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giovedì 3 marzo 2011

Simon mago - III









Inferno   



Canto XIX




































































































































































































































































































































































































































































































































































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  O Simon mago, o miseri seguaci




 




che le cose di Dio, che di bontate




 




deon essere spose, e voi rapaci




 




  per oro e per argento avolterate,




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or convien che per voi suoni la tromba,




 




però che ne la terza bolgia state.




 




  Già eravamo, a la seguente tomba,




 




montati de lo scoglio in quella parte




 




ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.




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  O somma sapienza, quanta è l'arte




 




che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,




 




e quanto giusto tua virtù comparte!




 




  Io vidi per le coste e per lo fondo




 




piena la pietra livida di fóri,




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d'un largo tutti e ciascun era tondo.




 




  Non mi parean men ampi né maggiori




 




che que' che son nel mio bel San Giovanni,




 




fatti per loco d'i battezzatori;




 




  l'un de li quali, ancor non è molt'anni,




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rupp'io per un che dentro v'annegava:




 




e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni.




 




  Fuor de la bocca a ciascun soperchiava




 




d'un peccator li piedi e de le gambe




 




infino al grosso, e l'altro dentro stava.




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  Le piante erano a tutti accese intrambe;




 




per che sì forte guizzavan le giunte,




 




che spezzate averien ritorte e strambe.




 




  Qual suole il fiammeggiar de le cose unte




 




muoversi pur su per la strema buccia,




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tal era lì dai calcagni a le punte.




 




  «Chi è colui, maestro, che si cruccia




 




guizzando più che li altri suoi consorti»,




 




diss'io, «e cui più roggia fiamma succia?».




 




  Ed elli a me: «Se tu vuo' ch'i' ti porti




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là giù per quella ripa che più giace,




 




da lui saprai di sé e de' suoi torti».




 




  E io: «Tanto m'è bel, quanto a te piace:




 




tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto




 




dal tuo volere, e sai quel che si tace».




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  Allor venimmo in su l'argine quarto:




 




volgemmo e discendemmo a mano stanca




 




là giù nel fondo foracchiato e arto.




 




  Lo buon maestro ancor de la sua anca




 




non mi dipuose, sì mi giunse al rotto




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di quel che si piangeva con la zanca.




 




  «O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,




 




anima trista come pal commessa»,




 




comincia' io a dir, «se puoi, fa motto».




 




  Io stava come 'l frate che confessa




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lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,




 




richiama lui, per che la morte cessa.




 




  Ed el gridò: «Se' tu già costì ritto,




 




se' tu già costì ritto, Bonifazio?




 




Di parecchi anni mi mentì lo scritto.




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  Se' tu sì tosto di quell'aver sazio




 




per lo qual non temesti tòrre a 'nganno




 




la bella donna, e poi di farne strazio?».




 




  Tal mi fec'io, quai son color che stanno,




 




per non intender ciò ch'è lor risposto,




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quasi scornati, e risponder non sanno.




 




  Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:




 




"Non son colui, non son colui che credi"»;




 




e io rispuosi come a me fu imposto.




 




  Per che lo spirto tutti storse i piedi;




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poi, sospirando e con voce di pianto,




 




mi disse: «Dunque che a me richiedi?




 




  Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto,




 




che tu abbi però la ripa corsa,




 




sappi ch'i' fui vestito del gran manto;




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  e veramente fui figliuol de l'orsa,




 




cupido sì per avanzar li orsatti,




 




che sù l'avere e qui me misi in borsa.




 




  Di sotto al capo mio son li altri tratti




 




che precedetter me simoneggiando,




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per le fessure de la pietra piatti.




 




  Là giù cascherò io altresì quando




 




verrà colui ch'i' credea che tu fossi




 




allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.




 




  Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi




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e ch'i' son stato così sottosopra,




 




ch'el non starà piantato coi piè rossi:




 




  ché dopo lui verrà di più laida opra




 




di ver' ponente, un pastor sanza legge,




 




tal che convien che lui e me ricuopra.




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  Novo Iasón sarà, di cui si legge




 




ne' Maccabei; e come a quel fu molle




 




suo re, così fia lui chi Francia regge».




 




  Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,




 




ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:




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«Deh, or mi dì : quanto tesoro volle




 




  Nostro Segnore in prima da san Pietro




 




ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?




 




Certo non chiese se non "Viemmi retro".




 




  Né Pier né li altri tolsero a Matia




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oro od argento, quando fu sortito




 




al loco che perdé l'anima ria.




 




  Però ti sta, ché tu se' ben punito;




 




e guarda ben la mal tolta moneta




 




ch'esser ti fece contra Carlo ardito.




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  E se non fosse ch'ancor lo mi vieta




 




la reverenza delle somme chiavi




 




che tu tenesti ne la vita lieta,




 




  io userei parole ancor più gravi;




 




ché la vostra avarizia il mondo attrista,




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calcando i buoni e sollevando i pravi.




 




  Di voi pastor s'accorse il Vangelista,




 




quando colei che siede sopra l'acque




 




puttaneggiar coi regi a lui fu vista;




 




  quella che con le sette teste nacque,




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e da le diece corna ebbe argomento,




 




fin che virtute al suo marito piacque.




 




  Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento;




 




e che altro è da voi a l'idolatre,




 




se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?




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  Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,




 




non la tua conversion, ma quella dote




 




che da te prese il primo ricco patre!».




 




  E mentr'io li cantava cotai note,




 




o ira o coscienza che 'l mordesse,




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forte spingava con ambo le piote.




 




  I' credo ben ch'al mio duca piacesse,




 




con sì contenta labbia sempre attese




 




lo suon de le parole vere espresse.




 




  Però con ambo le braccia mi prese;




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e poi che tutto su mi s'ebbe al petto,




 




rimontò per la via onde discese.




 




  Né si stancò d'avermi a sé distretto,




 




sì men portò sovra 'l colmo de l'arco




 




che dal quarto al quinto argine è tragetto.




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  Quivi soavemente spuose il carco,




 




soave per lo scoglio sconcio ed erto




 




che sarebbe a le capre duro varco.




 




  Indi un altro vallon mi fu scoperto.




 



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