Caro direttore, la dignità della vita non si discute. Che si tratti di un neonato, di un giovane ammalato, di un anziano disabile o di una persona in stato vegetativo permanente, il valore di quell’esistenza va sempre riconosciuto e rispettato. Tuttavia, di fronte a malattie incurabili che segnano il destino di un essere umano, o di fronte ad una condizione irreversibile come quella di Eluana Englaro, non c’è un solo modo di rapportarsi, non c’è chi ha ragione o chi ha torto, c’è solo un drammatico bisogno di rispetto dei diritti e della dignità.
Le due testimonianze pubblicate nei giorni scorsi su Repubblica dimostrano proprio questo: due donne con la stessa malattia, con il medesimo ineluttabile destino a cui hanno reagito in maniera diametralmente opposta. Una ha scelto di liberarsi dalla sofferenza ponendo fine alla propria esistenza in tragica solitudine. La seconda ha scelto invece di continuare a vivere e ci ricorda, con una forza che obbliga a riflettere, le carenze organizzative di un sistema che non le garantisce tutti i supporti medici e tecnologici che oggi esistono. A questa donna, e a tutti coloro che vivono in situazioni drammaticamente simili, va detto che non c’è nessun motivo per cui il diritto a continuare a vivere non debba essere affermato e difeso. Ci mancherebbe altro! AIlo stesso tempo è difficile non riconoscere che un paziente possa sentirsi abbandonato quando deve lottare per ottenere quegli strumenti e quelle attrezzature mediche indispensabili a garantire il proseguimento della vita in maniera dignitosa.
Ma le responsabilità non vanno attribuite solo e genericamente allo Stato, piuttosto il dito va puntato anche contro l’inerzia delle amministrazioni sanitarie regionali che sono spesso all’origine di gravi disfunzioni e della mancata assistenza a questi malati. I responsabili hanno un nome e cognome, sono quasi sempre i funzionari di un assessorato che non portano avanti le pratiche con la dovuta celerità, che non hanno la sensibilità di capire che dietro alle carte c’è la vita di una persona che attende una firma, un’autorizzazione. Non c’è una strategia nelle loro azioni, la chiamerei piuttosto imperdonabile e gravissima sciatteria. Ciò di cui si dovrebbe dibattere, per arrivare ad una legge che regolamenti la materia in modo chiaro, è il rispetto delle volontà dell’individuo di fronte alla malattia. C’è chi, per motivi personali, culturali, religiosi o altro, afferma la propria volontà di ricevere ogni cura di fronte ad ogni circostanza avversa. Sono persone coraggiose che devono essere ascoltate, sostenute e assistite con ogni mezzo e sostegno economico possibile. Ma c’è anche chi preferisce rinunciare a terapie che considera sproporzionate per se stesso. Ci sono persone che non giudicano accettabile l’idea di trascorrere la propria esistenza in stato vegetativo permanente perché ritengono che la vita sia soprattutto relazione con il mondo e se la relazione non c’è più, per loro la vita perde di signfficato. Anche questa posizione va rispettata senza esprimere giudizi.
Nessuno dei due diritti, alle terapie o alla rinuncia delle terapie, può essere negato. E questo ciò che lo Stato deve garantire: parità di diritti a tutti i cittadini, nel caso specifico il rispetto dell’autodeterminazione dei pazienti nelle decisioni terapeutiche. Le due situazioni mettono dunque in luce problemi gravissimi, sono entrambe importanti, ma non sono direttamente collegate. Il rispetto della vita e della persona non è in contraddizione con il rispetto delle volontà del malato, ma per fare in modo che ognuno possa esercitare un diritto è necessaria una legge che si occupi di tutti gli aspetti che riguardano la fine della vita, dal testamento biologico alle cure palliative alle terapie del dolore. Non serve una legge per staccare la spina, ma una legge perché ogni cittadino, sulla base dei propri principi e dell’articolo 32 della Costituzione, possa liberamente decidere ciò che vuole o non vuole nel momento di passaggio dalla vita alla morte.
- DI IGNAZIO MARINO
da: la Repubblica di venerdì 18 luglio 2008
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