Comunità dell’Isolotto - Firenze, domenica 23
settembre 2012
Chiesa di tutti, Chiesa dei
poveri
Assemblea nazionale a 50 anni
dall’inizio del Concilio Vaticano II
il racconto e alcune riflessioni di Luciana e
Claudia
1.
Letture dal Vangelo
dal Vangelo di Matteo
Gesù allora disse ai suoi
discepoli: “In verità vi dico, difficilmente un ricco entrerà nel regno dei
cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un grosso canapo[1] entri nella cruna di
un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i
discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”.
dal Vangelo di Matteo
Allora il Signore dirà a quelli
che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in
eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho
avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere,
ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete
visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli
risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato
da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto
straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti
abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il
Signore risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto
a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Dalla
prima lettera di Giovanni
…Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da
Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio … Dio nessuno l'ha mai visto.
Però se ci amiamo gli uni gli altri, egli è presente in noi, e il suo amore è
veramente perfetto in noi.
Ri-utilizzando le parole di Frei
Betto teologo brasiliano della Teologia della liberazione possiamo dire che
l’unico punto dei quattro Vangeli in cui Gesù parla di coloro che si salveranno
è il passo di Matteo che abbiamo letto. In questo passo Gesù non dice che
coloro che saranno quelli che pregano, che vanno a messa tutti i giorni, che
obbediscono al papa…ma quelli che danno da mangiare e da bere a chi ha fame e
sete, chi veste gli ignudi, chi visita i carcerati…insomma coloro che avranno
scelto di stare dalla parte dei poveri, di dar loro voce, forza e diritti.
Del resto nella prima lettera di
Giovanni è scritto “chiunque ama, conosce Dio” e non “chi conosce Dio, ama”.
Nel Vangelo quindi è chiaro che ciò che conta è l’amore, non la fede; e che
l’amore non è una parola generica, vaga, ma concreta: stare dalla parte dei
poveri.
2.
Lettura dal Notiziario della Comunità n.196-197 del nov.-dic.1985
… Ecco la nostra
esperienza, come segno di tante altre esperienze analoghe. Fino dai tempi del
Cardinale Dalla Costa e col suo esplicito consenso, le strutture materiali
della parrocchia erano state gradualmente poste a servizio dei più poveri:
operai in lotta per il posto di lavoro facevano in chiesa assemblee di
confronto con la popolazione, persone in disagio sociale gestivano in autonomia
ambienti parrocchiali. In chiesa la gente cominciava a prendere la parola,
persone “mute” da secoli di sottomissione esprimevano liberamente e
creativamente la propria fede; il Popolo di Dio manifestava la propria
solidarietà contro le situazioni di oppressione e verso popoli in lotta per la
liberazione. In chiesa tutto era gratuito: i preti erano aiutati nella scelta
di vivere del loro lavoro , i laici gestivano i segni materiali della
condivisione.
Eravamo alla prefigurazione di un
passaggio delicatissimo: il passaggio dalla Chiesa per i poveri” alla “Chiesa
dei poveri”.
Cambia vescovo e tutto diventa
improvvisamente “proibito”.
Che era successo? Semplicemente
che il Popolo di dio aveva potuto partecipare nel suo insieme alla gestione
delle strutture materiali della chiesa soltanto per benevola concessione di un
parroco o di un vescovo “aperti”.
Ma la struttura giuridica non era
per niente cambiata. Il canone 1273 del Nuovo Codice di Diritto canonico
riprendendo e consolidando le vecchie norme dice testualmente: “Il Romano
Pontefice, in forza del primato di governo è il supremo amministratore ed
economo di tutti i beni ecclesiastici”.
L’intervento disciplinare,
dunque, era in linea col Diritto Canonico. Un intervento forse un po’
eccessivo, ma coerente. Un papa (e in sottordine un vescovo o un parroco) può
concedere ciò che il successore può negare. Senza alcuna garanzia.
Molti di noi conservano ancora
una foto emblematica: si vede un laico che consegna le chiavi della chiesa
dell’Isolotto agli inviati del vescovo e del Prefetto statale, mentre centinaia
di mani sollevano in alto le chiavi delle loro case. Quando cioè il vescovo si
riprende la chiesa, essi si sentono spossessati di qualcosa di proprio, come se
il vescovo prendesse la loro casa.
Ecco, in quella foto c’è tutto
l’illusione e l’impossibilità di praticare le riforme conciliari.
Senza chiavi non si passa. E le
chiavi le mantiene, ben strette, la gerarchia. Non solo quelle dei beni
materiali, ma anche le chiavi della verità, della morale, degli strumenti di
comunione, dei sacramenti.
Un popolo senza potere non è
popolo ma solo una massa di sudditi. …
2.
Dal Convegno “Chiesa di tutti. Chiesa dei poveri” - Roma del 15 settembre 2012
Molte associazioni, riviste e
realtà della chiesa di base (tra le quali tanto per citarne alcune Pax Christi,
Noi Siamo Chiesa, la Comunità
di base di San Paolo, Adista, Cipax, Agire Politicamente, la Rosa Bianca , Nigrizia,
Missione Oggi, tante comunità ecclesiali, comunità di base e parrocchie) si
sono autoconvocate, sabato 15 settembre a Roma, per un’assemblea dal titolo “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” per
riflettere sul Concilio Vaticano II,
a 50 anni dal suo inizio.
Il senso di questa
iniziativa è ben espressa in queste parole (Adista): «Ricordare gli eventi
non consiste nel portare indietro gli orologi, ma nel rielaborarne la memoria
per capirne più a fondo il significato e farne scaturire eredità nuove ed
antiche e impegni per il futuro». In particolare il Concilio «al di là delle
diverse ermeneutiche che si sono confrontate nella lettura di quell’evento»,
invita ancora oggi i credenti ad impegnarsi per realizzare un “aggiornamento”
della e nella Chiesa.
L’assemblea
intende essere una tappa di questa ricerca.
Se si tiene a
settembre, invece che in ottobre, «è perché intende rievocare, sia come inizio
che come principio ispiratore del Vaticano II, anche il messaggio radiofonico
di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962 che conteneva quella folgorante
evocazione della Chiesa come “la
Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Da
questo deriva infatti il tema del convegno».
La partecipazione è stata molto
più ampia rispetto alle attese. Si pensava partecipassero circa 400 persone e
ne sono arrivate più del doppio. L’Auditorium del Massimo (messo a disposizione
gratuitamente dalla Compagnia di Gesù) era gremito. A giudizio di molti è stata
la più grande iniziativa organizzata dalla base cattolica negli ultimi anni. La Comunità dell’Isolotto ha
formalmente aderito nella giornata del 15 settembre.
Inoltre l’assemblea di sabato 15 settembre vuole essere solo una prima
tappa di un insieme di iniziative analoghe che si stanno già pensando e
realizzando, in diverse forme, in Europa e nel mondo e che si concluderanno nel
dicembre 2015 con un’assemblea mondiale a Roma a cinquant’anni dalla
conclusione del Concilio.
Qui noi che abbiamo partecipato
per la Comunità
cerchiamo di fare una piccola cronaca della giornata, raccontando le nostre
impressioni, le cose che più ci hanno colpito; mentre per i testi delle
relazioni e dei contributi rimandiamo al sito www.viandanti.org
che presto renderà disponibili i testi delle relazioni. Dei molti contributi ci
piace riportare quello di Paolo Ricca.
Paolo
Ricca: Grazie di
cuore per l'invito. Sono qui, senza un mandato specifico, a nome del piccolo
protestantesimo italiano e in particolare della Chiesa Valdese, alla quale
appartengo. Devo anche dire che queste de-finizioni e de-limitazioni mi sono
sempre più estranee e le appartenenze trascendono tutte le classificazioni.Mi
sono chiesto che cosa dire in questo saluto di sette minuti. Dovrei dirvi che
cosa ha significato il concilio vaticano II per noi, che in un certo senso
siamo niente, pur esistendo in Italia da otto secoli come piccola comunità che
cerca anche lei di essere cristiana, di avvicinarsi un poco a quello che
dovrebbe essere una chiesa cristiana...
Per
dirvi quello che ha significato per noi e anche per me personalmente (pur
partecipando da fuori ma anche da dentro attraverso gli osservatori delegati
del Vaticano II) dovrei narrarvi quella che è stata la storia precedente il
concilio Vaticano II, dovrei
contestualizzare storicamente. Bisognerebbe avere il tempo, ma non c'è.
Vi dico solo una
cosa. Per otto secoli siamo stati in Italia eretici e scomunicati.
Noi Valdesi due
volte scomunicati: una prima volta nel Medio Evo e una seconda volta quando
abbiamo aderito alla Riforma protestante. Da questo punto di vista siamo a
posto, non ci manca nulla.
Quello che è successo con il Concilio
Vaticano II è che queste due categorie di eresia e di scomunica sono scomparse.
E noi siamo diventati per una mutazione genetica non prevista, imprevedibile,
ma graditissima, fratelli separati. Capite la differenza tra eretico e fratello
separato? Se tu sei fratello di
un eretico, se
eretico anche tu. È stata veramente una rivoluzione copernicana, come minimo...
Siamo poi separati
non da Cristo, ma dalla sede apostolica, e non è la stessa cosa. Quindi una
separazione che si può tollerare. Sarebbe stato più grave se fossimo stati
separati da Cristo, come prima eravamo considerati di essere. Adesso invece
siamo ritenuti solo separati dalla sede romana.
Questa è stata la
rivoluzione che ha effettivamente cambiato sia il rapporto del cattolicesimo
verso di noi sia, anche se faticosamente, il nostro rapporto verso la chiesa
cattolica.
Ma voi, comunità
conciliare, siete quelli che hanno contribuito molto e che continuano a
contribuire per fare il ponte tra la piccola e modesta realtà evangelica
italiana e il cattolicesimo romano nel suo insieme.
Non solo il
Concilio ha affermato che non eravamo più eretici e scomunicati, ma ha detto
una cosa ancora più grande, che non aveva mai detto prima e che non ha più
detto dopo, e cioè – cosa impensabile e inaudita - che le nostre Chiese,
secondo il documento conciliare sull'ecumenismo, sono strumenti di
salvezza. Fino ad
allora invece eravamo stati considerati strumenti di perdizione.
Le nostre chiese
sono strumenti di salvezza di cui lo Spirito Santo non rifiuta di servirsi per
compiere la sua opera. Cose straordinarie, cose formidabili, che purtroppo non
sono più state ripetute.
Per noi quindi il
Concilio sta davanti e non dietro.
3.
Dalla stampa
Pochissimi
i giornali hanno parlato del Convegno, tra questi si segnala L’Unità con l’articolo
di Roberto Monteforte sotto riportato e un testo circolato on-line di Aldo
Maria Valli, anch’esso sotto riportato. La stampa cattolica ufficiale assente.
Si segnala che si può ascoltare il Convegno su Radio Radicale.
Affollata assemblea di gruppi ecclesiali,
riviste, associazioni a 50 anni dall'inizio del Concilio di Roberto Monteforte in
“l'Unità” del 16 settembre 2012
Far vivere il Concilio Vaticano II. Dargli applicazione e
con gioia, guardando con speranza al futuro. Perché la sua piena ricezione è
ancora lontana. Di questo si è discusso ieri a Roma nell’affollatissima
assemblea tenutasi al teatro dell’Istituto Massimo di Roma. «Chiesa di tutti,
Chiesa dei poveri» è il titolo dell’appuntamento autoconvocato e autofinanziato
a 50 anni dall’inizio del Concilio cui hanno aderito oltre 104 sigle di
associazioni, gruppi ecclesiali, movimenti, riviste e organizzazioni tutte
attente all’esigenza che non si disperda o si depotenzi l’insegnamento del
Concilio Vaticano II. Sono stati oltre settecento
i partecipanti giunti da tutta Italia. Segno di quanto forte ed estesa sia la
domanda per una Chiesa che sappia dialogare con fiducia e speranza con il mondo
contemporaneo avendo il coraggio di cambiare se stessa. L’incontro si è aperto
con un ricordo del cardinale Carlo Maria Martini e al suo coraggio profetico.
Teologi, storici, studiosi e uomini di Chiesa hanno approfondito i nodi posti
dal Concilio alla Chiesa a partire dalla sua ermeneutica. Alla polemica su
rottura o continuità con la tradizione della Chiesa. «È una disputa da
abbandonare perché non coglie il nodo rappresentato dal Concilio. Perché il
cambiamento era già in corso nella Chiesa. Perché la dottrina cambia sempre e
cambiamo i significati. Perché se la
Chiesa è sempre la stessa, la Tradizione vivente è in
continua evoluzione per rendere “presente” e continuamente aggiornato nella
nuova condizione storica ciò che è stato tramandato» lo afferma il teologo
padre Carlo Molari. «La pluralità delle dottrine presenti nella Chiesa ed anche
le rotture sono importanti per il suo sviluppo». C’è ancora bisogno che la Chiesa sappia «raccordarsi
con la modernità». Lo storico Giovanni Turbanti ha inquadrato il contesto
storico, sociale, politico ed economico che ha portato alla sua convocazione.
La biblista Rosanna Virgili sottolinea la «festosità
liberatoria dell’annuncio cristiano e l’apporto fondamentale dato dalle donne.
«Dio parla alle donne - afferma - che sono depositarie di una fede che non
esclude. Perché non ci sono più lontani quando si può comunicare e si è
abbattuta l'inimicizia fatta di leggi che distinguevano e discriminavano
creando inimicizia».
Mentre Cettina Militello ha affrontato il nodo «delle
prospettive future nella speranza di un vero aggiornamento». «Bisogna passare
dall’ermeneutica conciliare all’attuazione del Concilio. All’attuazione di
quanto faticosamente elaborato dai padri conciliari» ha affermato. Sottolinea
l’importanza dell’«aggiornamento» della Chiesa. Invita a riflettere sulla
speranza di un «vero rinnovamento» della Chiesa, di una sua autentica profezia
rispetto alla mutazione culturale in atto. Ne indica gli ambiti: «il piano
della Liturgia, dell’autocoscienza di chiesa, dell’acquisizione sempre maggiore
della parola di Dio, del dialogo Chiesa con il mondo». Va pure perseguita
l’istanza ecumenica, e interreligiosa, l’istanza «dialogica». Sottolinea i
limiti della partecipazione attiva, della sinodalità, dell’ ascolto e del
dialogo, necessari per attuare quella trasformazione strutturale della Chiesa
voluta dai padri conciliari, per il suo ritorno a uno stile evangelico di
compartecipazione e effettiva comunione.
Interviene da «testimone» l’allora giovanissimo abate
benedettino della Basilica di San paolo, Giovanni Battista Franzoni. Parla
della scelta per i «poveri» e del coraggio di Paolo VI.
Porta la sua testimonianza il teologo valdese Paolo Ricca.
Soprattutto recuperando appieno il ruolo del «Popolo di Dio», dei laici nella
Chiesa, successori dei «discepoli». Lo sottolinea Raniero La Valle che conclude i lavori.
«Perché - fa notare - non c’è solo la successione apostolica da Pietro sino ai
nostri vescovi e al Papa. C’è anche una successione laicale, non meno
importante dell’altra che è giunta sino a noi». Senza questa «non vi sarebbe il
Popolo di Dio e neanche la
Chiesa degli apostoli».Sottolinea come la forza del Concilio
Vaticano II sia stata il fare l’ermeneutica di tutti i concili precedenti. Per
questo «non lo si può accantonare ». Sta anche in questo la ragione e la forza
dell’assemblea convocata ieri. La
Valle annuncia l’impegno a raccogliere quella domanda che
interpella ancora. Chiede una nuova politica, una nuova giustizia, una nuova
economia. Che chiede una Chiesa dei poveri e con i poveri. Richiama i compiti
nuovi che il Concilio affida e riconosce ai laici. «Sulla riforma della chiesa
e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri partenza. La Chiesa anticonciliare ha
bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica» ma
una Chiesa nuova è possibile. Vi è una storia da trasmettere. Un impegno che,
assicura La Valle ,
non si fermerà con questa assemblea. Vi sarà un sito per mettere in rete
riflessioni e iniziative e per partecipare alle iniziative delle singole Chiese
e a quelle internazionali che culmineranno nel 2015 all’anniversario delle
conclusioni del Concilio. Vi sarà un «coordinamento leggero» per far incontrare
sforzi diversi e rendere possibile quel «Il Concilio è nelle vostre mani»
soprattutto le mani dei poveri invocato dallo stesso Raniero La Valle.
Testo di Aldo Maria Valli Sull’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa dei
poveri” del 15 settembre
Spesso parliamo del popolo di Dio
ma fatichiamo a vederlo concretamente. Dove sta? Com’è composto? Che cosa
spera? Che cosa teme? Altrettanto spesso all’immagine di popolo di Dio si
sovrappone l’immagine della Chiesa istituzionale e gerarchica, che nasconde i
volti delle persone con i volti del potere e i tratti dell’organizzazione
burocratica. Sabato 15 settembre 2012
a Roma, all’auditorium dei gesuiti dell’Istituto
Massimo, il popolo di Dio si è invece visto in tutta la sua consistenza.
All’incontro Chiesa di tutti, Chiesa di poveri (dove erano attese circa
quattrocento persone e ne sono arrivate il doppio, da ogni angolo d’Italia) non
è avvenuto nulla di eccezionale: non ci sono state manifestazioni eclatanti,
non sono risuonate parole d’ordine e nessun personaggio si è impadronito della
platea. C’è stato, semplicemente, un confronto fraterno tra persone unite da
una fede e da una passione. La fede nel Cristo dei poveri e degli oppressi, la
passione per la giustizia e per la
Chiesa del Concilio Vaticano II. Dalle dieci del mattino alle
sei di sera il confronto è andato avanti sereno, serrato, sincero. E alla fine
il popolo di Dio è tornato alle proprie case rinfrancato, non esaltato, non
sovreccitato, ma semplicemente consolato da tanta partecipazione e da tanta
condivisione. E ancor più determinato a proseguire nel cammino.
Sul palco non c’erano monsignori
di curia, vescovi o cardinali. Non ce n’erano neppure nella prima fila dell’affollatissima
platea, come di solito succede nei convegni organizzati dalle strutture
ecclesiali. Né c’erano politici o altre autorità. Non si sono viste auto blu né
tonache nere filettate di rosso. Qualcuno ha lamentato la mancanza di
telecamere, ma in fondo è stato meglio così, perché il clima di familiarità ne
ha guadagnato. Promosso da decine e decine di realtà cristiane che si spendono
quotidianamente nel mondo, in mille forme diverse, nello spirito della Gaudium et spes, condividendo sogni e
paure, speranze e angosce degli uomini e delle donne del nostro tempo,
l’incontro ha preso ispirazione dal cinquantesimo anniversario dell’inizio del
Concilio, ma soprattutto è stato esso stesso un momento conciliare.
Le parole con le quali Giovanni
XXIII aprì il Concilio, Gaudet Mater
Ecclesia, sono risuonate più volte, specie nella relazione introduttiva
della teologa Rosanna Virgili, e hanno fatto da sfondo all’intera
giornata: anche nel momento della critica e della contestazione, l’orizzonte è
rimasto quello della fiducia e della gioia. Nessuno ha parlato “contro”. Ogni
parola è stata spesa “per”. Per una Chiesa veramente dei poveri e con i poveri.
Per una Chiesa del Vangelo. Per una Chiesa “sciolta”, come amava dire il
cardinale Martini. Per una comunità di fedeli adulti, obbedienti stando in
piedi, come diceva Scoppola.
Grazie all’inquadramento storico
di Giovanni Turbanti e all’analisi di Carlo Molari sulle diverse
interpretazioni del Concilio, è stato possibile impostare il confronto su basi
solide. La riflessione di Molari sull’idea di tradizione, in particolare, è
stata efficace e piena di spunti bisognosi di ulteriori approfondimenti. L’idea
di tradizione uscita dal Concilio, come realtà vivente e come processo (si veda
la Dei Verbum , 8)
merita di essere meditata nel momento in cui dentro la Chiesa cattolica si assiste
all’offensiva, non soltanto da parte dei cosiddetti tradizionalisti, di chi
vede nella tradizione l’immobilità e l’immutabilità (Semper idem era il motto del cardinale Ottaviani, grande oppositore
dello spirito conciliare). Ma l’incontro, soprattutto, ha evitato di cadere
nella disquisizione accademica circa le diverse ermeneutiche (continuità o
rottura?), preferendo dare come asserito che nel Concilio ci fu sia la
continuità sia la rottura, sia la riaffermazione delle verità fondanti sia la
necessità di proporle meglio, più genuinamente e più efficacemente, in
relazione ai nuovi tempi. Nello studiare un Concilio che Giovanni XXIII volle
pastorale e non dogmatico sarebbe veramente un controsenso alquanto bizzarro,
mezzo secolo dopo, arenarsi attorno a una questione che rischia di cadere nel
formalismo.
Il Concilio lo si capisce e lo si
interpreta a partire dai mondi vitali, non dalle formule, e sono stati proprio
i mondi vitali a fare irruzione nel convegno con tutta la loro carica di
verità, spesso sofferta. Come quando è intervenuto il padre Felice Scalia,
apprezzato da tutti per la sua sincerità nel delineare il dramma attraversato
dalla Compagnia di Gesù, visto che per alcuni dei suoi membri la fedeltà al
Concilio e lo schierarsi con i poveri ha voluto dire da un lato andare
letteralmente incontro al martirio e
dall’altro affrontare la spaccatura con la gerarchia. E ugualmente appassionato
è stato l’intervento del rappresentante di un gruppo che riunisce omosessuali
cristiani.
Se dom Giovanni Franzoni è
salito sul palco per ricordare il tempo in cui Paolo VI, spogliandosi del
triregno, non fece soltanto un gesto all’insegna della povertà e dell’aiuto
verso le Chiese più bisognose, ma volle dichiarare anche visivamente la
rinuncia a ogni forma di potere temporale e di seduzione di quel tipo di potere
sulla Chiesa, altri testimoni del Concilio, come Luigi Bettazzi e Arturo Paoli,
hanno mandato messaggi.
Il nome del cardinale Martini è
risuonato spesso, fin dai saluti introduttivi di Rosa Siciliano, direttrice di Mosaico di pace. E in generale la
definizione di “piccolo gregge”, tanto cara a Martini, può essere utilizzata
per esprimere lo spirito dell’assemblea, animata dalla volontà non di contarsi
per contare, ma di spendersi nel mondo, ovunque ci sia da chinarsi su una
ferita e su un’ingiustizia.
Nella sua semplicità, lo spirito
del Concilio è stato rievocato con grande efficacia dal Paolo Ricca, che ha
ricordato tutto lo stupore e la meraviglia dei protestanti quando si resero
conto di essere passati dallo status di eretici a quello di “fratelli
separati”, nella cui esperienza di fede i cattolici possono ritrovare elementi
di verità utili per la salvezza. E piena di suggestioni per il futuro è stata
la relazione di Cettina Militello sulle prospettive di un vero
aggiornamento.
L’intervento finale di Raniero
La Valle ,
giocata sulla necessità di uscire dalla contrapposizione tra le varie
ermeneutiche del Concilio per fare piuttosto del Concilio l’ermeneutica alla
luce della quale interpretare la stessa storia della Chiesa, è suonato non
tanto come chiusura ma come premessa di altre tappe. Il titolo dell’incontro è
stato preso dal radiomessaggio di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In
faccia ai paesi sottosviluppati la
Chiesa si presenta qual è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e
particolarmente la Chiesa
dei poveri”.
Ha scritto Bettazzi nel suo
messaggio: “La sollecitazione per la piena attuazione del Concilio è affidata
al popolo di Dio, del quale la gerarchia è al servizio. Che la vostra premura
di popolo di Dio possa influire sul sinodo episcopale dell’ottobre e su tutto
l’anno della fede”.
Recitando la preghiera composta
da Marco Campedelli della Comunità San Nicolò di Verona, il popolo di Dio si è
espresso così: “Continua a soffiare, vento dello Spirito, nuova Pentecoste sul
mondo, continua a inventare lingue nuove, alfabeti inediti, capaci di tradurre
le sorprese di Dio. Non è la
Chiesa che vogliamo celebrare, ma lo Spirito di Dio che
soffia in mezzo al mondo. Chiesa di tutti, Chiesa di poveri”.
Il popolo di Dio si è riunito. In
libertà, senza ipocrisie. Si è confrontato con fiducia, senza calcoli dettati
dall’opportunismo, senza prudenze innescate dalla paura, senza equilibrismi
dovuti ai giochi di potere. Lo Spirito ha soffiato.
4.
Interventi di Enzo Mazzi sul Concilio Vaticano II
A 30 anni dall’apertura
del Concilio Vaticano II - Riflessioni di Enzo Mazzi - 31.10.1992
Cadono oggi
(oppure: in questi giorni) trent'anni dall'apertura del Concilio Vaticano II.
Quale può essere per noi il significato di una tale data storica? Viviamo in un
momento cruciale del trapasso d'epoca. Si chiude un secolo, non tanto in senso
sombolico ma reale. Il crinale storico si è raggiunto con lo sbriciolarsi di
uno dei due poli che si giocavano il mondo dopo Yalta e subito, con la guera
del Golfo, si è intrevisto il nuovo scenario di gioco. Il parto della nuova
epoca è un travaglio interminabile, doloroso e pregnante. L'aspro conflitto
sociale che si è riaperto in Italia sta tutto, nella sua sostanza, in queste
doglie del parto. Che significato può avere la memoria di eventi passati per
una partoriente tutta concentrata sugli spasmi dolorosi e inquietanti causati
da una vita che preme per nascere?
Angosciati dal nostro futuro
vicino e lontano, impegnati a non subire gli eventi, determinati a contrastare
lo scivolamento in un nuovo medioevo imperiale, decisi a lottare per una
società fondata sui diritti universali, non solo formali ma finalmente reali,
siamo tentati di recidere le nostre radici. Fra queste anche il Concilio.
Intendiamoci, se lo
considerassimo come evento a sé avremmo pieno diritto di consegnarlo alla
storia passata, sia in quanto cattolici, impegnati ormai su frontiere più
avanzate, sia come laici sollecitati dalle nuove figure del cattolicesimo quali
il pacifismo, la teologia della liberazione dal basso, il volontariato, il
dissolversi del collateralismo partitico, il nuovo magistero etico e sociale.
Il Concilio, però, non è da
vedere solo come un evento, cioè quella determinata assise di vescovi, è anche
un processo, un movimento di lunga durata, un fluire profondo di spinte
trasformatrici che solo in alcune occasioni storiche acquista visibilità e
spettacolarità.
E come processo, il Concilio
stesso è una realtà viva, dentro il travaglio attuale.
Chi scrive è fra i tanti
testimoni diretti di un tale processo conciliare, iniziato ben prima del
pontificato di papa Giovanni e proseguito fino ad oggi, con modalità e
visibilità diverse, come un fiume che si modella in base ai territori che
incontra.
Nel dopoguerra, mentre dai luoghi
del potere proveniva quella ondata anticonciliare di contrapposizione e
intolleranza che trovò nella scomunica dei comunisti uno dei momenti più drammatici,
i luoghi del non-potere divenivano crocicchi di inediti e fecondi incontri,
crogioli di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa. Per capirci
meglio, da tante e complesse esperienze, desumiamo due soli esempi più
facilmente decifrabili. Nei campi di concentramento tedeschi, preti francesi si
trovarono a condividere una "comunità di destino" con operai
comunisti. Scoprirono nelle reciproche diversità valori sia umani sia
evangelici che li portarono a uscire dalle rispettive gabbie ideologiche e a
tentare sentieri inediti di convergenza. Nacquero così i preti operai, una
delle vene del processo conciliare. Un'altra vena, non meno feconda, si apriva
nel mantovano, dove don Primo Mazzolari, parroco e scrittore, già durante il
fascismo e poi nell'immediato dopoguerra, sperimentava e diffondeva uno spirito
di convergenza con i contadini socialisti e comunisti, con gli anticlericali,
con i protestanti. "Tromba dello Spirito Santo" lo definì papa
Giovanni il quale si ispirò anche a lui nel suo sogno del Concilio.
E' storicamente provato che
Giovanni XXIII, ingabbiato in un primo tempo dalla rete curiale, consapevole
dell'impossibilità di operare qualsiasi reale riforma partendo dal centro, con
un colpo di genialità profetica ha voluto il Concilio per dare voce, forza e
futuro al processo conciliare, ai luoghi fecondi del non-potere, alle periferie
del mondo.
E' stata una scommessa vincente.
"Scommessa", perché a quel tempo non era affatto scontato l'esito del
Concilio, con una Curia vaticana che fece di tutto per ingabbiarlo e ridurlo a
folklore; "vincente" perché il processo conciliare contagiò gran
parte dei padri convocati in S.Pietro e divenne egemone, in senso gramsciano, a
livello mondiale.
Dopo trent'anni tale egemonia è
sì mortificata da una restaurazione generalizzata, pervasiva e al tempo stesso
spettacolare; ma la vitalità del processo stesso si è approfondita e
rafforzata, anche per l'emergere di nuovi soggetti e di forti spinte nelle
chiese del Terzo Mondo.
Il movimento conciliare è ben vivo
ed è una grande risorsa oggi, nel nostro travaglio, di fronte allo spettro
dell'egemonia del fondamentalismo cattolico in un quadro di generale
involuzione autoritaria del convivere civile. Come ai tempi di Papa Giovanni,
conviene scommettere sul processo conciliare, conoscerlo, valorizzarlo, non
solo all'interno della Chiesa, ma anche da parte del mondo laico troppo spesso
attratto da eventi tanto spettacolari quanto effimeri.
Testo di riflessione
sul Concilio Vaticano II scritto per ADISTA
Firenze
4 maggio 1993 - Enzo Mazzi
Ai primi di novembre del 1958, il
cardinale Dalla Costa, di ritorno dal Conclave, venne a trovarci all'Isolotto,
in una delle visite che ci faceva di frequente in rigoroso incognito.
"Abbiamo eletto un papa che vi piacerà" - ci disse con quel risolino
ironico e ammiccante che addolciva i tratti austeri e taglienti del suo volto
scavato. Poiché conosceva i suoi polli, aggiunse, fra una sorsata di caffè e
l'altra, - "Abbiate fiducia, aspettate e vedrete".
Aspettammo,
ma sfiduciati. Già i trionfalismi dell'incoronazione ci avevano mal disposti
verso questo papa. Presentava sì tratti di bonaria umanità, totalmente assenti
dalla figura di Pacelli, ma mostrava, agli occhi di quanti si arrovellavano
sulle frontiere del rinnovamento, una cultura tradizionalista e curiale,
inadeguata se non contraria ai cambiamenti che si rendevano sempre più urgenti.
Vennero, poi, le mazzate. Nel
dicembre 1958, un intervento vaticano vieta all'Università cattolica del
S.Cuore di conferire la laurea honoris causa
in scienze politiche a Jaques Maritain. Poco dopo, un ordine del Sant'Uffizio
blocca la diffusione di Esperienze
Pastorali di don Milani, fino a lambire lo stesso cardinale Dalla Costa.
Agli inizi del 1959 viene allontanato da Firenze padre Ernesto Balducci. Il 4
aprile dello stesso anno il Sant'Uffizio rinnova, con la dichiarata
approvazione del papa, la condanna contro i comunisti, allargandola perfino ai
cattolici che con i loro comportamenti "favorivano" il comunismo.
Ancora nello stesso anno, il card. Feltin riceve dal card, Pizzardo, segretario
del Sant'Uffizio, l'ingiunzione di chiudere definitivamente l'esperienza dei
preti operai, creando drammatici casi di coscienza e ferite tutt'ora aperte.
Il nuovo papa appariva un
ostaggio imbelle della Curia vaticana. Si allontanava sempre più la prospettiva
che ci aveva aperta il card. Dalla Costa.
Il clima che circolava negli
ambienti dove si stava realizzando la gestazione del rinnovamento era di
disorientamento. Ma non di scoraggiamento, perché mille segni ci dicevano che,
nonostante il gelo vaticano duro e distruttivo come le nevicate di marzo, la
primavera era in piena e inarrestabile fermentazione.
Lontani com'eravamo dalle stanze
e dalle trame del potere, a diretto contatto con la gente più umile, immersi in
una quotidianità che impegnava tutte le nostre energie intellettuali e
materiali, ci sfuggiva il fatto che alcuni di questi segni di germinazione si
annidavano nella coscienza e nei gesti minori del nuovo papa. Come l'abbraccio
con cui papa Giovanni accolse l'eretico dissidente don Primo Mazzolari, in una
pubblica udienza il 6 febbraio 1959, nello stesso momento in cui i vescovi
italiani, card. Montini compreso, esigevano una condanna definitiva ed
esemplare di Mazzolari e della sua rivista "Adesso". Dalla Costa non
aveva parlato invano quel giorno di novembre 1958 e soprattutto egli sapeva
quello che faceva quando aveva impegnato tutta la sua credibilità e la sua
autorevolezza di papabile per favorire l'elezione di Roncalli. I due, Dalla
Costa e Roncalli, non potevano scoprire le loro carte più preziose. Carlo
Falconi afferma in una pubblicazione su I
papi del ventesimo secolo che " molto prima di diventare il 262°
successore di Pietro, Roncalli era già in possesso di tutto l'esplosivo
ideologico a cui avrebbe avvicinato la miccia (...) soltanto negli ultimi anni
della sua vita". Papa Giovanni attendeva l'ora stabilita dalla
Provvidenza, dice Falconi. Ma noi come potevamo saperlo? Come potevamo pensare
che un uomo così esplicitamente inviluppato nella tela del ragno potesse covare
il colpo d'ala capace di liberarlo e di liberare con lui la Chiesa intera?
La stessa notizia che Giovanni
XXIII aveva espresso l'intenzione d'indire un Concilio ci lasciò sulle prime
indifferenti. Ritenevamo che un Concilio sarebbe stato egemonizzato dalla
solita Curia che l'avrebbe usato come nuova occasione di trionfalismo, per
ribadire il luoghi comuni del centralismo vaticano. Stava a dimostrarlo il
fallimento del Sinodo Romano, il primo dell'epoca post-tridentina, tenutosi nel
gennaio 196o, con gran pompa ma senza alcun segno di apertura al nuovo.
Per concludere, si consolidava
sempre più in noi la convinzione che la riforma della Chiesa non poteva in
alcun modo venire dal centro o dall'alto. Era una conferma storica del Cantico
di Maria (Ha rovesciato dai troni i
potenti ed ha innalzato i senza-potere...), del discorso della montagna e
delle parole con cui Gesù accolse i discepoli di ritorno dalla missione (Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai
potenti e le hai rivelate ai piccoli...). Diveniva sempre più chiaro che
l'attuale struttura ecclesiastica, teocratica, centralista, autoritaria,
imponente, ricca, alleata con i ricchi e i potenti, era una fortezza-prigione
totalmente impenetrabile, capace di annullare ogni buona volontà riformatrice.
Il massimo che ci si poteva attendere era una "verniciatura dei
sepolcri".
Del resto noi stessi, nel nostro
piccolo, lo sperimentavamo. Il Vangelo era vissuto fuori dalle strutture
ecclesiastiche, nei luoghi del non-potere, della insignificanza, della
emarginazione, della povertà. E noi, preti e laici, che tentavamo di aprire le
nostre parrocchie delle squallide periferie o di sperduti paesi o delle baraccopoli alla creatività dello
Spirito, cozzavamo sempre contro muraglie inamovibili. Non era solo questione
di uomini. anzi, in radice non era affatto questione di uomini. Erano sbarre
fatte di ruoli, leggi, riti, dogmi, catechismi, concordati, protezioni
politiche, patrimoni, consuetudini....
La riforma della Chiesa in senso
evangelico poteva venire solo dal basso o se si vuole dalla periferia. La
comprensione del Vangelo, il catechismo, la liturgia, la spiritualità, i beni
materiali, le strutture decisionali, insomma tutta la struttura di vita
dell'essere chiesa veniva progressivamente rovesciato. A lenti ma decisivi
passi era collocato su un nuovo fondamento: la base, i poveri, gli
handicappati, gli abbandonati, gli umili, gli operai. Le realtà nuove che
nascevano si chiamavano non di rado, con termine equivoco, "comunità",
e magari "comunità parrocchiali". Solo più tardi si affaccerà quel
nome che ancora non è stato assorbito e travisato dalle istituzioni forti: "comunità
di base", cioè realtà che trovano il proprio fondamento nello
Spirito che vive nella base, realtà protese alla sostanziale autonomia dalla
struttura della parrocchia, della diocesi, della Curia vaticana.
Insomma eravamo
"periferie" che si avviavano coscientemente, sempre più
coscientemente, a divenire soggetti storici della inelusibile riforma della
Chiesa.
Papa Giovanni, ecco l'intuizione
del card. Dalla Costa che più tardi, nella preparazione del Concilio, divenne
chiara anche a noi, si trovava sulla stessa lunghezza d'onda: era un papa che
ci sarebbe piaciuto. La carriera di diplomatico aveva portato Roncalli a contatto
con alcuni snodi storici cruciali del dopoguerra: la Bulgaria e la Turchia delle frontiere
ecumeniche col mondo ortodosso e islamico, la Francia delle parrocchie
missionarie e dei preti operai e infine l'Italia dell'opposizione
all'assolutismo e all'anticomunismo pacelliano. Egli aveva preso coscienza di
quanto la Chiesa
intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava forte
nelle periferie e nella base. Intendiamoci, non voglio dire che lui fosse
sempre d'accordo con le esperienze innovative che incontrava. Ma avrebbe voluto
paternamente indirizzarle, secondo il suo stile di "buon pastore" che
vuole evitare di trasformarsi in "organizzatore della vita
collettiva", come ebbe a dire nel discorso dell'incoronazione. Ben presto
però si accorse che egli, dal centro, poteva solo reprimere e soffocare. La
riforma della Chiesa non poteva partire da lui. Non voleva essere un
papa-riformatore. E concepì il Concilio proprio per rompere il centralismo
romano, per far tacere i "profeti di sventura" e quindi liberare le
esperienze conciliari delle periferie e dare spazio ai "segni dei tempi.
E' emblematica la vicenda, nota ma ormai dimenticata, dello schema chiave
riguardante le fonti della Rivelazione. Papa Giovanni sconfessò praticamente lo
schieramento dei vescovi italiani, spagnoli, molti latino-americani, guidato
dai potenti cardinali curiali con in testa Ottaviani il quale con cavilli
procedurali voleva imporre lo schema proposto dall'alto, e diede spazio alle
istanze rinnovatrici. Questo era il suo compito: non fare lui stesso la
riforma, ma dare spazio al processo di riforma che germinava nella chiesa.
Ecco la convergenza che trovo fra
la germinazione delle comunità di base e di tante altre esperienze conciliari e
la coscienza profetica di Giovanni XXIII.
Dalla Costa aveva proprio
ragione: papa Giovanni ci è piaciuto.
Appunti per l’incontro sulla
storia delle religioni monoteiste organizzato da AUSER presso la Comunità dell’Isolotto -
Firenze 20 aprile 1999 - Enzo Mazzi
Una data segna un passaggio
storico fondamentale per la religione cattolica: l'11 ottobre 1962 quando una
foresta di candide mitrie vescovili illuminò e animò l'ambigua immensità di
S.Pietro.
Come evento in sé,
il Concilio Vaticano II è ormai consegnato alla storia passata, oggetto di
ricerca, di riti commemorativi, di esegesi interessate dei testi prodotti. Ma è
solo questo oppure è da vedere anche come processo aperto, percorso di
trasformazione, segno della direzione di marcia di un'epoca?
Proviamo a storicizzare un tale
interrogativo per riportarlo poi all'oggi.
A differenza del Vaticano I, che
era stato ancora un concilio essenzialmente europeo, i quasi 2500 padri
conciliari provenivano ora da tutto il mondo. Meno della metà erano europei,
ottocento venivano dalle Americhe, più di cinquecento dall'Africa e dall'Asia.
Rappresentavano le periferie della cattolicità. Proprio per questo papa
Giovanni li aveva convocati: per dar voce e forza alla molteplicità creativa
delle ininfluenti e non di rado ignorate province dell'impero. Sta tutta qui, a mio avviso,
la geniale ispirazione profetica di papa Giovanni, oppure il suo peccato o
almeno la sua ingenuità, a giudizio di alcuni e forse di molti.
L’ideologia dominante nel
cattolicesimo ancora una volta aveva “munto con violenza alle mammelle della
Scrittura e invece di latte aveva bevuto sangue”: questa espressione
tragicamente colorita di un anonimo autore del secolo XI, il quale si riferiva
alle giustificazioni tratte dalla Bibbia da ambedue le parti nella lotta per le
investiture e nel tanto sangue sparso, la vedo appropriata anche alla Chiesa
della controriforma e tridentina.
Del resto, apro una parentesi,
vedo l’espressione appropriata anche al coinvolgimento attuale delle religioni
nella pulizia etnica, nei massacri e nella guerra nella ex-Yugoslavia.
Raramente e forse mai nella storia chi compie massacri o intraprende guerre
confessa i motivi veri del proprio operato violento, ma ammanta la violenza con
motivi nobili: religiosi o etici. Finge di mungere latte per bere in realtà sangue.
Così era stato per la Chiesa cattolica dal tempo
della Controriforma fino al Vaticano II: una chiesa di parte, arroccata in
difesa rispetto a un mondo considerato nemico.
Papa Roncalli,
nella bolla di indizione del Vaticano II, Humanae salutis, scrive: “Facendo
nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i “segni dei tempi” (Mt
16,4), ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che
fanno bene sperare sulle sorti della Chiesa e dell’umanità.
Era una svolta storica rispetto
alla valutazione negativa della storia moderna che si era andata accentuando
nell’ottocento e nella prima metà del novecento.
Come data d’inizio “ideale” di
tale accentuazione negativa si può citare l’enciclica Mirari vos (15 agosto
1832) di Gregorio XVI, nella quale la storia contemporanea veniva letta sotto
il segno di una “congiura dei malvagi” che non permetteva indulgenza e
benignità alcuna da parte della chiesa e imponeva piuttosto di “reprimere col
bastone” i vari errori. Questo giudizio globalmente negativo sulla storia ne
sulla società occidentale, soprattutto sulle società democratiche, non fu
soltanto ripreso nel magistero di Pio IX (basti pensare al Sillabo), ma
codificato solennemente nel proemio che apre la Costituzione
dogmatica del Vaticano I sulla fede cattolica: la storia moderna, dopo il
Tridentino, viene descritta come la progressiva corruzione dell’uomo, provocata
dalla negazione protestante del principio di autorità. E’ significativa a tale
proposito anche la
Quoad Apostolici Muneris di Leone XIII.
E’ su questo sfondo che bisogna
collocare la portata dell svolta di Papa Giovanni. La Chiesa deve tornare ad
essere "chiesa di tutti e particolarmente dei poveri", disse
nell'intervento dell'11 settembre 1962 in preparazione del concilio e ripeté
sostanzialmente un mese dopo, nel discorso d'apertura. "Chiesa di
tutti" e non solo della gerarchia; "di tutti" e non solo dei
cattolici, degli europei, dell'occidente opulento. Una tale trasformazione era
un compito immane, un miracolo che nessun papa dal centro avrebbe mai potuto
compiere. Roncalli, uomo dell'apparato sapeva quanto era grande la solitudine
istituzionale del vescovo di Roma, conosceva bene la prigionia vaticana e lo
spessore delle catene curiali. Era cosciente di ciò quando accettò l'elezione e
se ne convinse meglio i primi anni del suo pontificato quando fu trascinato in
una delle ricorrenti strette involutive che si abbatté sulle esperienze del
cattolicesimo italiano e francese più impegnate in quella trasformazione che
entrava sempre più decisamente nei suoi sogni.
Negli anni 1958-'59, furono
colpiti Jaques Maritain, cui fu negato dal card. Pizzardo, segretario del
Sant'Uffizio, il conferimento della laurea honoris causa da parte
dell'Università cattolica del S.Cuore, Lorenzo Milani, le cui "Esperienze
pastorali" furono ritirate dalla circolazione, Ernesto Balducci, esiliato
da Firenze, i preti operai francesi obbligati a lasciare il lavoro, i teologi
diffidati dal proseguire nelle timide aperture verso la nuova esegesi biblica,
Teilhard de Chardin, accusato di eresia. Altro che sogni di apertura!
Papa Roncalli si sentiva
inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino nelle mani
dell'onnipotenza curiale. Ed ebbe la genialità di rompere quell'isolamento
chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti
esemplari di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al
Medio Evo. Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica
possibilità istituzionalmente a lui consentita, intese dare voce e forza a quei
processi di crescita umana e cristiana che animavano la storia. Li aveva
incontrati nella sua esperienza di diplomatico vaticano in cruciali posti di
frontiera: in Bulgaria, a contatto col mondo dell'ortodossia e del comunismo,
inTurchia, la porta dell'Islam, nella Francia, "paese di missione"
animato dal card. Suhard e inoltre nodo storico della decolonizzazione (Algeria
e Vietnam).
Nell'enciclica "Pacem in
terris" chiamerà tali processi "segni dei tempi" e darà loro
precisi connotati: "ascesa economico-sociale delle classi
lavoratrici...ingresso della donna nella vita pubblica ...non più popoli
dominatori e popoli dominati..."; ancora altri "segni dei
tempi", secondo la Pacem
in Terris, l'aprirsi delle coscienze al carattere democratico della vita
sociale e politica e all'illiceità ormai della guerra nell'era atomica.
Che ne è di tutta questa realtà,
di questo mondo ribollente, di questa presa di coscienza delle
"periferie", della base cui attraverso il concilio si è inteso dar
voce e forza? Ha certamente ottenuto l'intento di farsi sentire ed ha
contagiato la gran parte dei padri conciliari; ma è riuscita anche scardinare
in qualche modo la tela del ragno o ne è rimasta invischiata?
La domanda, si vede bene, si
colloca in una visione del Concilio non come puro fatto di chiesa, ma come
espressione e segno di un'epoca, di una fase storica, di una tappa del cammino
umano complessivo.
Ebbene, a giudicare dalla prassi
alto-istituzionale si direbbe che il Concilio è effettivamente morto. Rimane
solo la liturgia funebre i cui riti si ripropongono sempre uguali. Ultimi in
ordine di tempo: la condanna della Teologia della liberazione, l'approvazione
del catechismo universale, che a detta di molti è una ferita pofonda alla
inculturazione del vangelo, le celebrazioni dei 500 anni di evangelizzazione, a
Santo Domingo. E’ vero che c’è un atteggiamento fortemente critico nei
confronti del neoliberismo, dell’individualismo egoista occidentale,
dell’iniquo rapporto Nord-Sud e soprattutto c’è questa condanna della guerra.
E’ una condanna, per me molto giusta, ma che cala dall’alto. E’ una specie di
riproposizione dello scontro medioevale fra papato Impero. Manca completamente
l’annuncio dei “segni dei tempi”.
Dunque si può dire addio ai
"segni dei tempi"? Si deve considerare ormai fuori dall'orizzonte
storico attuale la fiducia nel cammino umano, la valorizzazione delle
periferie, delle diversità, dei processi di trasformazione dal basso?
Insomma si deve considerare morto
lo spirito del Concilio?
Non ne sarei tanto sicuro. La sua
tomba potrebbe essere vuota e i riti funebri un esorcismo contro un processo
inarrestabile.
E' una tesi questa assai diffusa
fra i sociologi e i teologi. Soprattutto è un atteggiamento di fede e
un'apertura di credito alla speranza, su cui si gioca un aspetto non secondario
del nostro futuro e su cui si fonda la fedeltà e la costanza di realtà
ecclesiali quali ad esempio le comunità di base.
Le comunità di base sono nate
proprio per annunciare e inverare il processo di riconciliazione e
pacificazione universale a cui tendevano e tendono i “segni dei tempi”
intravisti da papa Giovanni.
Comunità di base sono esperienze
diffuse in tutto il mondo per andare oltre le incrostazioni secolari delle
verità assolute ed esclusive che creano separazione e contrapposizione, per
rimettere in moto la ricerca a tutto campo, per oltrepassare tutti i confini,
le appartenenze totalizzanti e le bandiere, per cercare strade nuove di
relazione basate sul primato dell’uomo e della donna, per riconciliare anche,
anzi prima di tutto, i vari aspetti dissociati dell’essere umano, per
valorizzare e intrecciare i percorsi positivi in atto in ogni angolo del mondo.
Le Comunità di base sono un segno di speranza. Ma i segni di speranza che
animano la società attuale sono tanti. La sostiene con forza una testimonianza
di padre Ernesto Balducci, apparsa postuma sulla pubblicazione “Che ne è del
Concilio”: "Gli apparati ecclesiastici tendono a ricomporsi secondo il
modello messo in crisi dal Concilio...Ma la fermentazione del Concilio non si è
arrestata...Non ha molta importanza che al vertice della chiesa siano potenti i
gruppi della restaurazione. Il Concilio ha riabilitato la libertà di coscienza,
dentro e fuori la chiesa, e la libertà di coscienza messa in rapporto col
Vangelo come messaggio di liberazione è ormai una forza che nessuna astuzia
potrà imbrigliare".