teologica dell’economia e del governo – Boringhieri 2009) e Elettra Stimilli (Vedere il libro Il debito del vivente – Ascesi e capitalismo – ed. Quodlibet 2011).
Benjamin assegna a questo suo scritto il significativo titolo di Capitalismo come religione e scrive:
Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento di quelle stesse preoccupazioni, di quelle pene ed inquietudini a cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni…Il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che sia mai esistita. In essa tutto ha significato solo in immediata relazione al culto, non conosce una specifica dogmatica, una teologia…A questa concrezione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto…
Dopo avere indicato altre caratteristiche della religione capitalistica e avere annotato che “Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova magnificamente espresso nella filosofia di Nietsche”, Benjamin conclude: “Il capitalismo – come va dimostrato, non solo rispetto al calvinismo, ma anche riguardo alle altre tendenze cristiane ortodosse – in Occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, il capitalismo”.
Questo parallelismo fra cristianesimo e capitalismo costituisce una rilevante novità anche rispetto a Marx. Sebbene quest’ultimo abbia stabilito connessioni fra cristianesimo e modo di produzione capitalistico, tuttavia la religione rimane ancora per lui quella tradizionale: “La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. Essa è l’oppio del popolo” (Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel). In sostanza la religione trova la sua ragion d’essere proprio nell’oppressione, nella mancanza di umanità e di spiritualità che contrassegna il capitalismo. Non sembra quindi presente in Marx l’idea che questo capitalismo disumano possa svolgere la stessa funzione sociale della religione
A commento dello scritto di Benjamin, Stimilli scrive: “La tesi di Benjamin, secondo cui il capitalismo è la religione del nostro tempo, appare...in qualche modo realizzata. Pensare al capitalismo come all’ultima forma di religione può forse aiutare a comprendere anche il dirompente ritorno del religioso, a cui si è assistito negli ultimi anni. Nuove istanze religiose sono emerse all’interno del mondo cosiddetto ‘moderno’, coinvolgendo direttamente gli assetti politici internazionali e attirando prepotentemente l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma una risposta convincente al problema del rinnovato dominio dell’ambito religioso sul piano pubblico della politica non è stata ancora veramente data. Che tale ritorno sia connesso al perpetuarsi di una guerra, che invece di essere originata da un conflitto di civiltà, sia, in realtà, piuttosto alimentata da un vero e proprio scontro economico planetario, sembra solo una conferma della profetica intuizione di Benjamin. Una prospettiva che voglia confrontarsi in maniera radicale con tale questione, non può lasciare nell’ombra quanto il paradigma della secolarizzazione, di fatto, si sia rivelato sempre più inadeguato per una lettura del presente e come sia apparso del tutto riduttivo nei confronti di un fenomeno prepotentemente emergente come quello religioso ”.



                               



mercoledì 24 aprile 2013

Le pietre e il popolo


Comunità dell’Isolotto - Firenze, domenica 21 aprile 2013
Il patrimonio storico artistico come bene comune.
riflessioni di Paola e Mario
con il contributo di Tomaso Montanari

  1. Letture e riflessioni

dal  Vangelo di Matteo (6, 19-21;25-34)
“Non accumulate ricchezze in questo mondo. Qui i tarli e la ruggine distruggono ogni cosa e i ladri vengono e portano via.  Accumulate piuttosto le vostre ricchezze in cielo.   Là, i tarli e la ruggine non le distruggono e i ladri non vanno a rubare.   Perché dove sono le tue ricchezze, là c’è anche il tuo cuore”.
“ Perciò io vi dico: non preoccupatevi troppo del mangiare  e del bere che vi servono per vivere, o dei vestiti che vi servono per coprirvi. Non è forse vero che la vita è un dono ben più grande del cibo e che il corpo è un dono ben più grande del vestito?   Guardate gli uccelli che vivono in libertà: essi non seminano, non mietono e non mettono il raccolto nei granai … eppure il Padre vostro che è in cielo li nutre! Ebbene, voi non siete molto più importanti di loro?    E chi di voi a forza di preoccupazioni, può fare  in modo di vivere anche solo un giorno di più di quel che Dio ha stabilito?   Anche per i vestiti, perché vi preoccupate tanto?  Guardate come crescono i fiori nei campi: non lavorano, non si fanno vestiti … eppure vi assicuro che nemmeno Salomone, con tutta la sua ricchezza, ha mai avuto un vestito così bello!  Ma se Dio veste così l’erba, che oggi è fresca nel campo e domani è buttata nel fuco, a maggior  ragione non darà un vestito a voi?   Gente di poca fede! “.

Poiché  abbiamo pensato di dedicare la nostra odierna  assemblea al fenomeno sempre più diffuso oggi della mercificazione  del patrimonio storico artistico che abbiamo ereditato dal passato e del valore e  della funzione di crescita culturale, intellettuale e spirituale per tutti i cittadini che la nostra Costituzione repubblicana  attribuisce a questo patrimonio, abbiamo scelto questo brano dal Vangelo di Matteo  che ci sembra contenga un monito molto forte a non porre al centro della vita umana il raggiungimento della ricchezza e il possesso di beni materiali.   E’ bene ricordarsi che Matteo era un levita cioè un esattore, e in questa condizione lo ritrae Caravaggio in uno stupendo quadro ( La  vocazione di Matteo, Cappella Contarelli,  San Luigi dei Francesi a Roma) quando incontra Gesù: in una stanza buia mentre  i suoi aiutanti sono intenti a contare e a prendere i danari delle tasse buttati sul tavolo, Matteo distoglie gli occhi dal denaro e viene illuminato da un raggio di luce proveniente dal lato della stanza dove è entrato Gesù.  Nella conversione di Matteo quindi c’è questo radicale cambiamento della sua vita: l’abbandono della ricerca del denaro e della ricchezza come scopo principale della sua vita, e la scelta di seguire Gesù e di mettersi al servizio degli altri.  Per questo il messaggio contenuto in questo discorso di Gesù, riportato nel suo Vangelo,  risulta più autorevole e credibile.                                                                      Un altro messaggio importante di questo brano è il concetto , riaffermato qualche secolo dopo in modo altrettanto forte da Francesco d’Assisi nel suo Cantico delle Creature, che la bellezza non si compra ma si trova nel mondo ed è un dono per tutti: lo stesso Salomone con la sua ricchezza e  il suo potere non è in grado di avere vestiti della bellezza di quelli Dio dona gratuitamente ai fiori e che tutti possono ammirare.                                                              C’è Un terzo messaggio è contenuto in questo brano:  che lo scopo principale   dell’uomo dovrebbe essere la sua elevazione spirituale e non il perseguimento della ricchezza materiale.


Dall’ Antico testamento, Geremia (Capitolo 7, 1-11.)

 Questa è la parola che fu rivolta dal Signore a Geremia:
 Fermati alla porta del tempio del Signore e là pronunzia questo discorso dicendo: Ascoltate la parola del Signore, voi tutti di Giuda che attraversate queste porte per prostrarvi al Signore.
Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Migliorate la vostra condotta e le vostre azioni e io vi farò abitare in questo luogo.
Pertanto non confidate nelle parole menzognere di coloro che dicono: Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo!
Poiché, se veramente emenderete la vostra condotta e le vostre azioni, se realmente pronunzierete giuste sentenze fra un uomo e il suo avversario; se non opprimerete lo straniero, l'orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia altri dei,  io vi farò abitare in questo luogo, nel paese che diedi ai vostri padri da lungo tempo e per sempre.
Ma voi confidate in parole false e ciò non vi gioverà:
rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dei che non conoscevate.
Poi venite e vi presentate alla mia presenza in questo tempio, che prende il nome da me, e dite: Siamo salvi! per poi compiere tutti questi abomini.
Forse è una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che prende il nome da me? Anch'io, ecco, vedo tutto questo.

Dal Vangelo di Giovanni,( II. 13- 17)
Gesù scaccia i mercanti dal Tempio,
   Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.   Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco.  Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del Tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi,  e ai venditori di colombe disse: "Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato".
 ( cfr. anche Marco, XI, 15-33 e Luca, XIX, 45-48)

Poiché oggi parleremo con Tomaso Montanari del significato dell’arte e della storia dell’arte come conoscenza e come elevazione culturale e spirituale degli uomini, ci sembrava interessante collegare questo brano di Matteo ad un pittore  considerato uno degli iniziatori  in pittura del Rinascimento: Masaccio.
Forse non tutti sanno il motivo per cui questo rivoluzionario pittore si chiamasse Masaccio:  egli nacque il 21 dicembre 1401 a S. Giovanni Valdarno proprio nel giorno nel quale il calendario liturgico della Chiesa celebrava, allora, la festa di S. Tommaso apostolo.
Per questo ebbe  il nome di Tommaso.  Questo suo nome verrà poi storpiato nel soprannome Tommasaccio  e quest’ultimo ancora abbreviato in  Masaccio. Tutto questo non perché fosse cattivo o prepotente, ma perché non curava il suo aspetto esteriore e perché dedicandosi interamente alla pittura trascurava i suoi interessi materiali come ci riferisce  Giorgio Vasari  ne Le Vite… ( la prima grande storia dell’arte e biografia degli artisti,1568):
  «Fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che, avendo fisso tutto l'animo e la volontà alle cose dell'arte sola. Si curava poco di sé e manco d'altrui. E perché e' non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da' suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo, per Tommaso che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio. Non già perché e' fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine; con la quale niente di manco era egli tanto amorevole nel fare altrui servizio e piacere, che più oltre non può bramarsi.»
Ma nonostante questa sua “straccurataggine” egli  ci ha lasciato a Firenze lo straordinario e rivoluzionario  ciclo di affreschi realizzato nella Cappella Brancacci alla Chiesa del Carmine.
Questo tema della vita mortificata o compromessa dalla ricerca della ricchezza è antico, come dimostra per esempio il mito del Re Mida oggetto spesso di rappresentazioni pittoriche di illustri artisti.  Ci sembra significativo il brano con cui Tomaso Montanari illustra e racconta ai bambini in una rubrica del lunedì de “Il fatto Quotidiano”  la favola del Re Mida rappresentata in un quadro del celebre pittore  Poussin:

«C’era una volta un re. Si chiamava Mida, e regnava sulla Frigia. Un giorno, alcuni contadini gli condussero un prigioniero. Era un vecchio, e si chiamava Sileno: l’avevano catturato mentre, ubriaco fradicio, dormiva nei campi. Ma re Mida era un re buono e festaiolo, e amava anche lui il vino. Così liberò Sileno, e anzi indisse una festa di dieci giorni e dieci notti in cui il vino scorreva a fiumi. Poi riaccompagnò Sileno a casa: la stessa casa dove abitava Bacco, il dio del vino.  Il dio fu così felice di rivedere il vecchio amico, che invitò Mida a scegliere un premio. Il re chiese: «Fai che tutto quello che tocco col mio corpo si trasformi in oro». Fu esaudito, ma presto si accorse di non poter mangiare né bere più nulla, perché tutto si trasformava in arido oro. Come si meritava, Mida era ossessionato dall’oro: ed ebbe paura di morire di sete e di fame.
Allora il re tornò di corsa da Bacco, disperato e pentito.
Per fortuna, gli dei sanno talvolta essere miti, e Bacco disse a Mida: «Vai alle sorgenti del fiume Pactolo, metti il capo sotto il fiotto dell’acqua e lava al tempo stesso il tuo corpo e la tua colpa».  Mida fece proprio così, e da allora si liberò e visse felice: ancora oggi egli vive in campagna e tra i boschi, e odia l’oro e la ricchezza.
Anche i pittori raccontano le favole, e il più grande favoleggiatore di tutti i pittori, si chiama Nicolas Poussin. Poussin aveva il dono di farci vedere i pensieri degli uomini che dipingeva, e di farci vedere anche l’anima della natura in cui gli uomini vivono.
In questo quadro vediamo il re Mida in ginocchio, nudo, mentre si offre a questa specie di battesimo, di rinascita alla natura. Poussin amava molto le statue degli antichi romani, e proprio come loro rappresentava i fiumi in un modo strano e poetico: come dei signori nudi e sdraiati che versano acqua da un vaso.
Sembra di sentire il rumore del vento tra gli alberi, il gorgoglìo delle fonti che sgorgano dalle anfore del vecchio Pactolo sdraiato, e le chiacchiere dei putti birichini che lo accompagnano. L’unico oro che vediamo sono le pagliuzze che l’acqua porta via, e soprattutto l’oro leggero che piove dal cielo, nella luce del tramonto struggente che bagna il tronco dell’albero e scalda il corpo e il cuore di Mida pentito.
La pittura dolce e gentile di Poussin ha un messaggio per noi: la comunione con la natura ci libera dalla schiavitù dell’oro.
C’era una volta, la comunione con la natura. Dovrà tornare ad esserci, in futuro. Se lo vogliamo, un futuro. »

  1. Alcuni riferimenti essenziali in materia di tutela del Patrimonio culturale:                    
Per capire meglio il tema affrontato oggi con Tomaso Montanari vorremmo ricordare che già molti secoli fa si è avuta l’dea dell’importanza del patrimonio artistico ereditato dal passato  in quanto memoria, ricordo e testimonianza delle generazioni che ci hanno preceduto e come ’elemento identitario da un punto di vista culturale che ci ha plasmato e ci plasma.  La stessa parola “monumento” entrata nel linguaggio comune per definire gli oggetti di particolare valore storico e artistico deriva dal latino “memento”, cioè ciò che fa ricordare, ricordo e quindi memoria, documento.  Le opere d’arte oltre che per il loro contenuto estetico, cioè di bellezza, proprio perché sono state il modo più efficace per narrare e parlare anche a chi non conosceva la lingua scritta, costituiscono anche un importante elemento di documento delle civiltà che ci hanno preceduto.  
Proprio Tomaso Montanari in uno dei suoi bellissimi articoli con i quali illustra ai bambini alcuni episodi della storia dell’arte, ha spiegato il concetto di monumento come “ una memoria che si tocca” ( Cfr. Tomaso Montanari, In Chiesa soffia il vento (e il tempo) , in « Il Fatto Quotidiano», lunedì 26 novembre 2012).

Per questi motivi già dal Rinascimento  si è sempre più sviluppata l’idea della salvaguardia e conservazione del patrimonio artistico, dei monumenti e delle città che li ospitano, non solo per il loro valore patrimoniale, o per l’attrattiva verso i visitatori stranieri, o perché fonte di modelli illustri per il progresso dell’arte, ma anche e soprattutto in quanto elemento di civiltà di un popolo.
Questo concetto viene chiaramente espresso  per la prima volta in un decreto della Convenzione francese (l’organo legislativo della fase della rivoluzione Francese più improntati ai principii democratici dei Giacobini) emanato nel 1793 che rivolgendosi ai funzionari che dovevano tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione  così giustificava l’azione di tutela dello Stato: "Voi  siete i depositari di un patrimonio del quale la grande famiglia ha il diritto di domandarvi il rendiconto. I barbari e gli schiavi detestano le scienze e distruggono i monumenti dell'arte, gli uomini liberi li amano e li conservano".
Questo concetto si è andato sempre più precisando nel corso dell’Ottocento e del Novecento.
In Inghilterra, John Ruskin, nella sua battaglia condotta alla metà dell’Ottocento con altri intellettuali e artisti in difesa dei monumenti antichi, arrivava a giustificare la necessità della tutela dei monumenti con il concetto importante che i contemporanei non sono mai proprietari, ma usufruttuari del patrimonio del loro paese:
«  [i monumenti] Non sono nostri. Essi appartengono in parte a coloro  che li costruirono, e in parte a tutte le generazioni degli uomini che dovranno venire dopo di noi »
(John Ruskin, Le sette lampade dell'Architettura, 1849, cap. VI, paragrafo XX).

Nei primi anni del Novecente nell’Impero Asburgico alcuni storici dell’arte come Aloisi Riegl (Linz 1858-Vienna 1905) e suoi allievi, contribuirono a dare un fondamento teorico più articolato all’azione di tutela del patrimonio storico artistico da parte dello Stato attraverso per esempio una rivoluzionaria definizione di monumento :
 « Un monumento ... è ogni opera (sia mobile sia immobile) della mano dell'uomo dalla cui realizzazione siano trascorsi almeno 60 anni ».
( Questa definizione coniata da Riegl e spiegata in un testo introduttivo alla legge intitolato Il culto moderno dei monumenti,  è inserita all’ art. 1 della legge di tutela dei monumenti redatta da Riegl ed emanata nel 1908 dall’Impero d’Austria e Ungheria).
Un allievo di Riegl, Max Dvořák , nel 1916 redasse un  Catechismo per la tutela dei monumenti, un importantissimo testo illustrativo delle modalità con cui l’azione statale  di tutela avrebbe dovuto fronteggiare gli effetti negativi della nuova società industriale sulle città storiche europee, che metteva in guardia contro i pericoli maggiori che  allora, e potremmo dire ancora oggi, mettevano a rischio i monumenti : 1. Pericoli provenienti da malintese idee di progresso e da presunte esigenze dell’età moderna.  2. Pericoli provenienti dall’avidità e dall’inganno.  3. Pericoli che provengono dalla mania di abbellimento e di rinnovamento fuori luogo e dal cattivo gusto.
(Max Dvořák,Catechismo per la tutela dei monumenti, [1916], in «Paragone»,arte, XXII 1971, n.257, pp.28-63).

Anche nel nostro paese le leggi di tutela dall’inizio del 900 ai nostri giorni hanno recepito sempre meglio questi importanti principi:  dalla prima legge di tutela dei monumenti storici e artistici faticosamente varata nel 1902, alle importanti leggi del 1939-42, fino al vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42),
In particolare la nostra Costituzione  repubblicana, unica al mondo,  ha inserito l’attività di tutela del patrimonio storico artistico fra i suoi principi fondamentali. L’art. 9 recita così:
 «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione ».

La grande novità di questo articolo, e in particolare il suo significato più importante anche ai fini del discorso che oggi cerchiamo di sviluppare, è così bene sintetizzata da Salvatore Settis:

«Cultura, ricerca, tutela contribuiscono al “progresso spirituale della società”(art.4) e allo sviluppo della personalità individuale (art.3), legandosi strettamente alla libertà di pensiero (art.21) e di insegnamento ed esercizio delle arti(art. 33), all’autonomia delle università, alla centralità della scuola pubblica statale, al diritto allo studio (art. 34). Dando tanto risalto al paesaggio e al patrimonio artistico, la Costituzione è in sintonia con grandi tendenze culturali del nostro tempo, secondo cui la tutela di questi beni e valori non va intesa solo sotto la specie della “bellezza”, ma anche come strumento di educazione all’etica pubblica».  
(da S.Settis, Azione  popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi, 2012, p.130).

  1.  Tomaso Montanari: un modo nuovo di intendere il ruolo dello studioso d’arte nella   conoscenza e nella tutela del patrimonio storico artistico e un’intensa attività di cittadino in difesa di questo bene comune  attraverso il suo ultimo libro
Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane,(Roma, Minimum fax, 2013).

Proprio in questi giorni le notizie riportate con risalto dalla stampa della nostra città  che parlano di una parte importante del centro storico di Firenze “affittato” ad un ricco principe indiano per la festa di nozze del figlio, ripropongono con forza i temi della tutela del patrimonio di storia e di arte delle nostre città come bene comune che sono alla base dell’attività di studioso dell’arte e di cittadino espletata da tempo e con raro impegno da Tomaso Montanari e che trova come ultimo atto il suo volume appena pubblicato.
Lo abbiamo invitato oggi a illustrarci questo suo feroce pamphlet col quale si tenta di dare una risposta ad alcuni importanti interrogativi: 
Il patrimonio storico artistico serve a produrre cultura e cittadinanza (secondo quanto sancito nella Costituzione italiana) o denaro?
È un lusso o un diritto? È un bene comune o un bene di mercato?
Le città d’arte devono contribuire alla crescita della ”civitas” o dei “luna park” a pagamento? Rimanere cittadini attivi o diventare clienti passivi?

Questa problematica è dibattuta da Montanari in numerosi articoli recenti, tuttavia vorremmo fra questi materiali per l’assemblea di oggi riportare un altro testo della sua rubrica “lasciate che i bambini” in cui si parla del dramma del centro storico dell’Aquila distrutto dal recente terremoto, che aspetta ancora di essere restituito ai cittadini e per il quale lo stesso Montanari ha organizzato un grande evento chiamando all’Aquila il 5 maggio gli storici dell’arte  e i rappresentanti delle associazioni che si occupano della tutela del patrimonio culturale, per chiedere con forza l’inizio del restauro e del recupero della città.

Mamma, papà. Portatemi all’Aquila. 
C’ERA UNA VOLTA UN RE . Anzi, il re. E ora non c’è più.
Perché? Perché, cari bambini, il re ora siamo noi: tutti noi, e anche voi siete dei piccoli re,o delle piccole regine. Quando c’era, il re abitava in un grandissimo palazzo, che lo separava da tutto. Quel palazzo faceva capire che lui era diverso da tutti gli altri.
Oggi, i nuovi re (che siamo tutti noi) abitano nelle città: siamo re, perché siamo cittadini.
Le città ci fanno tutti eguali perché hanno dei luoghi (le piazze, per esempio) che ci permettono di incontrarci alla pari: non come in un supermercato (dove siamo clienti), o allo stadio (dove siamo spettatori, o tifosi).  Nelle piazze delle nostre città siamo cittadini.
E poi le città hanno dei palazzi e delle chiese che sono particolarmente belli, perché sono di tutti: sono come i palazzi reali dei cittadini.   E l’Italia è così bella perché le nostre città sono state costruite dagli architetti, dagli scultori, dai pittori più bravi del mondo.
M O LT I di voi lo hanno già imparato: capiamo l’importanza delle persone e delle cose quando non ci sono più. Allora, per capire quanto è importante la città, chiedete ai vostri genitori di portarvi all’Aquila.    Anche se non è facile perché l’Aquila non c’è più.
Almeno altre due volte, nella sua lunga storia, l’Aquila è stata distrutta dal terremoto. Ma è stata ricostruita.  Dopo il terremoto di tre anni fa, invece, non lo si è fatto. Si è preferito spostare i cittadini, e portarli in case di cemento tutte uguali: senza piazze, senza chiese, senza quei palazzi di tutti che rendono città le città.   Ci sono bambini di tre anni che non sanno cos’è una città: e che non diventeranno re, perché non cresceranno come cittadini.
E L’AQ U I L A? L’Aquila è ancora tutta rotta. Ma è ancora bellissima, anche se è rotta.  Anche se nevica sugli angeli dorati del Duomo senza tetto. Anche se ogni tanto si butta giù un palazzo ferito, invece di ricostruirlo. Nessuno spiega perché, nessuno spiega cosa succederà domani: non ci sono più cittadini a cui dirlo, non ci sono più cittadini che possano decidere.
Nel Duomo, dentro un cassetto, c’è un quadro di un pittore con un nome strano, Teofilo Patini. Quel quadro è tutto ridotto a pezzettini quasi neri.  Nessuno sa se quel quadro tornerà intero, né se ritroverà l’altare su cui si trovava.  Ma chi ha raccolto e messo in ordine quei brandelli di storia crede che in quel cassetto ci sia il nostro futuro,non il nostro passato.
Se volete diventare dei bravi re, avete bisogno delle nostre città. A cominciare dall’Aquila.
( Tomaso Montanari, in “lasciate che i bambini”, «Il fatto quotidiano» lunedì 10 dicembre 2012)


Per una sintetica biografia di Tommaso Montanari siamo ricorsi a quella riportata da lui stesso nel suo blog:
Sono nato nel 1971 a Firenze, dove vivo. Studio il Barocco romano e insegno Storia dell'Arte Moderna all'Università ‘Federico II’ di Napoli.
Sono convinto che gli storici dell’arte servano a fare entrare le opere d'arte nella vita intellettuale ed emotiva di chi si occupa di tutt'altro.
Penso anche che l’amore per la storia dell’arte non debba essere un fatto privato (o peggio un’evasione, o un modo per non pensare), ma pubblico e ‘politico’. L’articolo 9 della Costituzione ha, infatti, mutato irreversibilmente il ruolo del patrimonio storico e artistico italiano, facendone un segno visibile della sovranità dei cittadini, dell’unità nazionale, e dell’eguaglianza costituzionale, perché ciascuno di noi (povero o ricco, uomo o donna, cattolico o musulmano, colto o incolto) ne è egualmente proprietario.
Ma tutto questo è assai difficile da capire, perché oggi la storia dell’arte non è più un sapere critico, ma un’industria dell’intrattenimento ‘culturale’ (e dunque fattore di alienazione, di regressione intellettuale e di programmatico ottundimento del senso critico). Strumentalizzata dal potere politico e religioso, banalizzata dai media e sfruttata dall’università, la storia dell’arte è ormai una escort di lusso della vita culturale.
È per questo che oggi non basta fare ricerca e insegnare, ed è per questo che ho scritto “A cosa serve Michelangelo?” (Einaudi 2011) e collaboro col “Fatto”, con “Saturno” e col “Corriere della Sera” nelle edizioni di Firenze e di Napoli.



  1. Patrimonio artistico: bene collettivo vs privatizzazione. Alcuni riferimenti bibliografici e strumenti per eventuali approfondimenti.
Oltre alle opere citate di Tomaso Montanari  al suo blog (www.ilfattoquotidiano.it/blog/tmontanari/ ) si segnalano anche questi testi.
A.Cederna, I vandali in casa. Cinquant’anni dopo, a cura di F. Erbani, Roma bari, Laterza, 2006: S. Settis,  Italia S.p.a.: l’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002, Idem, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Totino, Einaudi, 2010; Idem, Azione popolare . Cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi, 2012; G.A. Stella-S.Rizzo, Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia, Milano, Rizzoli, 2011. 
Inoltre sono attivi molti siti che si occupano di queste problematiche segnaliamo per tutti quello attivato a Pisa:  patrimonio sos: in difesa dei beni culturali e ambientali, www.patrimoniosos.it .








domenica 21 aprile 2013


Il parroco della chiesa dell’Isolotto in Firenze ha esposto sulla facciata della chiesa un grande manifesto in cui rivendica uno spazio di proprietà della parrocchia sul quale si trova il laboratorio dell’associazione “ Lidi”,  un’ esperienza di inserimento al lavoro di persone “invalide”  tuttora in attività, per  farne un “oratorio” e uno “spogliatoio” annesso al campo da calcio della parrocchia. La Comunità dell’Isolotto è intervenuta con il seguente documento:
Lettera aperta della comunità dell’Isolotto a
don. Piero Sabatini parroco della chiesa B.M.V.Madre delle Grazie

Il grande manifesto che spicca sulla facciata grigia della chiesa dell’Isolotto  ha raggiunto lo scopo di attrarre l’attenzione, anche nostra, e riteniamo di dover esprimere  alcune riflessioni in proposito.
Quando la comunità parrocchiale (e non solo il parroco Enzo Mazzi) decise di mettere a disposizione spazi e risorse per affrontare i bisogni della popolazione del quartiere  “e non solo” , fece la scelta consapevole di aprire la parrocchia alla collaborazione aperta con tutte le realtà del territorio per affrontare insieme i problemi che emergevano. Allora i locali che oggi chiamiamo “ la fiaba” e che erano destinati al “cinema parrocchiale” furono messi a disposizione per affrontare il problema “lavoro”, e le numerose stanze della canonica ospitarono:
- il primo “centro sociale”dove assistenti sociali operavano a servizio della popolazione in difficoltà,
-la prima “scuola materna” del quartiere a sostegno delle madri lavoratrici,
-“case famiglia “ per minori abbandonati,
-“spazi di ospitalità” per ex carcerati.
 Fu in questo spirito di solidarietà e di collaborazione che nacque anche il laboratorio per l’inserimento al lavoro dei disabili che allora erano segregati nelle case, fuori dai luoghi della vita, del lavoro, della scuola.
Quando progettammo il laboratorio e fondammo l’associazione “Lidi” eravamo in tanti a collaborare all’iniziativa : un gruppo molto vivo di persone “ invalide” (come allora venivano chiamate), la parrocchia, il comune di Firenze, operatori sociali, operatori sanitari. L’esperienza voleva dimostrare che potevano lavorare e insieme rivendicare il loro diritto all’autodeterminazione e all’autonomia: non aveva dunque principalmente uno scopo umanitario - assistenziale, l’obbiettivo era mettersi insieme per rivendicare dignità e diritti. Dal laboratorio sono nate tante mobilitazioni che hanno contribuito, insieme ad altri, a far approvare la legge per l’obbligo al loro inserimento al lavoro sia nel pubblico che per i privati.
La parrocchia mise a disposizione il terreno con un regolare contratto di affitto che ne garantisse l’autonomia, il comune costruì la struttura, che non è dunque della parrocchia ma dell’ente locale. (Oggi dunque don Piero dovrebbe riflettere di più nel rivendicare quella struttura  per un fine diverso da quello per cui fu costruita. )
 Così nacque il Lidi, un’ esperienza feconda che è cresciuta con il contributo dell’ impegno volontario e della generosità della magnifica popolazione del nostro quartiere.
La scelta consapevole di tutta la comunità parrocchiale fu allora di rifiutare ogni forma di attivismo separato ( oratorio, calcetto,campo sportivo, cinema ) volto ad attirare verso la parrocchia i giovani e la popolazione in antagonismo alle case del popolo, per realizzare un impegno aperto per il cambiamento e la difesa dei diritti e del bene comune  e per costruire una “ comunità –quartiere”.
Da allora molte cose sono cambiate, grazie alle tante collaborazioni l’Isolotto (come parte del  quartiere 4) è diventato un quartiere apprezzato da molti e che sempre più persone  scelgono per abitare.
Dove vede don Piero il degrado? Sul nostro territorio luoghi per coltivare sport ce ne sono come in nessun altro.  La cura del verde,i giardini fioriti, il “viale dei bambini”  che non esiste in nessun’ altra parte della città e che ha visto crescere generazioni di bambini e  di nonni che hanno insieme intrecciato giochi e serenità .
 E poi i centri per anziani, animazioni, palestre,  la biblioteca più frequentata e ben animata di Firenze, il centro per la musica così apprezzato dai giovani.
E ancora  luoghi di incontro e di dibattito come i locali del consiglio di quartiere, le baracche verdi, il proliferare di  associazioni culturali, di impegno nel sociale, di collaborazione con le scuole. E inoltre i servizi decentrati sul territorio e molto altro : questo è oggi il Q4 e dunque l’Isolotto.
Certo, siamo d’accordo, si può sempre migliorare, il problema dei locali di viale dei pini per esempio ci vede tutti impegnati a valorizzarli  per  affrontare i bisogni degli abitanti, ma la richiesta accolta dalla amministrazione comunale e dal consiglio di quartiere dopo numerosi incontri, è di mantenerne il carattere culturale e la specificità di spazio gestito congiuntamente dalla pubblica amministrazione e da associazioni che intendono animarlo anche come luogo della socialità, questo sì molto utile oggi nel vecchio isolotto.
Quanto al degrado provi don Piero a percorrere le strade, le piazze, i giardini, i luoghi della socialità e dell’impegno insieme agli/alle altre, provi a riscoprire  il valore del “vivere con”, provi a  confrontarsi con i gravi problemi dell’oggi: casa, lavoro, assistenza, riduzione dei servizi, precarietà ed impoverimento diffuso e magari scoprirebbe quanto  sia importante  mettere la sua disponibilità al servizio del LIDI magari per sostenerlo ed animarlo invece di scacciarlo per affermare il  diritto di proprietà o per farne un oratorio e uno spogliatoio: noi sappiamo bene che i locali di cui dispone in canonica sono molti ed ampi .
Ed in fine perché scomodare Giorgio La Pira per rivendicare la proprietà privata? Pensa veramente che “Giorgio La Pira si riconoscerebbe nelle sue rivendicazioni?
Nella nostra storia abbiamo conosciuto lo sfratto di un popolo dalle mura della chiesa per mezzo della forza pubblica, non vorremmo vedere ancora altri “sfratti” perpetrati da un chiesa che continua a lasciare fuori qualcuno. Se la chiesa si apre allora nessuno rimarrà fuori! 
La strada, la piazza, sono state la nostra ricchezza e la nostra salvezza. Alla comunità parrocchiale e a don Piero  consigliamo di seguire questi percorsi liberanti e di collaborare con tutte/i le donne e gli uomini di buona volontà come ci suggerisce il vangelo.

La comunità dell’Isolotto riunita in assemblea
Domenica 14 aprile 2013

sabato 20 aprile 2013

Le pietre e il popolo


Il patrimonio storico artistico serve a produrre cultura e cittadinanza (secondo quanto sancito nella Costituzione italiana) o denaro?
È un lusso o un diritto? È un bene comune o un bene di mercato?
Le città d’arte devono contribuire alla crescita della ”civitas” o dei “luna park” a pagamento? Rimanere cittadini attivi o diventare clienti passivi? 
Nel corso della Assemblea della Comunità dell’Isolotto,
domenica 21 aprile 2013 ore 10:30, cercheremo di riflettere su questi interrogativi con l’aiuto dello storico dell’arte Tomaso Montanari e del suo libro, appena pubblicato, 
Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (Minimum fax, Roma 2013)

Paola e Mario
Nota: blog di Tomaso Montanari: http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/tmontanari/

Cinque per mille alla Comunità


A tutti coloro che vorranno scegliere la sottoscrizione del 5x1000 alla ONLUS
della Comunità dell'Isolotto " Centro Educativo Popolare" ricordiamo i seguenti dati:
5 per mille al
Centro Educativo Popolare
(Associazione di volontariato collegata alla Comunità Isolotto-Firenze) 
Codice fiscale: 94003470484 (solo numerico)
intestato allo stesso Centro educativo popolare

venerdì 5 aprile 2013

Incontro di eletti ed elettori



La Comunità  dell'Isolotto promuove un incontro con esponenti eletti e non eletti che sono l'espressione delle forze politiche, sociali e del volontariato, impegnate sul territorio nell'opera di profondo cambiamento  ormai non più eludibile
 per venerdì 12 aprile alle ore 21
presso la sede della Comunità  in via degli aceri 1 - Firenze
( v.mappa )
L’iniziativa scaturisce dalla sollecitazione venuta da più parti a dare seguito Al nostro documento“INSIEME SI PUO’ “ ed ha lo scopo di favorire il reciproco ascolto, di condividere le speranze e l’impegno di tutti/e noi, di capire se e come si può realizzare l’appello che proponiamo, nello spirito secondo il quale “ affrontare i problemi da soli è egoismo, uscirne insieme è politica”

Il nostro appello
A chi ha votato e a chi non è andato a votare, a chi è stato eletto e a chi è rimasto fuori,  a tutti coloro che pensano che un mondo nuovo è possibile rivolgiamo l’invito:
- ad avere la pazienza, la generosità  e la sapienza di riconoscere e valorizzare  le risorse positive degli/e uni/e e degli/e altri/e
- a lavorare cercando nuovi percorsi, mettendo in gioco competenze, collaborazioni, disponibilità, per cambiare le leggi in modo costruttivo,
- a non disperdere le nuove energie che si sono messe in gioco ed a mantenere una collaborazione costante ed attiva con i territori e le loro espressioni di partecipazione responsabile al bene comune.
Niente nuove elezioni, inciuci, distinguo, veti; molta creatività , costanza, generosità , pazienza, ma anche concretezza e aderenza ai problemi ed ai contesti reali, impegno a crescere insieme ed a rendere alla politica il suo vero significato di luogo per il raggiungimento della felicità .

Hanno accolto il nostro invito:
Elisa Simoni, deputata Pd
Marisa Nicchi, deputata Sel
Maurizio Romani, senatore Cinquestelle
Giovanni Scotto, Presidente - Corso di Laurea "Sviluppo economico, Cooperazione internazionale, sociale e sanitaria  e gestione dei conflitti" - dell'Università  di Firenze (Facoltà  di Scienze della formazione)

mercoledì 3 aprile 2013

Pasqua di resurrezione – Pasqua di liberazione



COMUNITA’ DELL’ISOLOTTO
31 Marzo 2013- domenica di Pasqua
Gruppo: Tina – Paola -  Adriana – Carmen – Luciana - Francesca


Pasqua di resurrezione – Pasqua di liberazione
Testimonianze e riflessioni di donne


Questa mattina   facciamo nostra la liturgia cristiana riscoprendone la dimensione antropologica ma anche reinterpretandone il contenuto ed il messaggio nel segno dell’attualità della nostra cultura e del cammino  creativo  di ciascuno di noi e della comunità umana nel suo insieme.
Di fronte agli avvenimenti dell’oggi  vivere questa  Pasqua di resurrezione significa per noi leggere gli avvenimenti attuali come la fecondità di un cammino che ci ha visti protagonisti, un cammino lungo e difficile ma certamente gratificante e profetico.

Dal vangelo di  Matteo

Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù.  Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole.  Esse dicevano tra loro: “Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro? ”.  Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande.  Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura.  Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto.  Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”.  Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura.
Apparizioni di Gesù
Risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Màgdala, dalla quale aveva cacciato sette dèmoni. Questa andò ad annunziarlo ai suoi seguaci che erano in lutto e in pianto.  Ma essi, udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere.
Dopo ciò, apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna. Anch’essi ritornarono ad annunziarlo agli altri; ma neanche a loro vollero credere.
Alla fine apparve agli undici, mentre stavano a mensa, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato.

 A commento di questo testo in cui la profezia di  resurrezione annunciata da donne ed uomini non viene riconosciuta e valorizzata, vorremmo rileggere brani di riflessioni che raccoglievano le “nostre” parole profetiche e che oggi , dopo anni, hanno acquistato valore e senso per tante/i e stanno diventando sempre più attuali.



OGGI la memoria - la resurrezione – la profezia -

Così commentava Enzo  durante l’assemblea della  Pasqua 2006
La Pasqua è attesa.
Il racconto evangelico della resurrezione è simbolico. Non è storico. E fra gli elementi simbolici del racconto c’è proprio il senso positivo dell’attesa, il valore dell’attesa. Le donne e gli uomini del movimento di Gesù devono vivere il tempo angoscioso dell’attesa. Tre giorni di attesa e di angoscia, tre giorni di sepoltura delle speranze dopo la crocifissione. Tre giorni simbolici che possono significare un attimo come mille anni.
Lo stesso vale per i sette giorni di attesa di Noè nel racconto del diluvio e della colomba.
La simbologia evangelica della resurrezione si è legata poi nella storia e nella cultura a un’altra simbologia ancestrale: l’uovo. In molte tradizioni e miti antichissimi la natura intera ha origine da un uovo cosmico. E l’uovo simboleggia proprio il tempo dell’attesa, attesa nascosta, oscura, prima che la vita si sviluppi in tutto il suo splendore. E’ il tempo della cova. L’uovo cosmico deve “riposare” un tempo indeterminato prima di esprimere la sua fecondità.
La resurrezione non sta nel miracolo, come invece ci hanno fatto credere. Sta piuttosto nel valore dell’attesa, attesa attiva. Fino a configurare la resurrezione stessa come perenne “cova”, come sepolcro vuoto.
Le analogie di queste simbologie con la realtà attuale sono assai evidenti.
Anche noi viviamo un tempo di attesa. E’ un’attesa attiva. E’ una scommessa. E’ una cova.
Non ci arrendiamo e continuiamo a scommettere sul sepolcro vuoto, sull’uovo e sulla colomba, animando mille e mille esperienze di attesa positiva e attiva, di solidarietà, di risanamento delle ferite, di liberazione dalla paura, di ricerca di percorsi di pacificazione nella giustizia.






Rileggiamo in chiave di “resurrezione” gli interventi ed i messaggi espressi da donne e uomini della comunità   presenti  in un incontro in piazza sul tema  La profezia e il muro”
 (leggiamo in cerchio)

La profezia è carisma ed espressione di un servizio, quindi è responsabilità, non è privilegio, perché il profeta è sempre incompreso, perseguitato, scacciato, non ascoltato.

La comunicazione profetica, nella Bibbia, si compone sempre di parole e fatti. I profeti non parlano soltanto ma compiono gesti.

La profezia è impegno a riflettere, per comprendere in profondità, per progettare con razionalità autentica.

La profezia è intuizione, riflessione, socializzazione testimonianza.....
Dunque è prima responsabilità e poi dono.

Profezia non è preveggenza. E' molto più vicina ad una "traccia" per interpretare la realtà, una chiave di interpretazione della realtà che può riguardare la fede o altri aspetti della vita.

Profezia è come un cannocchiale che ti fa vedere più in là.

Comprendo e constato la difficoltà a portare la profezia nella vita quotidiana.

Per comunicare un messaggio non bastano le parole. Le parole non riescono ad esprimere tutti i contenuti che vorrei comunicare. La limitatezza del linguaggio non permette di comprendere un messaggio fatto di sole parole.

La profezia è, secondo me, l'intuizione di leggi universali. Queste, calate nella realtà, possono produrre effetti pratici positivi. La profezia è la percezione di alcune leggi immanenti e la loro applicazione al contingente.

Profezia è riuscire a capire in che modo si può attaccare l'ostacolo,
IL MURO che ci impedisce di comunicare; oppure come si può trasformarlo
in strumento di comunicazione.

Si devono abbandonare le concezioni individualistiche e leaderistiche della profezia, a cui si aderisce affidandosi passivamente.

Le religioni hanno avuto origine da profezie positive e liberatorie... la chiesa è diventata un muro... si è trasformata in scatole... in prigione.

Ogni persona è profeta, ogni persona possiede il carisma della profezia.

Ogni persona è per l'altra portatrice di messaggi, di coerenze, di testimonianze profetiche. Ogni TU che mi sta di fronte è un profeta perché mi arricchisce, mi presenta aspetti sconosciuti della mia stessa realtà e della vita. Ed io sono profeta per l'altro, su un piano di parità, nella valorizzazione delle specificità di ognuno.

La profezia è spesso conflittuale,perché il messaggio dell' "altro" sconvolge il mio "io", scombussola i miei piani, mi costringe a rimettermi in discussione. Per questo la profezia è difficile da accogliere e accettare.

La profezia è sempre comunitaria, perché è essenzialmente rapporto, comunicazione, dare e ricevere.

Per me la profezia nasce anche dal desiderio di ideali che ciascuno/a si porta dentro.

La profezia può essere un modo per dare uno sbocco positivo di denuncia, di speranza, d'impegno, alla frustrazione che deriva dal non vedere realizzati quegli ideali.

La carica di ideali che sono in noi ci spinge ad andare oltre la frustrazione che ci viene da una realtà ancora tanto distante da quegli stessi ideali.


OGGI PAROLE DI DONNE : il coraggio del dire e del fare

Desideriamo riflettere sul messaggio di liberazione e di resurrezione dei tanti eventi del presente attraverso una lettura al femminile perché riteniamo sia giusto riconoscere a noi donne l’autorevolezza che ci appartiene. Autorevolezza di profezie, di silenzi e di gesti  di donne di tutto il mondo che oggi assumono un significato liberatorio e rivoluzionario per una prassi di cambiamento reale e concreto.

Antonietta Potente  è una teologa e religiosa italiana. Fa parte della congregazione dell'Unione delle Suore Domenicane di San Tommaso d'Aquino. Attualmente insegna teologia presso l'Università cattolica di Cochabamba e collabora con l'Istituto ecumenico di teologia andina di

*Scrive a proposito del concilio:
Non aver toccato nulla di quella struttura costantiniana della chiesa, è stato ciò che ha permesso, piano, piano, l’oblio dello Spirito del Concilio fino ad oggi, ma è anche quell'aspetto che ha reso il dialogo con la storia sempre più debole e il ritorno a trattare con il mondo come "minore d'età", infantile, sempre bisognoso di guida speciale, oltre a far sì che - cosa gravissima- la chiesa rimanga fino ad oggi, una delle strutture più maschiliste della storia. Infatti, la chiesa cattolica è una chiesa senza donne, se non quelle che sostengono fedelmente le chiese locali, le parrocchie durante le messe, ma in realtà, nelle sue decisioni, è senza donne. La chiesa cattolica è in qualche modo guidata solo da una comunità uomini, maschi. Le sue decisioni passano solo da loro e allora si capisce perché il suo il messaggio, la sua ermeneutica teologica e storica è così incompleta, lontano dalla realtà. Questa chiesa attuale, così rappresentata, quella delle conferenze episcopali; dei documenti, delle dichiarazioni e dei portavoci, è portata avanti da soli uomini e ignora totalmente che le prime a richiamare i discepoli dispersi, le prime a far la vera “dichiarazione” dopo la morte di Gesù, furono le donne. Ricordiamoci che nell’antichità, era normale chiamare Maria di Magdala - e non Pietro – apostola degli apostoli
…..Sembra un paradosso ma è da notare: il termine coniato nel 1869 dal tedesco Benkert, "omosessuali", simile-sesso, cioè persone che hanno lo stesso sesso, oggi lo ritroviamo con una comunità credente guidata solo da "persone dello stesso sesso", proprio loro che combattono l’omosessualità come l'anormalità più assoluta. Che strano! *
Mi domando se proprio di fronte a questo tipo di chiesa nata da fonti anteriori e non dalle prime, non si debba fare ciò che chiedeva Girolamo Savonarola ai suoi contemporanei, quando percepiva che i credenti non riuscivano a staccarsi dallo sfarzo del potere, dei privilegi e dunque dei riconoscimenti. "Ignorateli"… quando li vedete passare… ignorateli…
E per questo, direbbe Savonarola… Quando passano tutti vestiti in quel modo, "ignorateli", se non gli ignoriamo noi siamo invidiosi, vuol dire che comunque aspiriamo a continuare a perpetuare, per paura, la stessa situazione.
Certamente, questo è solo un difetto del Concilio, e bisogna ammettere che forse la parte più bella e riscattabile è proprio quella di cui si parla meno: Il Concilio, come tutte le cose belle della storia, ci consegnò un metodo che andava applicato per provocare trasformazioni, nella storia e nella chiesa stessa. Il metodo del distinguere.
Il Concilio ci insegnò il metodo mistico-politico del fare teologia e del vivere la spiritualità, in questo modo. Ci insegnò il metodo della  solidarietà umana e non dell’elemosina, dell’essere uguali e differenti; ci insegnò il metodo del dialogo con la storia. Con il concilio non cambiò tutto,  perché quel metodo doveva servire a far sì che noi continuassimo a cambiare…


Ivone Gebara,  una suora brasiliana che è una delle più grandi teologhe dell’America Latina e vive in un quartiere povero a Camaragibe, in Brasile.
Così si esprime a proposito dell’elezione di un nuovo papa
*……Mi piacerebbe che la lodevole decisione di rinuncia di Benedetto XVI potesse essere vissuta come un momento privilegiato per invitare le comunità cattoliche a ripensare le loro strutture di governo e i privilegi medievali che caratterizzano ancora questa struttura. Questi privilegi, tanto dal punto di vista economico quanto politico e socioculturale, fanno del papato e del Vaticano uno Stato maschile a parte. Ma uno Stato maschile con rappresentanza diplomatica influente e servito da migliaia di donne in tutto il mondo nelle differenti istanze della sua organizzazione. Questo fatto ci invita a ripensare il tipo di relazioni sociali di genere che questo Stato continua a mantenere nella storia sociale e politica attuale. *
C’è bisogno di mettere a confronto le strutture premoderne di questo potere religioso con le ansie democratiche dei nostri popoli alla ricerca di nuove forme di organizzazione che si adattano meglio ai tempi e ai gruppi plurali di oggi. Devono essere messe a confronto con le lotte delle donne, delle minoranze e maggioranze razziali, di persone di differente orientamento sessuale, di pensatori, scienziati e lavoratori delle più diverse professioni. Devono essere ripensate secondo la linea di un maggiore e più proficuo dialogo con altri credo religiosi e saggezze sparse per il mondo.
Per terminare, voglio tornare allo Spirito Santo, a questo vento che soffia in ognuna e in ognuno di noi, a questo soffio in noi, più grande in noi, che ci avvicina e ci fa interdipendenti da tutti i viventi. Un soffio di molte forme, colori, sapori e intensità. Soffio di compassione e tenerezza, soffio di uguaglianza e differenza. Questo soffio non può più essere usato per giustificare e mantenere strutture privilegiate di potere e tradizioni antiche o medievali come se fossero legge o norma indiscutibile e immutabile.
*Il vento, l’aria, lo spirito soffia dove vuole e nessuno deve osare esserne il padrone. Lo spirito è la forza che ci rende prossimi gli uni agli altri, è l’attrazione che permette che ci riconosciamo come simili e differenti, come amiche e amici e che insieme cerchiamo cammini di convivenza, di pace e giustizia.
Sono questi cammini dello spirito che permettono di reagire alle forze di oppressione che nascono dalla nostra stessa umanità, che ci spingono a denunciare le forze che impediscono la circolazione della linfa della vita, che ci guidano a portare allo scoperto i segreti occulti dei potenti. Per questo, lo spirito si manifesta in azioni di misericordia, nel pane condiviso, nel potere condiviso, nella cura delle ferite, nella riforma agraria, nel commercio giusto, nelle armi trasformate in aratri, infine, nella vita in abbondanza per tutti e tutte. Questo sembra essere il potere dello spirito in noi, potere che deve essere risvegliato in ogni nuovo momento della nostra storia e in noi, fra noi e per noi.
(Tratto da Adista, 14 febbraio) *
Barbara Mapelli: coautrice del libro  Silenzi  Non detti, reticenze e assenze
Di (tra) donne e uomini

Al capitolo -  percorsi di liberazione scrive:
*Continua in queste pagine un dialogo tra Elisabetta Cibelli e me iniziato in modo abbastanza casuale e poi proseguito, anche se con discontinuità, sul termine liberazione e sui suoi significati,non solo nel passato del Movimento femminista, ma sulla possibilità di riattualizzarlo, renderlo ancora fecondo nelle pratiche e nelle riflessioni delle donne nel contemporaneo. * Riprendere il discorso su una parola quasi dimenticata nel vocabolario femminista attuale e riprenderla in un dialogo tra due donne di generazioni diverse – circa vent’anni di differenza — trovandoci d'accordo sulla necessità e desiderio di rimetterla in uso, ci ha fatto pensare come questo termine, sostituito ad un certo punto della storia del movimento da libertà, continui ad avere un significato importante e possa ancora insegnarci qualcosa.
*Forse proprio ora, nel momento in cui si rende visibile nuovamente, e nelle forme di movimento, la presenza politica delle donne e  diverse generazioni si interrogano reciprocamente, verificano distanze, cercano o non cercano di renderle feconde, si legittimano o delegittimano a vicenda, forse proprio ora la riflessione sulla parola liberazione, sul suo significato anche nel presente, può dare un contributo, riaprire alcune zone di silenzio.* Mentre il senso più vitale della parola indica la necessità di un percorso, più percorsi in divenire, che si rinnovano nelle generazioni e preservano nel contempo alcuni caratteri e contenuti irrinunciabili. E tra questi -gli irrinunciabili appunto -ciò che rende il Movimento più fedele a se stesso e alle sue origini credo sia proprio la sapienza del sapersi mantenere dinamico, mutevole, nuovo a fronte della novità che ogni nuova nascita rappresenta.
E ancora alcune frasi scritte negli anni Settanta mi sembra indichino tuttora, attraverso il percorso di liberazione, i compiti e i desideri, i valori che accompagnano le costruzioni di identità e di storia delle diverse generazioni.
*Il femminile ha valore non perché non ha (il pene, la storia, la cultura, il potere, il privilegio), ma perché ha: occorre che per la liberazione abbia un segno diverso il valore della diversità, intesa non più come «mancanza», «menomazione», ma come ricchezza, come possibilità di ampliare le possibilità creative dell'intera società.
Pertanto, è proprio riconoscendo alle donne un compito storico di responsabilità verso l'umanità, che contribuisca a modificare la realtà e la gerarchia dei valori dell'ordine sociale esistente, che la lotta intrapresa acquista un valore intrinseco di trasformazione.*



Mary Hunt : teologa femminista di tradizione cattolico-romana, è membro del movimento per una chiesa delle donne (Women-Church Convergence), tiene conferenze e scrive libri di teologia e di etica, con particolare attenzione ai temi della liberazione.
Da un suo testo sui fatti del nuovo papato stralciamo
*La novità questa volta è che i cattolici comuni vogliono una nuova Chiesa, non solo un nuovo papa. Sappiamo che il cambiamento è nell’aria, perché noi l’abbiamo innescato. I cattolici progressisti di tutto il mondo stanno creando nuove forme di Chiesa, visto che la vecchia è tanto screditata.* Nessuna istituzione può resistere senza cambiare a un violento attacco di pubblicità negativa quale il Vaticano ha ricevuto a causa degli abusi sessuali del clero e delle coperture dei vescovi. Nessuna gerarchia, per quanto fortificata, può durare per sempre contro passi consapevoli nella direzione dell’uguaglianza e della giustizia. Stavolta, la sola elezione di un nuovo papa non è sufficiente. Né lo sarà chiudere sotto chiave un gruppo di elettori di élite, responsabili nel processo elettorale solo verso se stessi.
*Anche il popolo cattolico ha coscienza. Attendiamo di avere voce in capitolo nel modo di organizzarci e di governarci. Non possiamo, in coscienza, abdicare alla nostra autorità e affidarla a 117 uomini in maggioranza vecchi. Questi giorni sono finiti. Se un papa può abdicare prima di andarsene su un carro funebre senza che il cielo cada sopra di noi, allora nuovi modelli egualitari di Chiesa possono e potranno emergere.*
Sebbene la conoscenza del latino apparentemente non sia necessaria per i vertici della Chiesa, abbiamo molte persone – donne, uomini sposati, gay e lesbiche, bisessuali e transgender dichiaratamente cattolici – che sono “pronte e disposte” ad assumere il ministero e la guida. Ne conosco centinaia attivamente coinvolte in comunità di base, parrocchie, comunità religiose e gruppi sociali, che fanno un lavoro meraviglioso e vivono nuove forme di Chiesa.




OGGI LA CONVIVIALITA
(lettura comune)

Oggi Facciamo  memoria della resurrezione  di Cristo
come passaggio da un’identità parziale e limitata
ad una pluralità che abita tutti gli uomini, tutto l’universo.
Oggi la nostra vita si anima sempre più  di voci e di  identità diverse,
la molteplicità dei cammini ci fa incontrare donne e uomini,
bambine e bambini, diversi come noi,
che chiedono la parola, esigono riconoscimento
occupano spazi innovano linguaggi, pensieri,
comportamenti, tradizioni.
La presenza delle differenze che esiste da sempre
si è oggi arricchita di nuovi volti e di saperi “altri”.
Una società plurale e democratica ci impegna ad andare oltre l’esistente
a superare il conformismo e l’omologazione,
a de-costruire e ri-costruire le storie e le memorie,
i tempi e gli spazi gli incontri e gli scambi.
Una società interculturale non è l’evoluzione
spontanea e naturale del presente,
ma, affermando l’uguaglianza di tutte le persone,
il valore di tutte le culture, l’interazione, la reciprocità,
la convivenza nel suo pieno significato,
è il risultato di un impegno intenzionale e condiviso
che va pensato, progettato, organizzato.
Questo ci sembra oggi il messaggio che scaturisce dalla narrazione
della morte e resurrezione di Gesù  come ci è stata consegnata dalle donne delle prime comunità Cristiane:
“……perché cercate tra i morti colui che è vivo?
Non è qui, è risorto….”
ed in questo spirito facciamo anche la memoria dell’ultima cena
consumata con i suoi amici ed amiche, la sera prima di essere ucciso, e
mentre era a tavola con loro, spezzò il pane, lo benedì,
lo diede loro e disse “prendete e mangiatene questo è il mio corpo”.
Poi prese un bicchiere di vino lo diede loro e tutti e tutte ne bevvero,
e disse loro: questo è il mio sangue che viene sparso per tutti i popoli
fate questo in memoria di me.
Condividiamo la sacralità e la profezia contenute in questo cerchio della Comunità, nei nostri cammini, nella gioia di questa ora  serena e vitale  trascorsa insieme come ricordo della  resurrezione di Cristo e di tutti i cristi che popolano il mondo.

CHIESA..CHIESA
( canta GIOVANNA MARINI)

CHIESA, CHIESA
MI HAI CREATO E MI HAI DISTRUTTO
MA DIO IO NON L'HO RAGGIUNTO.
PIAZZATA TRA ME E LUI
COME UNA PIETRA TOMBALE
MI TRATTI DA MORTA
PER POTERMI UN GIORNO RISUSCITARE.

Perché dovrei tremare perché aver paura
quando siamo in tanti da un solo blocco solo
cresciuti, perfezionati, mai morti e mai nati.

Sarebbe bello sapere per quale strada andare
sicura fin da prima invece di cercare
giorno dopo giorno e scegliere magari
quella che pare a tutti la peggiore.

Vorrei sentirmi dire: in quella casa è Dio.
senza ogni volta trovare un io più grande del mio.

Perché dovrei tremare perché aver paura
quando siamo in tanti da un solo blocco solo
cresciuti, perfezionati, mai morti e mai nati.

E' meglio non sapere per quale strada andare
sicuri fin da prima, è meglio cercare
giorno dopo giorno e scegliere magari
quella che pare a tutti la peggiore.

CHIESA, CHIESA
MI HAI CREATO E MI HAI DISTRUTTO
MA DIO IO NON L'HO RAGGIUNTO.
PIAZZATA TRA ME E LUI
COME UNA PIETRA TOMBALE
MI TRATTI DA MORTA
PER POTERMI UN GIORNO RISUSCITARE.
SPERO CHE UN GIORNO TU VOGLIA CAPIRE:
SE VUOI SALVARE DIO,DEVI SCOMPARIRE.


GRAZIE ALLA VITA
(canta MERCEDES LOSA)
Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato due stelle che quando le apro
perfetti distinguo il nero dal bianco,
e nell'alto cielo il suo sfondo stellato,
e tra le moltitudini l'uomo che amo.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato l'ascolto che in tutta la sua apertura
cattura notte e giorno grilli e canarini,
martelli turbine latrati burrasche
e la voce tanto tenera di chi sto amando.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato il suono e l'abbecedario
con lui le parole che penso e dico,
madre, amico, fratello luce illuminante,
la strada dell'anima di chi sto amando.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato la marcia dei miei piedi stanchi,
con loro andai per città e pozzanghere,
spiagge e deserti, montagne e piani
e la casa tua, la tua strada, il cortile.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato il cuore che agita il suo confine
quando guardo il frutto del cervello umano,
quando guardo il bene così lontano dal male,
quando guardo il fondo dei tuoi occhi chiari.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto,
mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto,
così distinguo gioia e dolore
i due materiali che formano il mio canto
e il canto degli altri che è lo stesso canto
e il canto di tutti che è il mio proprio canto.

Grazie alla vita che mi ha dato tanto.