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martedì 25 settembre 2012

Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri


Comunità dell’Isolotto - Firenze, domenica 23 settembre 2012
Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri
Assemblea nazionale a 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II
il racconto e alcune riflessioni di Luciana e Claudia

1. Letture dal Vangelo


dal Vangelo di Matteo
Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico, difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un grosso canapo[1] entri nella cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”.

dal Vangelo di Matteo
Allora il Signore dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il Signore risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Dalla prima lettera di Giovanni

…Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio … Dio nessuno l'ha mai visto. Però se ci amiamo gli uni gli altri, egli è presente in noi, e il suo amore è veramente perfetto in noi.

Ri-utilizzando le parole di Frei Betto teologo brasiliano della Teologia della liberazione possiamo dire che l’unico punto dei quattro Vangeli in cui Gesù parla di coloro che si salveranno è il passo di Matteo che abbiamo letto. In questo passo Gesù non dice che coloro che saranno quelli che pregano, che vanno a messa tutti i giorni, che obbediscono al papa…ma quelli che danno da mangiare e da bere a chi ha fame e sete, chi veste gli ignudi, chi visita i carcerati…insomma coloro che avranno scelto di stare dalla parte dei poveri, di dar loro voce, forza e diritti.
Del resto nella prima lettera di Giovanni è scritto “chiunque ama, conosce Dio” e non “chi conosce Dio, ama”. Nel Vangelo quindi è chiaro che ciò che conta è l’amore, non la fede; e che l’amore non è una parola generica, vaga, ma concreta: stare dalla parte dei poveri.

2. Lettura dal Notiziario della Comunità n.196-197 del nov.-dic.1985

… Ecco la nostra esperienza, come segno di tante altre esperienze analoghe. Fino dai tempi del Cardinale Dalla Costa e col suo esplicito consenso, le strutture materiali della parrocchia erano state gradualmente poste a servizio dei più poveri: operai in lotta per il posto di lavoro facevano in chiesa assemblee di confronto con la popolazione, persone in disagio sociale gestivano in autonomia ambienti parrocchiali. In chiesa la gente cominciava a prendere la parola, persone “mute” da secoli di sottomissione esprimevano liberamente e creativamente la propria fede; il Popolo di Dio manifestava la propria solidarietà contro le situazioni di oppressione e verso popoli in lotta per la liberazione. In chiesa tutto era gratuito: i preti erano aiutati nella scelta di vivere del loro lavoro , i laici gestivano i segni materiali della condivisione.
Eravamo alla prefigurazione di un passaggio delicatissimo: il passaggio dalla Chiesa per i poveri” alla “Chiesa dei poveri”.
Cambia vescovo e tutto diventa improvvisamente “proibito”.
Che era successo? Semplicemente che il Popolo di dio aveva potuto partecipare nel suo insieme alla gestione delle strutture materiali della chiesa soltanto per benevola concessione di un parroco o di un vescovo “aperti”.
Ma la struttura giuridica non era per niente cambiata. Il canone 1273 del Nuovo Codice di Diritto canonico riprendendo e consolidando le vecchie norme dice testualmente: “Il Romano Pontefice, in forza del primato di governo è il supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici”.
L’intervento disciplinare, dunque, era in linea col Diritto Canonico. Un intervento forse un po’ eccessivo, ma coerente. Un papa (e in sottordine un vescovo o un parroco) può concedere ciò che il successore può negare. Senza alcuna garanzia.
Molti di noi conservano ancora una foto emblematica: si vede un laico che consegna le chiavi della chiesa dell’Isolotto agli inviati del vescovo e del Prefetto statale, mentre centinaia di mani sollevano in alto le chiavi delle loro case. Quando cioè il vescovo si riprende la chiesa, essi si sentono spossessati di qualcosa di proprio, come se il vescovo prendesse la loro casa.
Ecco, in quella foto c’è tutto l’illusione e l’impossibilità di praticare le riforme conciliari.
Senza chiavi non si passa. E le chiavi le mantiene, ben strette, la gerarchia. Non solo quelle dei beni materiali, ma anche le chiavi della verità, della morale, degli strumenti di comunione, dei sacramenti.
Un popolo senza potere non è popolo ma solo una massa di sudditi. …

2. Dal Convegno “Chiesa di tutti. Chiesa dei poveri” - Roma del 15 settembre 2012

Molte associazioni, riviste e realtà della chiesa di base (tra le quali tanto per citarne alcune Pax Christi, Noi Siamo Chiesa, la Comunità di base di San Paolo, Adista, Cipax, Agire Politicamente, la Rosa Bianca, Nigrizia, Missione Oggi, tante comunità ecclesiali, comunità di base e parrocchie) si sono autoconvocate, sabato 15 settembre a Roma, per un’assemblea dal titolo “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” per riflettere sul Concilio Vaticano II, a 50 anni dal suo inizio.

Il senso di questa iniziativa è ben espressa in queste parole (Adista): «Ricordare gli eventi non consiste nel portare indietro gli orologi, ma nel rielaborarne la memoria per capirne più a fondo il significato e farne scaturire eredità nuove ed antiche e impegni per il futuro». In particolare il Concilio «al di là delle diverse ermeneutiche che si sono confrontate nella lettura di quell’evento», invita ancora oggi i credenti ad impegnarsi per realizzare un “aggiornamento” della e nella Chiesa.
L’assemblea intende essere una tappa di questa ricerca.
Se si tiene a settembre, invece che in ottobre, «è perché intende rievocare, sia come inizio che come principio ispiratore del Vaticano II, anche il messaggio radiofonico di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962 che conteneva quella folgorante evocazione della Chiesa come “la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Da questo deriva infatti il tema del convegno».

La partecipazione è stata molto più ampia rispetto alle attese. Si pensava partecipassero circa 400 persone e ne sono arrivate più del doppio. L’Auditorium del Massimo (messo a disposizione gratuitamente dalla Compagnia di Gesù) era gremito. A giudizio di molti è stata la più grande iniziativa organizzata dalla base cattolica negli ultimi anni. La Comunità dell’Isolotto ha formalmente aderito nella giornata del 15 settembre.

Inoltre l’assemblea di sabato 15 settembre vuole essere solo una prima tappa di un insieme di iniziative analoghe che si stanno già pensando e realizzando, in diverse forme, in Europa e nel mondo e che si concluderanno nel dicembre 2015 con un’assemblea mondiale a Roma a cinquant’anni dalla conclusione del Concilio.
Qui noi che abbiamo partecipato per la Comunità cerchiamo di fare una piccola cronaca della giornata, raccontando le nostre impressioni, le cose che più ci hanno colpito; mentre per i testi delle relazioni e dei contributi rimandiamo al sito www.viandanti.org che presto renderà disponibili i testi delle relazioni. Dei molti contributi ci piace riportare quello di Paolo Ricca.

Paolo Ricca: Grazie di cuore per l'invito. Sono qui, senza un mandato specifico, a nome del piccolo protestantesimo italiano e in particolare della Chiesa Valdese, alla quale appartengo. Devo anche dire che queste de-finizioni e de-limitazioni mi sono sempre più estranee e le appartenenze trascendono tutte le classificazioni.Mi sono chiesto che cosa dire in questo saluto di sette minuti. Dovrei dirvi che cosa ha significato il concilio vaticano II per noi, che in un certo senso siamo niente, pur esistendo in Italia da otto secoli come piccola comunità che cerca anche lei di essere cristiana, di avvicinarsi un poco a quello che dovrebbe essere una chiesa cristiana...
Per dirvi quello che ha significato per noi e anche per me personalmente (pur partecipando da fuori ma anche da dentro attraverso gli osservatori delegati del Vaticano II) dovrei narrarvi quella che è stata la storia precedente il concilio Vaticano II, dovrei contestualizzare storicamente. Bisognerebbe avere il tempo, ma non c'è.
Vi dico solo una cosa. Per otto secoli siamo stati in Italia eretici e scomunicati.
Noi Valdesi due volte scomunicati: una prima volta nel Medio Evo e una seconda volta quando abbiamo aderito alla Riforma protestante. Da questo punto di vista siamo a posto, non ci manca nulla.
Quello che è successo con il Concilio Vaticano II è che queste due categorie di eresia e di scomunica sono scomparse. E noi siamo diventati per una mutazione genetica non prevista, imprevedibile, ma graditissima, fratelli separati. Capite la differenza tra eretico e fratello separato? Se tu sei fratello di
un eretico, se eretico anche tu. È stata veramente una rivoluzione copernicana, come minimo...
Siamo poi separati non da Cristo, ma dalla sede apostolica, e non è la stessa cosa. Quindi una separazione che si può tollerare. Sarebbe stato più grave se fossimo stati separati da Cristo, come prima eravamo considerati di essere. Adesso invece siamo ritenuti solo separati dalla sede romana.
Questa è stata la rivoluzione che ha effettivamente cambiato sia il rapporto del cattolicesimo verso di noi sia, anche se faticosamente, il nostro rapporto verso la chiesa cattolica.
Ma voi, comunità conciliare, siete quelli che hanno contribuito molto e che continuano a contribuire per fare il ponte tra la piccola e modesta realtà evangelica italiana e il cattolicesimo romano nel suo insieme.
Non solo il Concilio ha affermato che non eravamo più eretici e scomunicati, ma ha detto una cosa ancora più grande, che non aveva mai detto prima e che non ha più detto dopo, e cioè – cosa impensabile e inaudita - che le nostre Chiese, secondo il documento conciliare sull'ecumenismo, sono strumenti di
salvezza. Fino ad allora invece eravamo stati considerati strumenti di perdizione.
Le nostre chiese sono strumenti di salvezza di cui lo Spirito Santo non rifiuta di servirsi per compiere la sua opera. Cose straordinarie, cose formidabili, che purtroppo non sono più state ripetute.
Per noi quindi il Concilio sta davanti e non dietro.

3. Dalla stampa

Pochissimi i giornali hanno parlato del Convegno, tra questi si segnala L’Unità con l’articolo di Roberto Monteforte sotto riportato e un testo circolato on-line di Aldo Maria Valli, anch’esso sotto riportato. La stampa cattolica ufficiale assente. Si segnala che si può ascoltare il Convegno su Radio Radicale.

Affollata assemblea di gruppi ecclesiali, riviste, associazioni a 50 anni dall'inizio del Concilio di Roberto Monteforte        in “l'Unità” del 16 settembre 2012

Far vivere il Concilio Vaticano II. Dargli applicazione e con gioia, guardando con speranza al futuro. Perché la sua piena ricezione è ancora lontana. Di questo si è discusso ieri a Roma nell’affollatissima assemblea tenutasi al teatro dell’Istituto Massimo di Roma. «Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri» è il titolo dell’appuntamento autoconvocato e autofinanziato a 50 anni dall’inizio del Concilio cui hanno aderito oltre 104 sigle di associazioni, gruppi ecclesiali, movimenti, riviste e organizzazioni tutte attente all’esigenza che non si disperda o si depotenzi l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Sono stati oltre settecento i partecipanti giunti da tutta Italia. Segno di quanto forte ed estesa sia la domanda per una Chiesa che sappia dialogare con fiducia e speranza con il mondo contemporaneo avendo il coraggio di cambiare se stessa. L’incontro si è aperto con un ricordo del cardinale Carlo Maria Martini e al suo coraggio profetico. Teologi, storici, studiosi e uomini di Chiesa hanno approfondito i nodi posti dal Concilio alla Chiesa a partire dalla sua ermeneutica. Alla polemica su rottura o continuità con la tradizione della Chiesa. «È una disputa da abbandonare perché non coglie il nodo rappresentato dal Concilio. Perché il cambiamento era già in corso nella Chiesa. Perché la dottrina cambia sempre e cambiamo i significati. Perché se la Chiesa è sempre la stessa, la Tradizione vivente è in continua evoluzione per rendere “presente” e continuamente aggiornato nella nuova condizione storica ciò che è stato tramandato» lo afferma il teologo padre Carlo Molari. «La pluralità delle dottrine presenti nella Chiesa ed anche le rotture sono importanti per il suo sviluppo». C’è ancora bisogno che la Chiesa sappia «raccordarsi con la modernità». Lo storico Giovanni Turbanti ha inquadrato il contesto storico, sociale, politico ed economico che ha portato alla sua convocazione.
La biblista Rosanna Virgili sottolinea la «festosità liberatoria dell’annuncio cristiano e l’apporto fondamentale dato dalle donne. «Dio parla alle donne - afferma - che sono depositarie di una fede che non esclude. Perché non ci sono più lontani quando si può comunicare e si è abbattuta l'inimicizia fatta di leggi che distinguevano e discriminavano creando inimicizia».
Mentre Cettina Militello ha affrontato il nodo «delle prospettive future nella speranza di un vero aggiornamento». «Bisogna passare dall’ermeneutica conciliare all’attuazione del Concilio. All’attuazione di quanto faticosamente elaborato dai padri conciliari» ha affermato. Sottolinea l’importanza dell’«aggiornamento» della Chiesa. Invita a riflettere sulla speranza di un «vero rinnovamento» della Chiesa, di una sua autentica profezia rispetto alla mutazione culturale in atto. Ne indica gli ambiti: «il piano della Liturgia, dell’autocoscienza di chiesa, dell’acquisizione sempre maggiore della parola di Dio, del dialogo Chiesa con il mondo». Va pure perseguita l’istanza ecumenica, e interreligiosa, l’istanza «dialogica». Sottolinea i limiti della partecipazione attiva, della sinodalità, dell’ ascolto e del dialogo, necessari per attuare quella trasformazione strutturale della Chiesa voluta dai padri conciliari, per il suo ritorno a uno stile evangelico di compartecipazione e effettiva comunione.
Interviene da «testimone» l’allora giovanissimo abate benedettino della Basilica di San paolo, Giovanni Battista Franzoni. Parla della scelta per i «poveri» e del coraggio di Paolo VI.
Porta la sua testimonianza il teologo valdese Paolo Ricca. Soprattutto recuperando appieno il ruolo del «Popolo di Dio», dei laici nella Chiesa, successori dei «discepoli». Lo sottolinea Raniero La Valle che conclude i lavori. «Perché - fa notare - non c’è solo la successione apostolica da Pietro sino ai nostri vescovi e al Papa. C’è anche una successione laicale, non meno importante dell’altra che è giunta sino a noi». Senza questa «non vi sarebbe il Popolo di Dio e neanche la Chiesa degli apostoli».Sottolinea come la forza del Concilio Vaticano II sia stata il fare l’ermeneutica di tutti i concili precedenti. Per questo «non lo si può accantonare ». Sta anche in questo la ragione e la forza dell’assemblea convocata ieri. La Valle annuncia l’impegno a raccogliere quella domanda che interpella ancora. Chiede una nuova politica, una nuova giustizia, una nuova economia. Che chiede una Chiesa dei poveri e con i poveri. Richiama i compiti nuovi che il Concilio affida e riconosce ai laici. «Sulla riforma della chiesa e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri partenza. La Chiesa anticonciliare ha bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica» ma una Chiesa nuova è possibile. Vi è una storia da trasmettere. Un impegno che, assicura La Valle, non si fermerà con questa assemblea. Vi sarà un sito per mettere in rete riflessioni e iniziative e per partecipare alle iniziative delle singole Chiese e a quelle internazionali che culmineranno nel 2015 all’anniversario delle conclusioni del Concilio. Vi sarà un «coordinamento leggero» per far incontrare sforzi diversi e rendere possibile quel «Il Concilio è nelle vostre mani» soprattutto le mani dei poveri invocato dallo stesso Raniero La Valle.

Testo di Aldo Maria Valli Sull’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” del 15 settembre

Spesso parliamo del popolo di Dio ma fatichiamo a vederlo concretamente. Dove sta? Com’è composto? Che cosa spera? Che cosa teme? Altrettanto spesso all’immagine di popolo di Dio si sovrappone l’immagine della Chiesa istituzionale e gerarchica, che nasconde i volti delle persone con i volti del potere e i tratti dell’organizzazione burocratica. Sabato 15 settembre 2012 a Roma, all’auditorium dei gesuiti dell’Istituto Massimo, il popolo di Dio si è invece visto in tutta la sua consistenza. All’incontro Chiesa di tutti, Chiesa di poveri (dove erano attese circa quattrocento persone e ne sono arrivate il doppio, da ogni angolo d’Italia) non è avvenuto nulla di eccezionale: non ci sono state manifestazioni eclatanti, non sono risuonate parole d’ordine e nessun personaggio si è impadronito della platea. C’è stato, semplicemente, un confronto fraterno tra persone unite da una fede e da una passione. La fede nel Cristo dei poveri e degli oppressi, la passione per la giustizia e per la Chiesa del Concilio Vaticano II. Dalle dieci del mattino alle sei di sera il confronto è andato avanti sereno, serrato, sincero. E alla fine il popolo di Dio è tornato alle proprie case rinfrancato, non esaltato, non sovreccitato, ma semplicemente consolato da tanta partecipazione e da tanta condivisione. E ancor più determinato a proseguire nel cammino.
Sul palco non c’erano monsignori di curia, vescovi o cardinali. Non ce n’erano neppure nella prima fila dell’affollatissima platea, come di solito succede nei convegni organizzati dalle strutture ecclesiali. Né c’erano politici o altre autorità. Non si sono viste auto blu né tonache nere filettate di rosso. Qualcuno ha lamentato la mancanza di telecamere, ma in fondo è stato meglio così, perché il clima di familiarità ne ha guadagnato. Promosso da decine e decine di realtà cristiane che si spendono quotidianamente nel mondo, in mille forme diverse, nello spirito della Gaudium et spes, condividendo sogni e paure, speranze e angosce degli uomini e delle donne del nostro tempo, l’incontro ha preso ispirazione dal cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio, ma soprattutto è stato esso stesso un momento conciliare.
Le parole con le quali Giovanni XXIII aprì il Concilio, Gaudet Mater Ecclesia, sono risuonate più volte, specie nella relazione introduttiva della teologa Rosanna Virgili, e hanno fatto da sfondo all’intera giornata: anche nel momento della critica e della contestazione, l’orizzonte è rimasto quello della fiducia e della gioia. Nessuno ha parlato “contro”. Ogni parola è stata spesa “per”. Per una Chiesa veramente dei poveri e con i poveri. Per una Chiesa del Vangelo. Per una Chiesa “sciolta”, come amava dire il cardinale Martini. Per una comunità di fedeli adulti, obbedienti stando in piedi, come diceva Scoppola.
Grazie all’inquadramento storico di Giovanni Turbanti e all’analisi di Carlo Molari sulle diverse interpretazioni del Concilio, è stato possibile impostare il confronto su basi solide. La riflessione di Molari sull’idea di tradizione, in particolare, è stata efficace e piena di spunti bisognosi di ulteriori approfondimenti. L’idea di tradizione uscita dal Concilio, come realtà vivente e come processo (si veda la Dei Verbum, 8)  merita di essere meditata nel momento in cui dentro la Chiesa cattolica si assiste all’offensiva, non soltanto da parte dei cosiddetti tradizionalisti, di chi vede nella tradizione l’immobilità e l’immutabilità (Semper idem era il motto del cardinale Ottaviani, grande oppositore dello spirito conciliare). Ma l’incontro, soprattutto, ha evitato di cadere nella disquisizione accademica circa le diverse ermeneutiche (continuità o rottura?), preferendo dare come asserito che nel Concilio ci fu sia la continuità sia la rottura, sia la riaffermazione delle verità fondanti sia la necessità di proporle meglio, più genuinamente e più efficacemente, in relazione ai nuovi tempi. Nello studiare un Concilio che Giovanni XXIII volle pastorale e non dogmatico sarebbe veramente un controsenso alquanto bizzarro, mezzo secolo dopo, arenarsi attorno a una questione che rischia di cadere nel formalismo.
Il Concilio lo si capisce e lo si interpreta a partire dai mondi vitali, non dalle formule, e sono stati proprio i mondi vitali a fare irruzione nel convegno con tutta la loro carica di verità, spesso sofferta. Come quando è intervenuto il padre Felice Scalia, apprezzato da tutti per la sua sincerità nel delineare il dramma attraversato dalla Compagnia di Gesù, visto che per alcuni dei suoi membri la fedeltà al Concilio e lo schierarsi con i poveri ha voluto dire da un lato andare letteralmente  incontro al martirio e dall’altro affrontare la spaccatura con la gerarchia. E ugualmente appassionato è stato l’intervento del rappresentante di un gruppo che riunisce omosessuali cristiani.
Se dom Giovanni Franzoni è salito sul palco per ricordare il tempo in cui Paolo VI, spogliandosi del triregno, non fece soltanto un gesto all’insegna della povertà e dell’aiuto verso le Chiese più bisognose, ma volle dichiarare anche visivamente la rinuncia a ogni forma di potere temporale e di seduzione di quel tipo di potere sulla Chiesa, altri testimoni del Concilio, come Luigi Bettazzi e Arturo Paoli, hanno mandato messaggi.
Il nome del cardinale Martini è risuonato spesso, fin dai saluti introduttivi di Rosa Siciliano, direttrice di Mosaico di pace. E in generale la definizione di “piccolo gregge”, tanto cara a Martini, può essere utilizzata per esprimere lo spirito dell’assemblea, animata dalla volontà non di contarsi per contare, ma di spendersi nel mondo, ovunque ci sia da chinarsi su una ferita e su un’ingiustizia.
Nella sua semplicità, lo spirito del Concilio è stato rievocato con grande efficacia dal Paolo Ricca, che ha ricordato tutto lo stupore e la meraviglia dei protestanti quando si resero conto di essere passati dallo status di eretici a quello di “fratelli separati”, nella cui esperienza di fede i cattolici possono ritrovare elementi di verità utili per la salvezza. E piena di suggestioni per il futuro è stata la relazione di Cettina Militello sulle prospettive di un vero aggiornamento.
L’intervento finale di Raniero La Valle, giocata sulla necessità di uscire dalla contrapposizione tra le varie ermeneutiche del Concilio per fare piuttosto del Concilio l’ermeneutica alla luce della quale interpretare la stessa storia della Chiesa, è suonato non tanto come chiusura ma come premessa di altre tappe. Il titolo dell’incontro è stato preso dal radiomessaggio di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta qual è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”.
Ha scritto Bettazzi nel suo messaggio: “La sollecitazione per la piena attuazione del Concilio è affidata al popolo di Dio, del quale la gerarchia è al servizio. Che la vostra premura di popolo di Dio possa influire sul sinodo episcopale dell’ottobre e su tutto l’anno della fede”.
Recitando la preghiera composta da Marco Campedelli della Comunità San Nicolò di Verona, il popolo di Dio si è espresso così: “Continua a soffiare, vento dello Spirito, nuova Pentecoste sul mondo, continua a inventare lingue nuove, alfabeti inediti, capaci di tradurre le sorprese di Dio. Non è la Chiesa che vogliamo celebrare, ma lo Spirito di Dio che soffia in mezzo al mondo. Chiesa di tutti, Chiesa di poveri”.               
Il popolo di Dio si è riunito. In libertà, senza ipocrisie. Si è confrontato con fiducia, senza calcoli dettati dall’opportunismo, senza prudenze innescate dalla paura, senza equilibrismi dovuti ai giochi di potere. Lo Spirito ha soffiato.

4. Interventi di Enzo Mazzi sul Concilio Vaticano II


A 30 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II - Riflessioni di Enzo Mazzi - 31.10.1992

Cadono oggi (oppure: in questi giorni) trent'anni dall'apertura del Concilio Vaticano II. Quale può essere per noi il significato di una tale data storica? Viviamo in un momento cruciale del trapasso d'epoca. Si chiude un secolo, non tanto in senso sombolico ma reale. Il crinale storico si è raggiunto con lo sbriciolarsi di uno dei due poli che si giocavano il mondo dopo Yalta e subito, con la guera del Golfo, si è intrevisto il nuovo scenario di gioco. Il parto della nuova epoca è un travaglio interminabile, doloroso e pregnante. L'aspro conflitto sociale che si è riaperto in Italia sta tutto, nella sua sostanza, in queste doglie del parto. Che significato può avere la memoria di eventi passati per una partoriente tutta concentrata sugli spasmi dolorosi e inquietanti causati da una vita che preme per nascere?
Angosciati dal nostro futuro vicino e lontano, impegnati a non subire gli eventi, determinati a contrastare lo scivolamento in un nuovo medioevo imperiale, decisi a lottare per una società fondata sui diritti universali, non solo formali ma finalmente reali, siamo tentati di recidere le nostre radici. Fra queste anche il Concilio.
Intendiamoci, se lo considerassimo come evento a sé avremmo pieno diritto di consegnarlo alla storia passata, sia in quanto cattolici, impegnati ormai su frontiere più avanzate, sia come laici sollecitati dalle nuove figure del cattolicesimo quali il pacifismo, la teologia della liberazione dal basso, il volontariato, il dissolversi del collateralismo partitico, il nuovo magistero etico e sociale.
Il Concilio, però, non è da vedere solo come un evento, cioè quella determinata assise di vescovi, è anche un processo, un movimento di lunga durata, un fluire profondo di spinte trasformatrici che solo in alcune occasioni storiche acquista visibilità e spettacolarità.
E come processo, il Concilio stesso è una realtà viva, dentro il travaglio attuale.
Chi scrive è fra i tanti testimoni diretti di un tale processo conciliare, iniziato ben prima del pontificato di papa Giovanni e proseguito fino ad oggi, con modalità e visibilità diverse, come un fiume che si modella in base ai territori che incontra.
Nel dopoguerra, mentre dai luoghi del potere proveniva quella ondata anticonciliare di contrapposizione e intolleranza che trovò nella scomunica dei comunisti uno dei momenti più drammatici, i luoghi del non-potere divenivano crocicchi di inediti e fecondi incontri, crogioli di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa. Per capirci meglio, da tante e complesse esperienze, desumiamo due soli esempi più facilmente decifrabili. Nei campi di concentramento tedeschi, preti francesi si trovarono a condividere una "comunità di destino" con operai comunisti. Scoprirono nelle reciproche diversità valori sia umani sia evangelici che li portarono a uscire dalle rispettive gabbie ideologiche e a tentare sentieri inediti di convergenza. Nacquero così i preti operai, una delle vene del processo conciliare. Un'altra vena, non meno feconda, si apriva nel mantovano, dove don Primo Mazzolari, parroco e scrittore, già durante il fascismo e poi nell'immediato dopoguerra, sperimentava e diffondeva uno spirito di convergenza con i contadini socialisti e comunisti, con gli anticlericali, con i protestanti. "Tromba dello Spirito Santo" lo definì papa Giovanni il quale si ispirò anche a lui nel suo sogno del Concilio.
E' storicamente provato che Giovanni XXIII, ingabbiato in un primo tempo dalla rete curiale, consapevole dell'impossibilità di operare qualsiasi reale riforma partendo dal centro, con un colpo di genialità profetica ha voluto il Concilio per dare voce, forza e futuro al processo conciliare, ai luoghi fecondi del non-potere, alle periferie del mondo.
E' stata una scommessa vincente. "Scommessa", perché a quel tempo non era affatto scontato l'esito del Concilio, con una Curia vaticana che fece di tutto per ingabbiarlo e ridurlo a folklore; "vincente" perché il processo conciliare contagiò gran parte dei padri convocati in S.Pietro e divenne egemone, in senso gramsciano, a livello mondiale.
Dopo trent'anni tale egemonia è sì mortificata da una restaurazione generalizzata, pervasiva e al tempo stesso spettacolare; ma la vitalità del processo stesso si è approfondita e rafforzata, anche per l'emergere di nuovi soggetti e di forti spinte nelle chiese del Terzo Mondo.
Il movimento conciliare è ben vivo ed è una grande risorsa oggi, nel nostro travaglio, di fronte allo spettro dell'egemonia del fondamentalismo cattolico in un quadro di generale involuzione autoritaria del convivere civile. Come ai tempi di Papa Giovanni, conviene scommettere sul processo conciliare, conoscerlo, valorizzarlo, non solo all'interno della Chiesa, ma anche da parte del mondo laico troppo spesso attratto da eventi tanto spettacolari quanto effimeri.

Testo di riflessione sul Concilio Vaticano II scritto per ADISTA

Firenze 4 maggio 1993 - Enzo Mazzi


Ai primi di novembre del 1958, il cardinale Dalla Costa, di ritorno dal Conclave, venne a trovarci all'Isolotto, in una delle visite che ci faceva di frequente in rigoroso incognito. "Abbiamo eletto un papa che vi piacerà" - ci disse con quel risolino ironico e ammiccante che addolciva i tratti austeri e taglienti del suo volto scavato. Poiché conosceva i suoi polli, aggiunse, fra una sorsata di caffè e l'altra, - "Abbiate fiducia, aspettate e vedrete".
Aspettammo, ma sfiduciati. Già i trionfalismi dell'incoronazione ci avevano mal disposti verso questo papa. Presentava sì tratti di bonaria umanità, totalmente assenti dalla figura di Pacelli, ma mostrava, agli occhi di quanti si arrovellavano sulle frontiere del rinnovamento, una cultura tradizionalista e curiale, inadeguata se non contraria ai cambiamenti che si rendevano sempre più urgenti.
Vennero, poi, le mazzate. Nel dicembre 1958, un intervento vaticano vieta all'Università cattolica del S.Cuore di conferire la laurea honoris causa in scienze politiche a Jaques Maritain. Poco dopo, un ordine del Sant'Uffizio blocca la diffusione di Esperienze Pastorali di don Milani, fino a lambire lo stesso cardinale Dalla Costa. Agli inizi del 1959 viene allontanato da Firenze padre Ernesto Balducci. Il 4 aprile dello stesso anno il Sant'Uffizio rinnova, con la dichiarata approvazione del papa, la condanna contro i comunisti, allargandola perfino ai cattolici che con i loro comportamenti "favorivano" il comunismo. Ancora nello stesso anno, il card. Feltin riceve dal card, Pizzardo, segretario del Sant'Uffizio, l'ingiunzione di chiudere definitivamente l'esperienza dei preti operai, creando drammatici casi di coscienza e ferite tutt'ora aperte.
Il nuovo papa appariva un ostaggio imbelle della Curia vaticana. Si allontanava sempre più la prospettiva che ci aveva aperta il card. Dalla Costa.
Il clima che circolava negli ambienti dove si stava realizzando la gestazione del rinnovamento era di disorientamento. Ma non di scoraggiamento, perché mille segni ci dicevano che, nonostante il gelo vaticano duro e distruttivo come le nevicate di marzo, la primavera era in piena e inarrestabile fermentazione.
Lontani com'eravamo dalle stanze e dalle trame del potere, a diretto contatto con la gente più umile, immersi in una quotidianità che impegnava tutte le nostre energie intellettuali e materiali, ci sfuggiva il fatto che alcuni di questi segni di germinazione si annidavano nella coscienza e nei gesti minori del nuovo papa. Come l'abbraccio con cui papa Giovanni accolse l'eretico dissidente don Primo Mazzolari, in una pubblica udienza il 6 febbraio 1959, nello stesso momento in cui i vescovi italiani, card. Montini compreso, esigevano una condanna definitiva ed esemplare di Mazzolari e della sua rivista "Adesso". Dalla Costa non aveva parlato invano quel giorno di novembre 1958 e soprattutto egli sapeva quello che faceva quando aveva impegnato tutta la sua credibilità e la sua autorevolezza di papabile per favorire l'elezione di Roncalli. I due, Dalla Costa e Roncalli, non potevano scoprire le loro carte più preziose. Carlo Falconi afferma in una pubblicazione su I papi del ventesimo secolo che " molto prima di diventare il 262° successore di Pietro, Roncalli era già in possesso di tutto l'esplosivo ideologico a cui avrebbe avvicinato la miccia (...) soltanto negli ultimi anni della sua vita". Papa Giovanni attendeva l'ora stabilita dalla Provvidenza, dice Falconi. Ma noi come potevamo saperlo? Come potevamo pensare che un uomo così esplicitamente inviluppato nella tela del ragno potesse covare il colpo d'ala capace di liberarlo e di liberare con lui la Chiesa intera?
La stessa notizia che Giovanni XXIII aveva espresso l'intenzione d'indire un Concilio ci lasciò sulle prime indifferenti. Ritenevamo che un Concilio sarebbe stato egemonizzato dalla solita Curia che l'avrebbe usato come nuova occasione di trionfalismo, per ribadire il luoghi comuni del centralismo vaticano. Stava a dimostrarlo il fallimento del Sinodo Romano, il primo dell'epoca post-tridentina, tenutosi nel gennaio 196o, con gran pompa ma senza alcun segno di apertura al nuovo.
Per concludere, si consolidava sempre più in noi la convinzione che la riforma della Chiesa non poteva in alcun modo venire dal centro o dall'alto. Era una conferma storica del Cantico di Maria (Ha rovesciato dai troni i potenti ed ha innalzato i senza-potere...), del discorso della montagna e delle parole con cui Gesù accolse i discepoli di ritorno dalla missione (Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai potenti e le hai rivelate ai piccoli...). Diveniva sempre più chiaro che l'attuale struttura ecclesiastica, teocratica, centralista, autoritaria, imponente, ricca, alleata con i ricchi e i potenti, era una fortezza-prigione totalmente impenetrabile, capace di annullare ogni buona volontà riformatrice. Il massimo che ci si poteva attendere era una "verniciatura dei sepolcri".
Del resto noi stessi, nel nostro piccolo, lo sperimentavamo. Il Vangelo era vissuto fuori dalle strutture ecclesiastiche, nei luoghi del non-potere, della insignificanza, della emarginazione, della povertà. E noi, preti e laici, che tentavamo di aprire le nostre parrocchie delle squallide periferie o di sperduti paesi  o delle baraccopoli alla creatività dello Spirito, cozzavamo sempre contro muraglie inamovibili. Non era solo questione di uomini. anzi, in radice non era affatto questione di uomini. Erano sbarre fatte di ruoli, leggi, riti, dogmi, catechismi, concordati, protezioni politiche, patrimoni, consuetudini....
La riforma della Chiesa in senso evangelico poteva venire solo dal basso o se si vuole dalla periferia. La comprensione del Vangelo, il catechismo, la liturgia, la spiritualità, i beni materiali, le strutture decisionali, insomma tutta la struttura di vita dell'essere chiesa veniva progressivamente rovesciato. A lenti ma decisivi passi era collocato su un nuovo fondamento: la base, i poveri, gli handicappati, gli abbandonati, gli umili, gli operai. Le realtà nuove che nascevano si chiamavano non di rado, con termine equivoco, "comunità", e magari "comunità parrocchiali". Solo più tardi si affaccerà quel nome che ancora non è stato assorbito e travisato dalle istituzioni forti: "comunità di base", cioè realtà che trovano il proprio fondamento nello Spirito che vive nella base, realtà protese alla sostanziale autonomia dalla struttura della parrocchia, della diocesi, della Curia vaticana.
Insomma eravamo "periferie" che si avviavano coscientemente, sempre più coscientemente, a divenire soggetti storici della inelusibile riforma della Chiesa.
Papa Giovanni, ecco l'intuizione del card. Dalla Costa che più tardi, nella preparazione del Concilio, divenne chiara anche a noi, si trovava sulla stessa lunghezza d'onda: era un papa che ci sarebbe piaciuto. La carriera di diplomatico aveva portato Roncalli a contatto con alcuni snodi storici cruciali del dopoguerra: la Bulgaria e la Turchia delle frontiere ecumeniche col mondo ortodosso e islamico, la Francia delle parrocchie missionarie e dei preti operai e infine l'Italia dell'opposizione all'assolutismo e all'anticomunismo pacelliano. Egli aveva preso coscienza di quanto la Chiesa intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava forte nelle periferie e nella base. Intendiamoci, non voglio dire che lui fosse sempre d'accordo con le esperienze innovative che incontrava. Ma avrebbe voluto paternamente indirizzarle, secondo il suo stile di "buon pastore" che vuole evitare di trasformarsi in "organizzatore della vita collettiva", come ebbe a dire nel discorso dell'incoronazione. Ben presto però si accorse che egli, dal centro, poteva solo reprimere e soffocare. La riforma della Chiesa non poteva partire da lui. Non voleva essere un papa-riformatore. E concepì il Concilio proprio per rompere il centralismo romano, per far tacere i "profeti di sventura" e quindi liberare le esperienze conciliari delle periferie e dare spazio ai "segni dei tempi. E' emblematica la vicenda, nota ma ormai dimenticata, dello schema chiave riguardante le fonti della Rivelazione. Papa Giovanni sconfessò praticamente lo schieramento dei vescovi italiani, spagnoli, molti latino-americani, guidato dai potenti cardinali curiali con in testa Ottaviani il quale con cavilli procedurali voleva imporre lo schema proposto dall'alto, e diede spazio alle istanze rinnovatrici. Questo era il suo compito: non fare lui stesso la riforma, ma dare spazio al processo di riforma che germinava nella chiesa.
Ecco la convergenza che trovo fra la germinazione delle comunità di base e di tante altre esperienze conciliari e la coscienza profetica di Giovanni XXIII.
Dalla Costa aveva proprio ragione: papa Giovanni ci è piaciuto.
Appunti per l’incontro sulla storia delle religioni monoteiste organizzato da AUSER presso la Comunità dell’Isolotto - Firenze 20 aprile 1999 - Enzo Mazzi

Una data segna un passaggio storico fondamentale per la religione cattolica: l'11 ottobre 1962 quando una foresta di candide mitrie vescovili illuminò e animò l'ambigua immensità di S.Pietro.
Come evento in sé, il Concilio Vaticano II è ormai consegnato alla storia passata, oggetto di ricerca, di riti commemorativi, di esegesi interessate dei testi prodotti. Ma è solo questo oppure è da vedere anche come processo aperto, percorso di trasformazione, segno della direzione di marcia di un'epoca?
Proviamo a storicizzare un tale interrogativo per riportarlo poi all'oggi.
A differenza del Vaticano I, che era stato ancora un concilio essenzialmente europeo, i quasi 2500 padri conciliari provenivano ora da tutto il mondo. Meno della metà erano europei, ottocento venivano dalle Americhe, più di cinquecento dall'Africa e dall'Asia. Rappresentavano le periferie della cattolicità. Proprio per questo papa Giovanni li aveva convocati: per dar voce e forza alla molteplicità creativa delle ininfluenti e non di rado ignorate province dell'impero. Sta tutta qui, a mio avviso, la geniale ispirazione profetica di papa Giovanni, oppure il suo peccato o almeno la sua ingenuità, a giudizio di alcuni e forse di molti.
La Chiesa cattolica fino allora era stata di parte, dominio dei "profeti di sventura", arroccata "contro": contro la Riforma, la modernità, il comunismo, la diversità, la verità dell' "altro"; contro l'autonomia delle coscienze e il riscatto dei popoli.
L’ideologia dominante nel cattolicesimo ancora una volta aveva “munto con violenza alle mammelle della Scrittura e invece di latte aveva bevuto sangue”: questa espressione tragicamente colorita di un anonimo autore del secolo XI, il quale si riferiva alle giustificazioni tratte dalla Bibbia da ambedue le parti nella lotta per le investiture e nel tanto sangue sparso, la vedo appropriata anche alla Chiesa della controriforma e tridentina.
Del resto, apro una parentesi, vedo l’espressione appropriata anche al coinvolgimento attuale delle religioni nella pulizia etnica, nei massacri e nella guerra nella ex-Yugoslavia. Raramente e forse mai nella storia chi compie massacri o intraprende guerre confessa i motivi veri del proprio operato violento, ma ammanta la violenza con motivi nobili: religiosi o etici. Finge di mungere latte per bere in realtà sangue.
Così era stato per la Chiesa cattolica dal tempo della Controriforma fino al Vaticano II: una chiesa di parte, arroccata in difesa rispetto a un mondo considerato nemico.
Papa Roncalli, nella bolla di indizione del Vaticano II, Humanae salutis, scrive: “Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i “segni dei tempi” (Mt 16,4), ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della Chiesa e dell’umanità.
Era una svolta storica rispetto alla valutazione negativa della storia moderna che si era andata accentuando nell’ottocento e nella prima metà del novecento.
Come data d’inizio “ideale” di tale accentuazione negativa si può citare l’enciclica Mirari vos (15 agosto 1832) di Gregorio XVI, nella quale la storia contemporanea veniva letta sotto il segno di una “congiura dei malvagi” che non permetteva indulgenza e benignità alcuna da parte della chiesa e imponeva piuttosto di “reprimere col bastone” i vari errori. Questo giudizio globalmente negativo sulla storia ne sulla società occidentale, soprattutto sulle società democratiche, non fu soltanto ripreso nel magistero di Pio IX (basti pensare al Sillabo), ma codificato solennemente nel proemio che apre la Costituzione dogmatica del Vaticano I sulla fede cattolica: la storia moderna, dopo il Tridentino, viene descritta come la progressiva corruzione dell’uomo, provocata dalla negazione protestante del principio di autorità. E’ significativa a tale proposito anche la Quoad Apostolici Muneris di Leone XIII.
E’ su questo sfondo che bisogna collocare la portata dell svolta di Papa Giovanni. La Chiesa deve tornare ad essere "chiesa di tutti e particolarmente dei poveri", disse nell'intervento dell'11 settembre 1962 in preparazione del concilio e ripeté sostanzialmente un mese dopo, nel discorso d'apertura. "Chiesa di tutti" e non solo della gerarchia; "di tutti" e non solo dei cattolici, degli europei, dell'occidente opulento. Una tale trasformazione era un compito immane, un miracolo che nessun papa dal centro avrebbe mai potuto compiere. Roncalli, uomo dell'apparato sapeva quanto era grande la solitudine istituzionale del vescovo di Roma, conosceva bene la prigionia vaticana e lo spessore delle catene curiali. Era cosciente di ciò quando accettò l'elezione e se ne convinse meglio i primi anni del suo pontificato quando fu trascinato in una delle ricorrenti strette involutive che si abbatté sulle esperienze del cattolicesimo italiano e francese più impegnate in quella trasformazione che entrava sempre più decisamente nei suoi sogni.
Negli anni 1958-'59, furono colpiti Jaques Maritain, cui fu negato dal card. Pizzardo, segretario del Sant'Uffizio, il conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Università cattolica del S.Cuore, Lorenzo Milani, le cui "Esperienze pastorali" furono ritirate dalla circolazione, Ernesto Balducci, esiliato da Firenze, i preti operai francesi obbligati a lasciare il lavoro, i teologi diffidati dal proseguire nelle timide aperture verso la nuova esegesi biblica, Teilhard de Chardin, accusato di eresia. Altro che sogni di apertura!
Papa Roncalli si sentiva inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino nelle mani dell'onnipotenza curiale. Ed ebbe la genialità di rompere quell'isolamento chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti esemplari di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al Medio Evo. Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica possibilità istituzionalmente a lui consentita, intese dare voce e forza a quei processi di crescita umana e cristiana che animavano la storia. Li aveva incontrati nella sua esperienza di diplomatico vaticano in cruciali posti di frontiera: in Bulgaria, a contatto col mondo dell'ortodossia e del comunismo, inTurchia, la porta dell'Islam, nella Francia, "paese di missione" animato dal card. Suhard e inoltre nodo storico della decolonizzazione (Algeria e Vietnam).
Nell'enciclica "Pacem in terris" chiamerà tali processi "segni dei tempi" e darà loro precisi connotati: "ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici...ingresso della donna nella vita pubblica ...non più popoli dominatori e popoli dominati..."; ancora altri "segni dei tempi", secondo la Pacem in Terris, l'aprirsi delle coscienze al carattere democratico della vita sociale e politica e all'illiceità ormai della guerra nell'era atomica.
Che ne è di tutta questa realtà, di questo mondo ribollente, di questa presa di coscienza delle "periferie", della base cui attraverso il concilio si è inteso dar voce e forza? Ha certamente ottenuto l'intento di farsi sentire ed ha contagiato la gran parte dei padri conciliari; ma è riuscita anche scardinare in qualche modo la tela del ragno o ne è rimasta invischiata?
La domanda, si vede bene, si colloca in una visione del Concilio non come puro fatto di chiesa, ma come espressione e segno di un'epoca, di una fase storica, di una tappa del cammino umano complessivo.
Ebbene, a giudicare dalla prassi alto-istituzionale si direbbe che il Concilio è effettivamente morto. Rimane solo la liturgia funebre i cui riti si ripropongono sempre uguali. Ultimi in ordine di tempo: la condanna della Teologia della liberazione, l'approvazione del catechismo universale, che a detta di molti è una ferita pofonda alla inculturazione del vangelo, le celebrazioni dei 500 anni di evangelizzazione, a Santo Domingo. E’ vero che c’è un atteggiamento fortemente critico nei confronti del neoliberismo, dell’individualismo egoista occidentale, dell’iniquo rapporto Nord-Sud e soprattutto c’è questa condanna della guerra. E’ una condanna, per me molto giusta, ma che cala dall’alto. E’ una specie di riproposizione dello scontro medioevale fra papato Impero. Manca completamente l’annuncio dei “segni dei tempi”.
Dunque si può dire addio ai "segni dei tempi"? Si deve considerare ormai fuori dall'orizzonte storico attuale la fiducia nel cammino umano, la valorizzazione delle periferie, delle diversità, dei processi di trasformazione dal basso?
Insomma si deve considerare morto lo spirito del Concilio?
Non ne sarei tanto sicuro. La sua tomba potrebbe essere vuota e i riti funebri un esorcismo contro un processo inarrestabile.
E' una tesi questa assai diffusa fra i sociologi e i teologi. Soprattutto è un atteggiamento di fede e un'apertura di credito alla speranza, su cui si gioca un aspetto non secondario del nostro futuro e su cui si fonda la fedeltà e la costanza di realtà ecclesiali quali ad esempio le comunità di base.
Le comunità di base sono nate proprio per annunciare e inverare il processo di riconciliazione e pacificazione universale a cui tendevano e tendono i “segni dei tempi” intravisti da papa Giovanni.
Comunità di base sono esperienze diffuse in tutto il mondo per andare oltre le incrostazioni secolari delle verità assolute ed esclusive che creano separazione e contrapposizione, per rimettere in moto la ricerca a tutto campo, per oltrepassare tutti i confini, le appartenenze totalizzanti e le bandiere, per cercare strade nuove di relazione basate sul primato dell’uomo e della donna, per riconciliare anche, anzi prima di tutto, i vari aspetti dissociati dell’essere umano, per valorizzare e intrecciare i percorsi positivi in atto in ogni angolo del mondo. Le Comunità di base sono un segno di speranza. Ma i segni di speranza che animano la società attuale sono tanti. La sostiene con forza una testimonianza di padre Ernesto Balducci, apparsa postuma sulla pubblicazione “Che ne è del Concilio”: "Gli apparati ecclesiastici tendono a ricomporsi secondo il modello messo in crisi dal Concilio...Ma la fermentazione del Concilio non si è arrestata...Non ha molta importanza che al vertice della chiesa siano potenti i gruppi della restaurazione. Il Concilio ha riabilitato la libertà di coscienza, dentro e fuori la chiesa, e la libertà di coscienza messa in rapporto col Vangelo come messaggio di liberazione è ormai una forza che nessuna astuzia potrà imbrigliare".


[1] E’ orami noto che il termine “cammello” è una traduzione errata.

lunedì 17 settembre 2012

Assemblea di domenica 16 settembre 2012


Relazione sulle decisioni prese all'assemblea di domenica 16 settembre 2012

-        Claudia e Luciana hanno socializzato brevemente la loro partecipazione all'assemblea nazionale  -chiesa di tutti chiesa dei poveri - che si è svolta a Roma sabato 15 settembre: domenica prossima 23 settembre faranno una relazione più completa e dettagliata

-        Martedì prossimo 18 settembre alle ore 16 viene alle baracche un giornalista svizzero che vuole fare un'intervista per una radio a diffusione europea su - il concilio e il movimento delle comunità di base italiane -

-        Formazione gruppi della domenica: dopo un esame delle problematiche emerse in ogni gruppo ed alcuni cambiamenti operati, si sono riformati e calendarizzati i gruppi secondo lo schema che invio in allegato.
-        Archivio : Carlo organizzerà un incontro per la prossima settimana  (forse lunedì 24 o mercoledì 26 settembre)di tutto il gruppo che si occupa dell'archivio per mettere a punto alcuni aspetti della gestione, inoltre probabilmente sabato 29 settembre si terrà alle baracche  un incontro sull'archivio cdb a cui parteciperanno coloro che stanno seguendo la cosa a livello nazionale( dalle 5 alle 10 persone)
-        Fascicolo baracche verdi : Luisella e Mario Bencivenni si impegnano a preparare un progetto di diffusione che ci comunicheranno ed alla distribuzione del  quale tutti  siamo impegnati a collaborare
-        Archiviazione libri : Antonietta convocherà per i primi di ottobre una riunione di tutte coloro che hanno dato la loro disponibilità a fare questo lavoro insieme con Barbara Grazzini archivista per cominciare ad organizzare la realizzazione di questo lavoro
-        Calendario gruppi che usano le baracche: Maurizio ha già contattato tutti i gruppi e richiesto conferme e variazioni, comprese le nuove richieste. Inoltre proporrà a tutti un incontro per conoscerci meglio e per distribuire loro il fascicolo Baracche Verdi
-        Visione socializzata di film : Carlo, Claudia, Chiara  si impegnano a fare delle proposte di film da vedere insieme e un calendario di attuazione

-        Rimangono immutati gli impegni sulla gestione socializzata delle baracche, come risulta dallo schema elaborato lo scorso anno

Abbiamo inoltre socializzato alcune ipotesi  di iniziative che ci piacerebbe mettere in ponte, per quanto sarà possibile:
-        Trovare, per chi può o lo desidera, dei momenti di approfondimento su temi di interesse comune magari leggendo e commentando insieme dei  testi, in uno spazio di tempo più largo di quello della domenica. Si potrebbe iniziare un pomeriggio al mese e poi….vedere
-        Pensare ad un eventuale progetto di pubblicazione di articoli di Enzo
-        Pensare alla possibilità di realizzare uno spettacolo teatrale su testi e parole di tanti uomini e donne della comunità e del quartiere, per comunicare valori e memorie magari portandolo anche nelle scuole. Potremmo proporre di farci aiutare dai «Chille della balanza« (Ascoli) che si occupano di teatro a San Salvi e che noi conosciamo.

Nota "conciliare"
In vista dell'anniversario cinquantennale del Concilio Vaticano II si pubblica qui questa memoria di Giovanni Franzoni:



(Relazione tenuta il 9/11/2011 a Madrid  al  31° congresso teologico “Los Fundamentalismos” della Asociación de Teólogos y Teólogas Juan XXIII)

Carissimi amici, amiche, care e cari compagni di viaggio,

è per me un grande onore, e una grande gioia, essere stato invitato in Spagna per partecipare a questo vostro incontro. Vi ringrazio, ma non solo per questo che, in fondo, è un dettaglio; vi ringrazio soprattutto perché voi, malgrado le difficoltà, e malgrado che i tempi non sembrino propizi, continuate con coraggio e levare alta la fiaccola del Concilio Vaticano II, e con tenacia continuate a ribadire la necessità di una riforma evangelica della Chiesa romana. Che intendo, per “tempo poco propizio”? Intendo un tempo vuoto di eticità, e di fronte al quale spiace vedere le gerarchie ecclesiastiche, proprio in questa città, esaltarsi per la riunione spettacolare della Giornata mondiale della gioventù, mentre intanto hanno ignorato le ponderate critiche del Forum di oltre cento curas di Madrid, che mettevano in evidenza le contraddizioni – rispetto all’Evangelo – di molti aspetti, anche finanziari e pastorali, dell’organizzazione della Giornata stessa.

Fatte queste premesse, vorrei spiegarvi perché io presi parte al Concilio, per entrare poi, direttamente, nel nostro tema.

 1/ Per quale ragione io partecipai al Concilio.

Avete davanti a voi una persona anziana (sono nato nel 1928) che, quando era giovane, ha avuto la ventura di partecipare al Vaticano II. A quell’evento presero parte circa duemilacinquecento padri, ma, a cinquant’anni di distanza, quasi tutti sono morti. Io sono uno dei pochissimi “padri” sopravissuti (insieme, in Italia, al mio amico monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea); quindi, avete davanti a voi un testimone diretto. Sottolineo questo aspetto perché frequenti sono stati, in questi ultimi anni, i convegni dedicati al Concilio: teologi e storici, che magari negli anni Sessanta del secolo scorso erano dei ragazzini, o non erano ancor nati, hanno riflettuto su quell’evento, dicendo anche cose profonde e importanti; e, tuttavia, di norma, senza sentire il bisogno di ascoltare qualcuno dei padri conciliari ancora viventi. Non che noi, vecchi e spesso malati, possediamo la verità, o siamo indispensabili: ma, qualcosa di interessante potremmo perché testimoni del contesto (umori, attese, timori, delusioni, indignazioni) nel quale furono discussi e stesi i documenti. Un contesto che nessun verbale o cronaca ufficiale, e tanto meno i documenti stessi possono conservare.

     Nel 1964 io, monaco benedettino, fui eletto abate del monastero benedettino di san Paolo fuori le Mura. Pur non essendo vescovo, come abate di san Paolo – un’abazia nullius – avevo il diritto, sancito dai canoni, di prendere parte al Concilio, insieme agli altri abati nella stessa condizione giuridica. Ero, allora, uno dei più giovani padri conciliari: avevo solo 36 anni! Nell’autunno del 1964 partecipai dunque alla terza sessione del concilio, e l’autunno seguente alla quarta ed ultima.

     Quale “etichetta” affibbiarmi, come padre conciliare? Diciamo così che, su molti dei punti che il Concilio doveva affrontare, ero entrato al Vaticano II come un “moderato”; ma su alcuni altri ero “progressista” e, in questo cammino, fui risvegliato al Concilio dalla presenza e dagli interventi di cardinali come il belga Leo Suenens, arcivescovo di Malines-Bruxelles, o di Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, o di patriarchi come il greco-melkita Maximos IV Saigh. Timido com’ero, in Concilio non presi mai la parola; tuttavia, quando la Conferenzaepiscopale italiana fece una riunione per riflettere sulla collegialità episcopale, trattata dal terzo capitolo della Lumen gentium, presi la parola in assemblea. In quella occasione monsignor Antonio Poma – allora vescovo di Mantova;  nel 1968 sarebbe stato scelto da Paolo VI come arcivescovo di Bologna, al posto del “defenestrato” Lercaro – espresse molti timori sulla collegialità episcopale, sostenendo che essa oscurava il primato del papa. Io allora mi alzai, e, proprio prendendo l’esempio dalla Chiesa cattolica di rito orientale, retta in forma sinodale, affermai che il primato papale non viene diminuito ma, al contrario, rafforzato dalla collegialità episcopale. Ricordo che diversi vescovi vennero a congratularsi con il mio intervento e, di fatto, poi l’episcopato italiano, nel suo insieme, e salvo alcuni vescovi tradizionalisti, non fu più rigidamente contrario alla collegialità.

 2. L’atteggiamento ambivalente di Paolo VI

E, dalla cronaca di quel giorno, cerchiamo ora di rispondere alla domanda che è al cuore della questione che mi avete posto: perché, come mai, a noi appare che il Concilio sia stato, e proprio cominciando dai papi, sempre più disatteso, svuotato e, forse, tradito? Una risposta esaustiva esigerebbe, naturalmente, uno studio esaustivo che qui non possiamo fare. Mi limiterò dunque ad alcuni flash, quasi titoli e sommari di una possibile e desiderabile più ampia trattazione.

      Oggi da più parti, anche nei nostri ambienti, si afferma spesso che furono Giovanni Paolo II e poi il cardinale Joseph Ratzinger, dal 2005 divenuto Benedetto XVI, a dare una sterzata per frenare i fermenti post-conciliari e imporre un’interpretazione minimalista e restrittiva del Vaticano II. Secondo me, invece, fu lo stesso Paolo VI a porre delle premesse perché il Concilio potesse essere, almeno in parte, addomesticato, e il post-Concilio raffreddato.

     Quando – novembre 1964 – il Concilio finalmente si apprestava ad approvare solennemente la costituzione sulla Chiesa, papa Montini obbligò ad allegare al testo  una “Nota esplicativa previa” al terzo capitolo della Lumen gentium, quello appunto che affrontava il tema della collegialità, cioè i rapporti tra primato papale e potere del collegio episcopale. La Nota ribadisce, in modo esasperato, il potere papale, dando di questo una interpretazione che, in prospettiva, svuotava la collegialità episcopale pur affermata dalla Lumen gentium (per essere preciso, ricordo che il testo conciliare non usa mai il sostantivo “collegialità”, ma parla del “collegio dei vescovi”); essa ripete cento volte che tale collegio nulla può “senza il suo capo”, cioè senza il sommo pontefice. Salvo eccezioni,la Curia romana sostenne poi che la “Nota previa” era un atto del Concilio. Ma non è così: essa è un atto papale, di sola responsabilità di Paolo VI. Il Concilio ne ha semplicemente preso atto, ma senza fare suo, formalmente, tale testo.

     Sempre a proposito della Lumen gentium: quando si arrivò a discutere del capitolo ottavo, che parla della Vergine Maria, l’episcopato polacco – guidato dal cardinale Stefan Wyszynski – si batté energicamente perché nel testo la Vergine fosse proclamata “Madre della Chiesa”. Un titolo che la maggioranza dei padri conciliari ritenne teologicamente insostenibile. I polacchi insistettero, gli altri pure. Infine, nel testo finale, il discusso titolo non c’era. Che fece, allora, Paolo VI? Nel discorso del 21 novembre 1964, dopo che quel giorno il Concilio approvò solennemente la costituzione Lumen gentium, egli proclamòla Madonna “madre della Chiesa… e vogliamo che con tale titolo soavissimo d’ora innanzi la vergine venga ancor più onorata e invocata da tutto il popolo cristiano”. E così, in un colpo solo, il pontefice scavalcava il Concilio che, a gran maggioranza, aveva respinto quel titolo, e faceva questo proprio mentre si approvava un testo che affermava la collegialità episcopale. Attenzione, sembrava dire il papa, discutete fin che volete, ma, alla fine, deciderò come pare a me. Di fatto, cioè, mentre con il Concilio egli proclamava la collegialità episcopale, ne dava una interpretazione personale minimizzante e una attuazione monca.

     Altro scenario. Quando, con il decreto Presbyterorum ordinis, nella quarta sessione ci apprestammo a discutere sul ministero e la vita sacerdotale, si dovette affrontare il problema del celibato obbligatorio per i preti della Chiesa latina. Emersero interventi del tutto favorevoli a mantenere la legge in vigore ma, anche, qualche intervento che prospettava l’ipotesi di quelli che, poi, si sarebbero chiamati, in latino, i viri probati, cioè uomini maturi, già inseriti nella vita professionale, e padri di famiglia, da ordinare preti. Questi interventi “progressisti”, per quanto rari, turbarono il papa che, allora, scrisse una lettera al consiglio di presidenza del Concilio, chiedendogli di informare l’assemblea che il pontefice avocava a sé la questione del celibato sacerdotale; dunque, la discussione del Vaticano II in merito veniva troncata. Nel 1967, poi, papa Montini pubblicava l’enciclica Sacerdotalis caelibatus nella quale respingeva ogni ipotesi di cambiamento della legge in vigore. Ma tutti sanno che, da allora, per tutti questi cinquant’anni la questione del celibato ha provocato infiniti dibattiti, molto malessere, molta sofferenza. Se il papa avesse lasciato piena libertà al Concilio, forse si sarebbe aperto il varco per una riforma. Ma il papa decise, e i padri conciliari non ebbero il coraggio di insistere per mantenere la libertà di dibattere quello spinoso tema.

    Anche sulla Gaudium et spes il papa fece un intervento autoritativo che provocò gravi conseguenze. Quando si discusse sui metodi moralmente legittimi per regolare le nascite, numerosi padri – Suenens e Maximos IV tra essi – sostennero che ai coniugi andava lasciata libertà di coscienza; tesi contraddetta da padri meno numerosi ma combattivi. Decisi a riaffermare la Casti connubii, l’enciclica con cui nel 1930 Pio XI dichiarava essere colpa grave impedire il normale processo generativo di un singolo atto coniugale, i padri “conservatori” si opposero in ogni modo alle proclamate aperture e innovazioni. I “progressisti” ribadirono che – era stata appena scoperta la “pillola” – non era saggio opporsi alla scienza, ed emettere sentenze in campo così opinabile. Apparve chiaro che la gran maggioranza del Concilio era a favore delle tesi “aperte”. Intervenne allora Paolo VI, ed avocò a sé la determinazione dei mezzi moralmente leciti per regolare le nascite. Il che fece con l’enciclica Humanae vitae di cui parleremo poi.

     Ricorderò, infine, che molti padri, ormai affascinati dal dibattito conciliare, e ogni giorno più consapevoli della posta in gioco, speravano che, dopo la quarta sessione, altre ancora ce ne fossero. Ma, aprendo quella, il segretario del Concilio, monsignor Pericle Felici, dopo aver spiegato ai padri il programma dei lavori,  annunciò che la quarta sessione erit ultima, sarà l’ultima. Così, ovviamente, aveva deciso Paolo VI, che temeva che il protrarsi del Vaticano II avrebbe fatto ombra all’autorità papale.

     Da questi pochi esempi (altri se ne potrebbero addurre) risulta abbastanza evidente che fu Paolo VI a fare delle scelte che amputarono il Concilio delle sue potenzialità, e pose le premesse per una interpretazione riduttiva dei documenti del Vaticano II. Dunque Wojtyla e Ratzinger poterono, poi, riferirsi a lui per portare avanti una attuazione restrittiva e limitativa del Concilio. Ma – e questa è l’altra faccia della medaglia – Montini non fece solo questi interventi. Ne fece altri, e di altro orientamento. Qui ne ricorderò uno che, a me, parve allora, e pare ancor oggi, di grande significato storico, teologico ed ecclesiale.

Un vescovo italiano si levò un giorno a parlare osservando che chi invocava una “Chiesa dei poveri” non diceva nulla di nuovo, in quanto al Chiesa era sempre stata dei poveri. Successivamente prese la parola il patriarca dei melkiti Maximos IV Saigh il quale, in un breve e secco intervento di risposta, disse che era vero che la Chiesa era sempre stata per i poveri, ma li aveva sempre lasciati poveri. Essendovi nel nostro tempo un forte movimento di riscatto delle popolazioni dalla povertà, concluse dicendo che era opportuno che la Chiesa fosse con i poveri.

Ebbene, dopo pochi giorni Maximos celebrò in san Pietro una liturgia in rito bizantino: da un tronetto collocato nella parte opposta del transetto, Paolo VI assisteva alla messa con la tiara in capo.  All’offertorio il papa si tolse la tiara (quella preziosa, regalatagli dai cattolici milanesi quanto nel 1963 era stato eletto papa), si alzò, attraversò tutto il presbiterio e la depose sulle ginocchia del patriarca. Io vidi in questo gesto – e sono sicuro che così lo intendeva anche il pontefice – la scelta di chiudere con l’era del potere temporale dei papi, un potere che era rappresentato da una delle tre corone della tiara (detta anche, per questo, “triregno”).  Non era, cioè, un gesto tanto per fare, ma una scelta strategica meditata. Bisogna notare infatti che, nessun papa dopo di lui è mai apparso con la tiara sul capo. Si può supporre che Paolo VI abbia detto qualcosa sulla definitiva eliminazione di questo arrogante simbolo dl potere, anche politico, del papato. Lasciamo da parte il fatto che la tiara fu poi portata in giro negli Stati Uniti per raccogliere soldi; ma, in sé, il gesto del papa era solenne e pregnante. Ma… le escrescenze del potere papale ereditate dalla storia, che sono ben altra cosa dalla sostanza del carisma petrino, non sono state purtroppo abbandonate; e, anzi, Wojtyla e Ratzinger le hanno accresciute.

     Certo, dobbiamo ammetterlo, papa Montini si trovava in una situazione scomoda: doveva cercare di tenere unito il Concilio scosso da opposte tendenze. Da questo punto di vista, si può ben comprendere il suo tentativo di far annacquare i testi conciliari fino al punto di farli accettare dalla minoranza conciliare, attestata su posizioni tenacemente conservatrici. Tuttavia, si deve anche rilevare – mi sembra – che spesso la sua opera di mediazione finì con il limitare, o cancellare, la libertà del Concilio; e, soprattutto, differì al futuro problemi che, poi, sarebbero scoppiati, provocando disastrose conseguenze. Montini era ossessionato dalla ricerca di una unanimità morale su tutti i testi conciliari: nobile proposito che, però, avrebbe  solo sopito, ma non cancellato tensioni laceranti.

 3. Le contraddizioni dei testi conciliari.

Nei testi conciliari – in particolare nella Lumen gentium – si sovrappongono due visioni ecclesiologiche: l’una, legata al Concilio di Trento e al Vaticano I, che vedevala Chiesa come “società perfetta”, quasi una piramide con al vertice il romano pontefice. Diciamo, una visione giuridica della Chiesa. L’altra visione, invece, vedevala Chiesa come “comunione”, come popolo in cammino nella storia per annunciare l’evangelo e, stringendo le mani con tutte le persone di buona volontà, deciso a fare la sua parte, senza pretese di primogenitura, per favorire la pace e la giustizia nel mondo.

     Più che scegliere tra queste due visioni, il Concilio le sovrappone, le mescola. Facciamo un esempio. Nel primo schema sulla Chiesa preparato in sostanza dalla Curia romana, il secondo capitolo era dedicato alla gerarchia, il terzo al popolo di Dio. Ma, infine, la Lumen gentium ha rovesciato l’ordine: il popolo di Dio al secondo capitolo, la gerarchia al terzo. Tuttavia, mentre il secondo capitolo apre ampi orizzonti, e sembra ricalcato sulla ecclesiologia della comunione, il terzo ha un altro sapore, un’altra angolazione, e gravato da una visione giuridica. Per cui, pur affermando la collegialità episcopale, la limita da ogni parte.

    A parte questo, i documenti conciliari sono disseminati di limitazioni: i vescovi potranno fare, se il papa consentirà… I laici potranno fare, se il vescovo permetterà… Questo e quello si potrà fare, ma solo se i tempi lo consentono…

    Fatte queste premesse, che accadde, quando i padri, terminato il Concilio, tornarono a casa? Alcuni ritenevano che, quanto affermato dal Vaticano II, fosse il massimo che si potesse concedere; e dunque si adoperarono per smorzare ogni prospettiva innovativa; altri, al contrario, erano del parere che il Concilio avesse detto il minimo che si potesse dire perché tutti lo accettassero, lasciando poi alle chiese locali, di fare altri, ulteriori passi in avanti. Gli uni e gli altri potevano trovare nei testi conciliari le frasi che sostenevano le loro tesi.

 4. Il post-Concilio, delusioni, contraddizioni, speranze.

Fare la storia del post-Concilio significherebbe di fatto fare la storia della Chiesa cattolica romana degli ultimi cinquant’anni: impresa ovviamente impossibile in questo mio breve intervento. Mi limiterò, dunque, a indicare, i punti che secondo me sono più interessanti, per capire che cosa è accaduto, e per dare a noi qualche indicazione per il nostro cammino futuro.

    Nell’insieme, la Curiaromana, sotto Paolo VI, ha fatto di tutto per normalizzare la situazione, e depotenziare il Concilio. In particolare, fu depotenziata l’attuazione della collegialità episcopale: infatti, il Sinodo dei vescovi, istituito dal papa mentre iniziava la quarta sessione, e dunque sottraendo al Vaticano secondo un dibattito su tale argomento capitale, non è una vera attuazione della collegialità episcopale (pensate che il motu proprio Apostolica sollicitudo con cui papa Montini istituisce il Sinodo non cita mai la Lumen gentium!): Paolo VI concepisce il Sinodo come un organismo per “consigliare” il papa, che rimane libero di accogliere o respingere le proposte dell’Assemblea. E, nella attuazione pratica, le Assemblee sinodali sono state articolate in modo da attenuare la libertà dei vescovi, anche se, talora, come nel Sinodo del 1971 che affrontava il tema del sacerdozio ministeriale, alcuni padri ebbero il coraggio di parlare di argomenti-tabù – come i viri probati e, addirittura, i ministeri femminili.

     Ancor più: nulla è stato fatto per concretizzare l’affermazione conciliare della Chiesa come “popolo di Dio”. Sarebbe del tutto logico che, posta questa premessa, fosse istituito una specie di Senato della Chiesa cattolica, ove fossero rappresentanti vescovi, preti, monaci, monache, religiosi, religiose, laici, uomini e donne, per dibattere insieme i problemi maggiori. O, meglio, accanto ad ogni Conferenza episcopale (che riunisce le Chiese locali di una data nazione o di un dato territorio), dovrebbe esserci questo Senato, che invierebbe un suo rappresentante nel Senato della Chiesa cattolica.

      In mancanza di tale organismo rappresentativo a livello universale, alcune Conferenze episcopali hanno scelto delle strade per attuare in modo serio il Vaticano II. La Chiesaolandese ardì addirittura convocare un Concilio pastorale, che osò affrontare anche temi tabù, come il celibato opzionale dei preti, per questo costretta da Roma a fare marcia indietro. In Germania i vescovi vollero un Sinodo che di fatto contestò l’enciclica Humanae vitae. Negli Stati Uniti d’America i vescovi scrissero una lettera sulle donne che, infine, dovettero amputare nei passaggi che, secondola Curia romana, potevano lasciare aperto un varco verso i ministeri femminili. In altri paesi vi furono iniziative analoghe. Insomma, da più parti si cercò di trarre le conseguenze dai principi generali, ma astratti, lanciati dal Concilio. Ma, proprio per la giustapposizione di due ecclesiologie che percorre i testi del Vaticano II, mentre alcuni si fecero forti di talune affermazioni, altri, e cioè la curia romana e i vescovi conservatori, si fecero forti di altre, e dunque si innescò quella tensione, che dura fino ad oggi, tra gli uni e gli altri, ambedue che appoggiano le loro scelte su parole del Concilio.

Non coglierebbero totalmente nel segno coloro che ritenessero sufficienti le categorie dei “progressisti” e dei “conservatori” per identificare le divisioni manifestatesi nel Concilio. Non si trattò sempre di blocchi contrapposti  in base al modo di vedere, in generale  più aperto o più tradizionale. In alcuni casi si è trattato invece di divisioni trasversali, derivanti dal contesto in cui si trovava ad operare ogni singolo episcopato. Poteva così verificarsi che alcuni padri, “progressisti” su determinati argomenti, si rivelassero “conservatori” su altri. L’esempio più evidente fu quello dell’episcopato statunitense, chiuso su temi come la pena di morte o l’armamento atomico e tutto sommato ben fermo sull’autorità monarchica del Papa, ma che si rivelò poi decisamente innovativo sul tema della libertà religiosa (oggetto della “Dichiarazione conciliare” Dignitatis humanae) perché erano nati e cresciuti in un paese dove agli immigrati irlandesi, italiani, latinos, pur essendo disprezzati, venne sempre riconosciuta la libertà religiosa. E così fecero, di quella cattolica, una Chiesa fiorente a tal punto che fu in grado di esprimere un Presidente degli Stati Uniti.

     Il paradigma di tutte queste contraddizioni è stata, secondo me, la vicenda dell’Humanae vitae. Proprio il metodo scelto da Paolo VI (impedire al Concilio un libero dibattito sulla regolazione delle nascite, istituire una commissione di studio per farsi aiutare, smentire le conclusioni di tale organismo perché demolivano le tesi care alla Curia romana, decidere autoritativamente di imporre sulla coscienza dei coniugi dei pesi che l’Evangelo non impone) è la prova evidente, la prova ecclesiologica, della incapacità di Montini di accogliere il senso del Concilio. In lui – e più ancora, poi, in Giovanni Paolo II e in Benedetto XVI – rimane ferma una idea assolutista e monarchica del papato: una idea che contrasta con la radice del ministero petrino come emerge dal Nuovo Testamento e come, purtroppo con grande timidezza, il Vaticano II aveva cercato di far intuire.

     Per non smentire il magistero papale – un magistero recente, perché risaliva a Pio XI – Paolo VI smentì di fatto il Concilio: a suo parere, infatti, il magistero papale è “più” di un Concilio. Aggiungo però tre osservazioni. Prima osservazione: la Humanae vitae chiede ai confessori di trattare con misericordia i coniugi che non accettassero quell’enciclica, ed esplicitamente afferma di non escluderli dai sacramenti. Il che non era scontato. Infatti, dagli Anni Trenta agli Anni Cinquanta – in Italia, almeno; in Spagna non so – i parroci negavano l’assoluzione agli uomini onanisti. Dunque, sotto questo aspetto Montini fece un passo avanti importante. Seconda osservazione: il papa non definì in modo infallibile le sue tesi, come pure chiedeva una parte della Curia e alcuni gruppi di vescovi conservatori. Terza osservazione: Paolo VI fu talmente turbato dall’ondata di critiche – di teologi, di gruppi vari, perfino di alcune Conferenza episcopali, dall’Olanda all’Indonesia – che nei dieci successivi anni di pontificato non emanò più nessuna enciclica.

     Papa Wojtyla, invece, con il valido aiuto del cardinale Ratzinger, pretese di fatto obbedienza assoluta all’enciclica, “come se” essa fosse un pronunciamento infallibile. E così, per esempio, radiarono dall’insegnamento il teologo statunitense Charles Curran che apertamente contestava quell’enciclica tecnicamente “fallibile”, non essendo dal papa stesso voluta come “infallibile”.

     Un punto su cui, invece, a mio parere, sia Montini che Wojtyla hanno proseguito sulla scia del Concilio è l’impegno per la pace e la giustizia nel mondo. Con l’enciclica Populorum progressio nel 1967 Paolo VI ammise addirittura l’insurrezione armata per rovesciare dittature; e alla prima guerra del Golfo, nel 1991, e alla seconda, Giovanni Paolo II levò alta la voce contro quell’”avventura senza ritorno”.

     Ma quando i teologi della liberazione in America latina tentarono di applicare alla concreta situazione del loro Continente sia la Gaudium et spes che la Populorum progressio, e trassero le conseguenze operative dalle forti affermazioni della Conferenza di Medellín sulle “strutture ingiuste della società” che inevitabilmente generano oppressione e povertà, ecco che Paolo VI in modo incipiente, e Wojtyla e Ratzinger in modo sistematico, troncarono autoritativamente la teologia della liberazione. Leonardo Boff èeIvone Gebara sono stati le vittime più illustri di questa politica vaticana. Inoltre, a partire da Wojtyla,la Curia romana ha attuato una politica sistematica per sostituire i vescovi “progressisti” con vescovi “conservatori” e, soprattutto “anti-liberazionisti”. E Quando Oscar Romero morì martire della giustizia in Salvador, a sostituirlo chiamarono un vescovo dell’Opus Dei!

     Ancor più aspra fu la repressione dei papi post-conciliari contro i teologi che, con le loro tesi ecclesiologiche (ben radicate nelle Scritture, e con agganci anche nel Vaticano II), mettevano in questione le strutture di potere della Chiesa romana. Le vittime maggiori (non uniche!) di tale repressione sistematica attuata dalla Curia romana, già a partire da Paolo VI e ancor più dopo, sono stati il teologo svizzero tedesco Hans Küng, il tedesco Bernard Haring e il teologo cingalese Tissa Balasuriya.

     Infine – sempre procedendo per rapidissimi flash – penso che soprattutto su un punto i papi post-conciliari hanno dimenticato il Concilio, o lo hanno interpretato in modo riduttivo e, infine, deviante: mi riferisco al rapporto tra norme etiche proclamate dal magistero cattolico e leggi dello Stato sui “punti sensibili” (cioè i temi riguardanti la sessualità, la famiglia, il fine-vita). In Italia, come sapete, per il maggio 1974 era in programma un referendum per dire SI’ oppure NO all’abrogazione della legge sul divorzio. Dunque, si trattava di discutere su una legge civile, non su un sacramento. Ma il Vaticano ela Conferenzaepiscopale tentarono di imporre, moralmente, e non solo ai cattolici, ma a tutti i cittadini, di votare SI’ all’abrogazione. Io – permettetemi un riferimento personale – mi opposi pubblicamente a questa pretesa e, in un piccolo libro, sostenni la libertà di voto, di coscienza, dei cattolici. E così fui sospeso a divinis!

     Infine, il 12 e 13 maggio ’74 si votò: e l’Italia – che secondo le statistiche vaticane era cattolica al 98% – al 60% votò NO alla cancellazione della legge sul divorzio. Papa e vescovi rimasero tramortiti, ma non si arresero né allora né poi: e, infatti, in un referendum del giugno 2005 sulla procreazione assistita, essi fecero pubblicamente campagna per invitare tutti a non andare a votare e così, non avendo raggiunto il quorum del 50%+1 dei votanti, il referendum fu invalido. Le gerarchie ecclesiastiche  sono convinte che solo il magistero cattolico possa dire parole di verità sulla “legge naturale” e sui “temi sensibili”; e dunque impegnano i cattolici a far sì che le leggi civili ricalchino il punto di vista della dottrina cattolica ufficiale sui singoli temi. Il concetto di laicità è totalmente estraneo alle gerarchie: o, meglio, esse lo invocano, ma precisando che la laicità deve essere “sana”, cioè accogliente le tesi vaticane.

    Ultimo flash: in questi cinquant’anni, con un crescendo continuo, anche nella Chiesa romana sempre più si è imposto il problema donna: quale il loro ruolo? E’ pensabile un ministero femminile? Paolo VI prima, Giovanni Paolo II poi hanno troncato ogni possibile dibattito sulla donna-sacerdote. Ma anche le donne non vogliono diventare sacerdote, perché non vogliono nemmeno uomini-sacerdoti. Il sacerdozio, infatti, non esiste nel pensiero di Gesù: egli parla di altro, parla di una comunità di fratelli e sorelle, parla di “servizio reciproco”; il Nuovo Testamento parla di “sorveglianti” (vescovi), “presbiteri” (anziani), “diaconi” (servitori). Ecco, a questa Chiesa si oppongono, oggi, le gerarchie, decise a mantenere una struttura maschilista e patriarcale per salvaguardare il loro potere sacro. Perciò, pur volendo i preti, dicono no alla donna-prete. Noi, invece, sogniamo questa Chiesa senza preti e pretesse, ma dove donne e uomini, celibi o sposati, esercitano dei “ministeri” a servizio della comunità ecclesiale. Utopia? Eresia?

 5. Alzate lo sguardo, già la messe biondeggia

Ovviamente – l’ho già detto, ma mi piace ripeterlo – ci vorrebbero volumi e volumi per affrontare in modo adeguato il nostro tema. Volendo ora sintetizzare, descriverei così il nodo del contrasto che grava sulla Chiesa cattolica da decenni: per Wojtyla e Ratzinger il Vaticano II va visto alla luce del Concilio di Trento e del Vaticano I; per noi, invece, quei due Concili vanno letti, e relativizzati, alla luce del Vaticano II. Dunque, data questa divergente angolazione, i contrasti sono ineliminabili, ed a cascata, ogni giorno, noi vediamo giungere dalla cattedra romana norme, decisioni, interpretazioni che, secondo noi, confliggono radicalmente con il Vaticano II.

    Che fare, allora? Penso che, senza presumere di avere in tasca tutte le soluzioni buone, noi dobbiamo assumerci la responsabilità di vivere, in modo comunitario, la risposta all’Evangelo, e poi, sedendoci alla tavola con tutti gli uomini e con tutte le donne di buona volontà, cercare insieme di capire che cosa possiamo fare per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato – il programma del “processo conciliare” lanciato nel 1984 dalla sesta Assemblea generale del Consiglio ecumenico delle Chiese svoltasi a Vancouver, in Canada. Io ritengo che ogni volta che noi cristiani e cristiane celebriamo l’Eucaristia, celebriamo quasi una ordalia: e, cioè, in quel momento, in quella mensa con Gesù, noi siamo giudicati se stiamo compiendo un rito falso e consolante, o un impegno reale e coerente. Se, come Gesù, malgrado i nostri limiti e le nostre contraddizioni (lasciatemelo dire: siamo pieni di contraddizioni anche noi: siamo imperfetti e peccatori, come lo èla Chiesastorica alla quale apparteniamo), ci impegniamo ad essere una Chiesa-per-gli-altri, come ci ha insegnato Dietrich Bonhoeffer, allora l’Eucaristia che celebriamo sarà per noi di benedizione e di salvezza, un vero viatico nel nostro cammino verso il Regno; se invece dietro al rito non vi è nulla, e lavoriamo per una Chiesa-per-noi, la nostra Eucaristia sarà la nostra morte e la nostra maledizione (I Cor 11,28). Ma, come benissimo dicono i rabbini commentando i primi due capitoli del Genesi, quando il Signore maledice il serpente che ha tentato Eva, ancora benedice: e, infatti – essi argutamente notano – obbligando il serpente a strisciare in realtà il Signore gli permette di fuggire dai pericoli e di nascondersi nei buchi della terra. Ecco allora che se la nostra Eucaristia non è sincera, il Signore ci invita al ravvedimento, alla conversione, a riprendere con umiltà e coraggio il cammino.

     Mi chiederete: hai fiducia nel futuro della Chiesa? Che rispondervi? Se il mondo è messo così male, potrebbe maila Chiesaessere messa bene? Non pensiamo, dunque, al futuro, pensiamo all’oggi. In questo oggi così tragico e tormentato, così sconvolto da mali spaventosi e coperto dalle tenebre, ecco che veniamo a sapere, tanto per fare un esempio, che nella centrale nucleare giapponese di Fukushima dei tecnici, sapendo di andare alla morte, si sono calati nella centrale per cercare di raffreddarla. Quelle persone non erano cristiane, forse nulla sapevano di Gesù. Eppure hanno accettato la morte semplicemente per salvare altre vite. E, vedendo questo, mi commuovo, e dico che si può ancora sperare nell’uomo. E mi vengono in mente la parole di Gesù: “Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura” (Giovanni, 4, 35). Sì, in un mondo dove straripano il loglio e la zizzania, qua e là, grazie a Dio, matura il grano dorato, là dove donne e uomini si impegnano per pace-giustizia-salvaguardia del creato, là dove si fanno Samaritani per aiutare quel fratello sconosciuto che cade vittima dei briganti.
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