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martedì 25 settembre 2012

Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri


Comunità dell’Isolotto - Firenze, domenica 23 settembre 2012
Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri
Assemblea nazionale a 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II
il racconto e alcune riflessioni di Luciana e Claudia

1. Letture dal Vangelo


dal Vangelo di Matteo
Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico, difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un grosso canapo[1] entri nella cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”.

dal Vangelo di Matteo
Allora il Signore dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il Signore risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Dalla prima lettera di Giovanni

…Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio … Dio nessuno l'ha mai visto. Però se ci amiamo gli uni gli altri, egli è presente in noi, e il suo amore è veramente perfetto in noi.

Ri-utilizzando le parole di Frei Betto teologo brasiliano della Teologia della liberazione possiamo dire che l’unico punto dei quattro Vangeli in cui Gesù parla di coloro che si salveranno è il passo di Matteo che abbiamo letto. In questo passo Gesù non dice che coloro che saranno quelli che pregano, che vanno a messa tutti i giorni, che obbediscono al papa…ma quelli che danno da mangiare e da bere a chi ha fame e sete, chi veste gli ignudi, chi visita i carcerati…insomma coloro che avranno scelto di stare dalla parte dei poveri, di dar loro voce, forza e diritti.
Del resto nella prima lettera di Giovanni è scritto “chiunque ama, conosce Dio” e non “chi conosce Dio, ama”. Nel Vangelo quindi è chiaro che ciò che conta è l’amore, non la fede; e che l’amore non è una parola generica, vaga, ma concreta: stare dalla parte dei poveri.

2. Lettura dal Notiziario della Comunità n.196-197 del nov.-dic.1985

… Ecco la nostra esperienza, come segno di tante altre esperienze analoghe. Fino dai tempi del Cardinale Dalla Costa e col suo esplicito consenso, le strutture materiali della parrocchia erano state gradualmente poste a servizio dei più poveri: operai in lotta per il posto di lavoro facevano in chiesa assemblee di confronto con la popolazione, persone in disagio sociale gestivano in autonomia ambienti parrocchiali. In chiesa la gente cominciava a prendere la parola, persone “mute” da secoli di sottomissione esprimevano liberamente e creativamente la propria fede; il Popolo di Dio manifestava la propria solidarietà contro le situazioni di oppressione e verso popoli in lotta per la liberazione. In chiesa tutto era gratuito: i preti erano aiutati nella scelta di vivere del loro lavoro , i laici gestivano i segni materiali della condivisione.
Eravamo alla prefigurazione di un passaggio delicatissimo: il passaggio dalla Chiesa per i poveri” alla “Chiesa dei poveri”.
Cambia vescovo e tutto diventa improvvisamente “proibito”.
Che era successo? Semplicemente che il Popolo di dio aveva potuto partecipare nel suo insieme alla gestione delle strutture materiali della chiesa soltanto per benevola concessione di un parroco o di un vescovo “aperti”.
Ma la struttura giuridica non era per niente cambiata. Il canone 1273 del Nuovo Codice di Diritto canonico riprendendo e consolidando le vecchie norme dice testualmente: “Il Romano Pontefice, in forza del primato di governo è il supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici”.
L’intervento disciplinare, dunque, era in linea col Diritto Canonico. Un intervento forse un po’ eccessivo, ma coerente. Un papa (e in sottordine un vescovo o un parroco) può concedere ciò che il successore può negare. Senza alcuna garanzia.
Molti di noi conservano ancora una foto emblematica: si vede un laico che consegna le chiavi della chiesa dell’Isolotto agli inviati del vescovo e del Prefetto statale, mentre centinaia di mani sollevano in alto le chiavi delle loro case. Quando cioè il vescovo si riprende la chiesa, essi si sentono spossessati di qualcosa di proprio, come se il vescovo prendesse la loro casa.
Ecco, in quella foto c’è tutto l’illusione e l’impossibilità di praticare le riforme conciliari.
Senza chiavi non si passa. E le chiavi le mantiene, ben strette, la gerarchia. Non solo quelle dei beni materiali, ma anche le chiavi della verità, della morale, degli strumenti di comunione, dei sacramenti.
Un popolo senza potere non è popolo ma solo una massa di sudditi. …

2. Dal Convegno “Chiesa di tutti. Chiesa dei poveri” - Roma del 15 settembre 2012

Molte associazioni, riviste e realtà della chiesa di base (tra le quali tanto per citarne alcune Pax Christi, Noi Siamo Chiesa, la Comunità di base di San Paolo, Adista, Cipax, Agire Politicamente, la Rosa Bianca, Nigrizia, Missione Oggi, tante comunità ecclesiali, comunità di base e parrocchie) si sono autoconvocate, sabato 15 settembre a Roma, per un’assemblea dal titolo “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” per riflettere sul Concilio Vaticano II, a 50 anni dal suo inizio.

Il senso di questa iniziativa è ben espressa in queste parole (Adista): «Ricordare gli eventi non consiste nel portare indietro gli orologi, ma nel rielaborarne la memoria per capirne più a fondo il significato e farne scaturire eredità nuove ed antiche e impegni per il futuro». In particolare il Concilio «al di là delle diverse ermeneutiche che si sono confrontate nella lettura di quell’evento», invita ancora oggi i credenti ad impegnarsi per realizzare un “aggiornamento” della e nella Chiesa.
L’assemblea intende essere una tappa di questa ricerca.
Se si tiene a settembre, invece che in ottobre, «è perché intende rievocare, sia come inizio che come principio ispiratore del Vaticano II, anche il messaggio radiofonico di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962 che conteneva quella folgorante evocazione della Chiesa come “la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Da questo deriva infatti il tema del convegno».

La partecipazione è stata molto più ampia rispetto alle attese. Si pensava partecipassero circa 400 persone e ne sono arrivate più del doppio. L’Auditorium del Massimo (messo a disposizione gratuitamente dalla Compagnia di Gesù) era gremito. A giudizio di molti è stata la più grande iniziativa organizzata dalla base cattolica negli ultimi anni. La Comunità dell’Isolotto ha formalmente aderito nella giornata del 15 settembre.

Inoltre l’assemblea di sabato 15 settembre vuole essere solo una prima tappa di un insieme di iniziative analoghe che si stanno già pensando e realizzando, in diverse forme, in Europa e nel mondo e che si concluderanno nel dicembre 2015 con un’assemblea mondiale a Roma a cinquant’anni dalla conclusione del Concilio.
Qui noi che abbiamo partecipato per la Comunità cerchiamo di fare una piccola cronaca della giornata, raccontando le nostre impressioni, le cose che più ci hanno colpito; mentre per i testi delle relazioni e dei contributi rimandiamo al sito www.viandanti.org che presto renderà disponibili i testi delle relazioni. Dei molti contributi ci piace riportare quello di Paolo Ricca.

Paolo Ricca: Grazie di cuore per l'invito. Sono qui, senza un mandato specifico, a nome del piccolo protestantesimo italiano e in particolare della Chiesa Valdese, alla quale appartengo. Devo anche dire che queste de-finizioni e de-limitazioni mi sono sempre più estranee e le appartenenze trascendono tutte le classificazioni.Mi sono chiesto che cosa dire in questo saluto di sette minuti. Dovrei dirvi che cosa ha significato il concilio vaticano II per noi, che in un certo senso siamo niente, pur esistendo in Italia da otto secoli come piccola comunità che cerca anche lei di essere cristiana, di avvicinarsi un poco a quello che dovrebbe essere una chiesa cristiana...
Per dirvi quello che ha significato per noi e anche per me personalmente (pur partecipando da fuori ma anche da dentro attraverso gli osservatori delegati del Vaticano II) dovrei narrarvi quella che è stata la storia precedente il concilio Vaticano II, dovrei contestualizzare storicamente. Bisognerebbe avere il tempo, ma non c'è.
Vi dico solo una cosa. Per otto secoli siamo stati in Italia eretici e scomunicati.
Noi Valdesi due volte scomunicati: una prima volta nel Medio Evo e una seconda volta quando abbiamo aderito alla Riforma protestante. Da questo punto di vista siamo a posto, non ci manca nulla.
Quello che è successo con il Concilio Vaticano II è che queste due categorie di eresia e di scomunica sono scomparse. E noi siamo diventati per una mutazione genetica non prevista, imprevedibile, ma graditissima, fratelli separati. Capite la differenza tra eretico e fratello separato? Se tu sei fratello di
un eretico, se eretico anche tu. È stata veramente una rivoluzione copernicana, come minimo...
Siamo poi separati non da Cristo, ma dalla sede apostolica, e non è la stessa cosa. Quindi una separazione che si può tollerare. Sarebbe stato più grave se fossimo stati separati da Cristo, come prima eravamo considerati di essere. Adesso invece siamo ritenuti solo separati dalla sede romana.
Questa è stata la rivoluzione che ha effettivamente cambiato sia il rapporto del cattolicesimo verso di noi sia, anche se faticosamente, il nostro rapporto verso la chiesa cattolica.
Ma voi, comunità conciliare, siete quelli che hanno contribuito molto e che continuano a contribuire per fare il ponte tra la piccola e modesta realtà evangelica italiana e il cattolicesimo romano nel suo insieme.
Non solo il Concilio ha affermato che non eravamo più eretici e scomunicati, ma ha detto una cosa ancora più grande, che non aveva mai detto prima e che non ha più detto dopo, e cioè – cosa impensabile e inaudita - che le nostre Chiese, secondo il documento conciliare sull'ecumenismo, sono strumenti di
salvezza. Fino ad allora invece eravamo stati considerati strumenti di perdizione.
Le nostre chiese sono strumenti di salvezza di cui lo Spirito Santo non rifiuta di servirsi per compiere la sua opera. Cose straordinarie, cose formidabili, che purtroppo non sono più state ripetute.
Per noi quindi il Concilio sta davanti e non dietro.

3. Dalla stampa

Pochissimi i giornali hanno parlato del Convegno, tra questi si segnala L’Unità con l’articolo di Roberto Monteforte sotto riportato e un testo circolato on-line di Aldo Maria Valli, anch’esso sotto riportato. La stampa cattolica ufficiale assente. Si segnala che si può ascoltare il Convegno su Radio Radicale.

Affollata assemblea di gruppi ecclesiali, riviste, associazioni a 50 anni dall'inizio del Concilio di Roberto Monteforte        in “l'Unità” del 16 settembre 2012

Far vivere il Concilio Vaticano II. Dargli applicazione e con gioia, guardando con speranza al futuro. Perché la sua piena ricezione è ancora lontana. Di questo si è discusso ieri a Roma nell’affollatissima assemblea tenutasi al teatro dell’Istituto Massimo di Roma. «Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri» è il titolo dell’appuntamento autoconvocato e autofinanziato a 50 anni dall’inizio del Concilio cui hanno aderito oltre 104 sigle di associazioni, gruppi ecclesiali, movimenti, riviste e organizzazioni tutte attente all’esigenza che non si disperda o si depotenzi l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Sono stati oltre settecento i partecipanti giunti da tutta Italia. Segno di quanto forte ed estesa sia la domanda per una Chiesa che sappia dialogare con fiducia e speranza con il mondo contemporaneo avendo il coraggio di cambiare se stessa. L’incontro si è aperto con un ricordo del cardinale Carlo Maria Martini e al suo coraggio profetico. Teologi, storici, studiosi e uomini di Chiesa hanno approfondito i nodi posti dal Concilio alla Chiesa a partire dalla sua ermeneutica. Alla polemica su rottura o continuità con la tradizione della Chiesa. «È una disputa da abbandonare perché non coglie il nodo rappresentato dal Concilio. Perché il cambiamento era già in corso nella Chiesa. Perché la dottrina cambia sempre e cambiamo i significati. Perché se la Chiesa è sempre la stessa, la Tradizione vivente è in continua evoluzione per rendere “presente” e continuamente aggiornato nella nuova condizione storica ciò che è stato tramandato» lo afferma il teologo padre Carlo Molari. «La pluralità delle dottrine presenti nella Chiesa ed anche le rotture sono importanti per il suo sviluppo». C’è ancora bisogno che la Chiesa sappia «raccordarsi con la modernità». Lo storico Giovanni Turbanti ha inquadrato il contesto storico, sociale, politico ed economico che ha portato alla sua convocazione.
La biblista Rosanna Virgili sottolinea la «festosità liberatoria dell’annuncio cristiano e l’apporto fondamentale dato dalle donne. «Dio parla alle donne - afferma - che sono depositarie di una fede che non esclude. Perché non ci sono più lontani quando si può comunicare e si è abbattuta l'inimicizia fatta di leggi che distinguevano e discriminavano creando inimicizia».
Mentre Cettina Militello ha affrontato il nodo «delle prospettive future nella speranza di un vero aggiornamento». «Bisogna passare dall’ermeneutica conciliare all’attuazione del Concilio. All’attuazione di quanto faticosamente elaborato dai padri conciliari» ha affermato. Sottolinea l’importanza dell’«aggiornamento» della Chiesa. Invita a riflettere sulla speranza di un «vero rinnovamento» della Chiesa, di una sua autentica profezia rispetto alla mutazione culturale in atto. Ne indica gli ambiti: «il piano della Liturgia, dell’autocoscienza di chiesa, dell’acquisizione sempre maggiore della parola di Dio, del dialogo Chiesa con il mondo». Va pure perseguita l’istanza ecumenica, e interreligiosa, l’istanza «dialogica». Sottolinea i limiti della partecipazione attiva, della sinodalità, dell’ ascolto e del dialogo, necessari per attuare quella trasformazione strutturale della Chiesa voluta dai padri conciliari, per il suo ritorno a uno stile evangelico di compartecipazione e effettiva comunione.
Interviene da «testimone» l’allora giovanissimo abate benedettino della Basilica di San paolo, Giovanni Battista Franzoni. Parla della scelta per i «poveri» e del coraggio di Paolo VI.
Porta la sua testimonianza il teologo valdese Paolo Ricca. Soprattutto recuperando appieno il ruolo del «Popolo di Dio», dei laici nella Chiesa, successori dei «discepoli». Lo sottolinea Raniero La Valle che conclude i lavori. «Perché - fa notare - non c’è solo la successione apostolica da Pietro sino ai nostri vescovi e al Papa. C’è anche una successione laicale, non meno importante dell’altra che è giunta sino a noi». Senza questa «non vi sarebbe il Popolo di Dio e neanche la Chiesa degli apostoli».Sottolinea come la forza del Concilio Vaticano II sia stata il fare l’ermeneutica di tutti i concili precedenti. Per questo «non lo si può accantonare ». Sta anche in questo la ragione e la forza dell’assemblea convocata ieri. La Valle annuncia l’impegno a raccogliere quella domanda che interpella ancora. Chiede una nuova politica, una nuova giustizia, una nuova economia. Che chiede una Chiesa dei poveri e con i poveri. Richiama i compiti nuovi che il Concilio affida e riconosce ai laici. «Sulla riforma della chiesa e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri partenza. La Chiesa anticonciliare ha bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica» ma una Chiesa nuova è possibile. Vi è una storia da trasmettere. Un impegno che, assicura La Valle, non si fermerà con questa assemblea. Vi sarà un sito per mettere in rete riflessioni e iniziative e per partecipare alle iniziative delle singole Chiese e a quelle internazionali che culmineranno nel 2015 all’anniversario delle conclusioni del Concilio. Vi sarà un «coordinamento leggero» per far incontrare sforzi diversi e rendere possibile quel «Il Concilio è nelle vostre mani» soprattutto le mani dei poveri invocato dallo stesso Raniero La Valle.

Testo di Aldo Maria Valli Sull’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” del 15 settembre

Spesso parliamo del popolo di Dio ma fatichiamo a vederlo concretamente. Dove sta? Com’è composto? Che cosa spera? Che cosa teme? Altrettanto spesso all’immagine di popolo di Dio si sovrappone l’immagine della Chiesa istituzionale e gerarchica, che nasconde i volti delle persone con i volti del potere e i tratti dell’organizzazione burocratica. Sabato 15 settembre 2012 a Roma, all’auditorium dei gesuiti dell’Istituto Massimo, il popolo di Dio si è invece visto in tutta la sua consistenza. All’incontro Chiesa di tutti, Chiesa di poveri (dove erano attese circa quattrocento persone e ne sono arrivate il doppio, da ogni angolo d’Italia) non è avvenuto nulla di eccezionale: non ci sono state manifestazioni eclatanti, non sono risuonate parole d’ordine e nessun personaggio si è impadronito della platea. C’è stato, semplicemente, un confronto fraterno tra persone unite da una fede e da una passione. La fede nel Cristo dei poveri e degli oppressi, la passione per la giustizia e per la Chiesa del Concilio Vaticano II. Dalle dieci del mattino alle sei di sera il confronto è andato avanti sereno, serrato, sincero. E alla fine il popolo di Dio è tornato alle proprie case rinfrancato, non esaltato, non sovreccitato, ma semplicemente consolato da tanta partecipazione e da tanta condivisione. E ancor più determinato a proseguire nel cammino.
Sul palco non c’erano monsignori di curia, vescovi o cardinali. Non ce n’erano neppure nella prima fila dell’affollatissima platea, come di solito succede nei convegni organizzati dalle strutture ecclesiali. Né c’erano politici o altre autorità. Non si sono viste auto blu né tonache nere filettate di rosso. Qualcuno ha lamentato la mancanza di telecamere, ma in fondo è stato meglio così, perché il clima di familiarità ne ha guadagnato. Promosso da decine e decine di realtà cristiane che si spendono quotidianamente nel mondo, in mille forme diverse, nello spirito della Gaudium et spes, condividendo sogni e paure, speranze e angosce degli uomini e delle donne del nostro tempo, l’incontro ha preso ispirazione dal cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio, ma soprattutto è stato esso stesso un momento conciliare.
Le parole con le quali Giovanni XXIII aprì il Concilio, Gaudet Mater Ecclesia, sono risuonate più volte, specie nella relazione introduttiva della teologa Rosanna Virgili, e hanno fatto da sfondo all’intera giornata: anche nel momento della critica e della contestazione, l’orizzonte è rimasto quello della fiducia e della gioia. Nessuno ha parlato “contro”. Ogni parola è stata spesa “per”. Per una Chiesa veramente dei poveri e con i poveri. Per una Chiesa del Vangelo. Per una Chiesa “sciolta”, come amava dire il cardinale Martini. Per una comunità di fedeli adulti, obbedienti stando in piedi, come diceva Scoppola.
Grazie all’inquadramento storico di Giovanni Turbanti e all’analisi di Carlo Molari sulle diverse interpretazioni del Concilio, è stato possibile impostare il confronto su basi solide. La riflessione di Molari sull’idea di tradizione, in particolare, è stata efficace e piena di spunti bisognosi di ulteriori approfondimenti. L’idea di tradizione uscita dal Concilio, come realtà vivente e come processo (si veda la Dei Verbum, 8)  merita di essere meditata nel momento in cui dentro la Chiesa cattolica si assiste all’offensiva, non soltanto da parte dei cosiddetti tradizionalisti, di chi vede nella tradizione l’immobilità e l’immutabilità (Semper idem era il motto del cardinale Ottaviani, grande oppositore dello spirito conciliare). Ma l’incontro, soprattutto, ha evitato di cadere nella disquisizione accademica circa le diverse ermeneutiche (continuità o rottura?), preferendo dare come asserito che nel Concilio ci fu sia la continuità sia la rottura, sia la riaffermazione delle verità fondanti sia la necessità di proporle meglio, più genuinamente e più efficacemente, in relazione ai nuovi tempi. Nello studiare un Concilio che Giovanni XXIII volle pastorale e non dogmatico sarebbe veramente un controsenso alquanto bizzarro, mezzo secolo dopo, arenarsi attorno a una questione che rischia di cadere nel formalismo.
Il Concilio lo si capisce e lo si interpreta a partire dai mondi vitali, non dalle formule, e sono stati proprio i mondi vitali a fare irruzione nel convegno con tutta la loro carica di verità, spesso sofferta. Come quando è intervenuto il padre Felice Scalia, apprezzato da tutti per la sua sincerità nel delineare il dramma attraversato dalla Compagnia di Gesù, visto che per alcuni dei suoi membri la fedeltà al Concilio e lo schierarsi con i poveri ha voluto dire da un lato andare letteralmente  incontro al martirio e dall’altro affrontare la spaccatura con la gerarchia. E ugualmente appassionato è stato l’intervento del rappresentante di un gruppo che riunisce omosessuali cristiani.
Se dom Giovanni Franzoni è salito sul palco per ricordare il tempo in cui Paolo VI, spogliandosi del triregno, non fece soltanto un gesto all’insegna della povertà e dell’aiuto verso le Chiese più bisognose, ma volle dichiarare anche visivamente la rinuncia a ogni forma di potere temporale e di seduzione di quel tipo di potere sulla Chiesa, altri testimoni del Concilio, come Luigi Bettazzi e Arturo Paoli, hanno mandato messaggi.
Il nome del cardinale Martini è risuonato spesso, fin dai saluti introduttivi di Rosa Siciliano, direttrice di Mosaico di pace. E in generale la definizione di “piccolo gregge”, tanto cara a Martini, può essere utilizzata per esprimere lo spirito dell’assemblea, animata dalla volontà non di contarsi per contare, ma di spendersi nel mondo, ovunque ci sia da chinarsi su una ferita e su un’ingiustizia.
Nella sua semplicità, lo spirito del Concilio è stato rievocato con grande efficacia dal Paolo Ricca, che ha ricordato tutto lo stupore e la meraviglia dei protestanti quando si resero conto di essere passati dallo status di eretici a quello di “fratelli separati”, nella cui esperienza di fede i cattolici possono ritrovare elementi di verità utili per la salvezza. E piena di suggestioni per il futuro è stata la relazione di Cettina Militello sulle prospettive di un vero aggiornamento.
L’intervento finale di Raniero La Valle, giocata sulla necessità di uscire dalla contrapposizione tra le varie ermeneutiche del Concilio per fare piuttosto del Concilio l’ermeneutica alla luce della quale interpretare la stessa storia della Chiesa, è suonato non tanto come chiusura ma come premessa di altre tappe. Il titolo dell’incontro è stato preso dal radiomessaggio di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta qual è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”.
Ha scritto Bettazzi nel suo messaggio: “La sollecitazione per la piena attuazione del Concilio è affidata al popolo di Dio, del quale la gerarchia è al servizio. Che la vostra premura di popolo di Dio possa influire sul sinodo episcopale dell’ottobre e su tutto l’anno della fede”.
Recitando la preghiera composta da Marco Campedelli della Comunità San Nicolò di Verona, il popolo di Dio si è espresso così: “Continua a soffiare, vento dello Spirito, nuova Pentecoste sul mondo, continua a inventare lingue nuove, alfabeti inediti, capaci di tradurre le sorprese di Dio. Non è la Chiesa che vogliamo celebrare, ma lo Spirito di Dio che soffia in mezzo al mondo. Chiesa di tutti, Chiesa di poveri”.               
Il popolo di Dio si è riunito. In libertà, senza ipocrisie. Si è confrontato con fiducia, senza calcoli dettati dall’opportunismo, senza prudenze innescate dalla paura, senza equilibrismi dovuti ai giochi di potere. Lo Spirito ha soffiato.

4. Interventi di Enzo Mazzi sul Concilio Vaticano II


A 30 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II - Riflessioni di Enzo Mazzi - 31.10.1992

Cadono oggi (oppure: in questi giorni) trent'anni dall'apertura del Concilio Vaticano II. Quale può essere per noi il significato di una tale data storica? Viviamo in un momento cruciale del trapasso d'epoca. Si chiude un secolo, non tanto in senso sombolico ma reale. Il crinale storico si è raggiunto con lo sbriciolarsi di uno dei due poli che si giocavano il mondo dopo Yalta e subito, con la guera del Golfo, si è intrevisto il nuovo scenario di gioco. Il parto della nuova epoca è un travaglio interminabile, doloroso e pregnante. L'aspro conflitto sociale che si è riaperto in Italia sta tutto, nella sua sostanza, in queste doglie del parto. Che significato può avere la memoria di eventi passati per una partoriente tutta concentrata sugli spasmi dolorosi e inquietanti causati da una vita che preme per nascere?
Angosciati dal nostro futuro vicino e lontano, impegnati a non subire gli eventi, determinati a contrastare lo scivolamento in un nuovo medioevo imperiale, decisi a lottare per una società fondata sui diritti universali, non solo formali ma finalmente reali, siamo tentati di recidere le nostre radici. Fra queste anche il Concilio.
Intendiamoci, se lo considerassimo come evento a sé avremmo pieno diritto di consegnarlo alla storia passata, sia in quanto cattolici, impegnati ormai su frontiere più avanzate, sia come laici sollecitati dalle nuove figure del cattolicesimo quali il pacifismo, la teologia della liberazione dal basso, il volontariato, il dissolversi del collateralismo partitico, il nuovo magistero etico e sociale.
Il Concilio, però, non è da vedere solo come un evento, cioè quella determinata assise di vescovi, è anche un processo, un movimento di lunga durata, un fluire profondo di spinte trasformatrici che solo in alcune occasioni storiche acquista visibilità e spettacolarità.
E come processo, il Concilio stesso è una realtà viva, dentro il travaglio attuale.
Chi scrive è fra i tanti testimoni diretti di un tale processo conciliare, iniziato ben prima del pontificato di papa Giovanni e proseguito fino ad oggi, con modalità e visibilità diverse, come un fiume che si modella in base ai territori che incontra.
Nel dopoguerra, mentre dai luoghi del potere proveniva quella ondata anticonciliare di contrapposizione e intolleranza che trovò nella scomunica dei comunisti uno dei momenti più drammatici, i luoghi del non-potere divenivano crocicchi di inediti e fecondi incontri, crogioli di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa. Per capirci meglio, da tante e complesse esperienze, desumiamo due soli esempi più facilmente decifrabili. Nei campi di concentramento tedeschi, preti francesi si trovarono a condividere una "comunità di destino" con operai comunisti. Scoprirono nelle reciproche diversità valori sia umani sia evangelici che li portarono a uscire dalle rispettive gabbie ideologiche e a tentare sentieri inediti di convergenza. Nacquero così i preti operai, una delle vene del processo conciliare. Un'altra vena, non meno feconda, si apriva nel mantovano, dove don Primo Mazzolari, parroco e scrittore, già durante il fascismo e poi nell'immediato dopoguerra, sperimentava e diffondeva uno spirito di convergenza con i contadini socialisti e comunisti, con gli anticlericali, con i protestanti. "Tromba dello Spirito Santo" lo definì papa Giovanni il quale si ispirò anche a lui nel suo sogno del Concilio.
E' storicamente provato che Giovanni XXIII, ingabbiato in un primo tempo dalla rete curiale, consapevole dell'impossibilità di operare qualsiasi reale riforma partendo dal centro, con un colpo di genialità profetica ha voluto il Concilio per dare voce, forza e futuro al processo conciliare, ai luoghi fecondi del non-potere, alle periferie del mondo.
E' stata una scommessa vincente. "Scommessa", perché a quel tempo non era affatto scontato l'esito del Concilio, con una Curia vaticana che fece di tutto per ingabbiarlo e ridurlo a folklore; "vincente" perché il processo conciliare contagiò gran parte dei padri convocati in S.Pietro e divenne egemone, in senso gramsciano, a livello mondiale.
Dopo trent'anni tale egemonia è sì mortificata da una restaurazione generalizzata, pervasiva e al tempo stesso spettacolare; ma la vitalità del processo stesso si è approfondita e rafforzata, anche per l'emergere di nuovi soggetti e di forti spinte nelle chiese del Terzo Mondo.
Il movimento conciliare è ben vivo ed è una grande risorsa oggi, nel nostro travaglio, di fronte allo spettro dell'egemonia del fondamentalismo cattolico in un quadro di generale involuzione autoritaria del convivere civile. Come ai tempi di Papa Giovanni, conviene scommettere sul processo conciliare, conoscerlo, valorizzarlo, non solo all'interno della Chiesa, ma anche da parte del mondo laico troppo spesso attratto da eventi tanto spettacolari quanto effimeri.

Testo di riflessione sul Concilio Vaticano II scritto per ADISTA

Firenze 4 maggio 1993 - Enzo Mazzi


Ai primi di novembre del 1958, il cardinale Dalla Costa, di ritorno dal Conclave, venne a trovarci all'Isolotto, in una delle visite che ci faceva di frequente in rigoroso incognito. "Abbiamo eletto un papa che vi piacerà" - ci disse con quel risolino ironico e ammiccante che addolciva i tratti austeri e taglienti del suo volto scavato. Poiché conosceva i suoi polli, aggiunse, fra una sorsata di caffè e l'altra, - "Abbiate fiducia, aspettate e vedrete".
Aspettammo, ma sfiduciati. Già i trionfalismi dell'incoronazione ci avevano mal disposti verso questo papa. Presentava sì tratti di bonaria umanità, totalmente assenti dalla figura di Pacelli, ma mostrava, agli occhi di quanti si arrovellavano sulle frontiere del rinnovamento, una cultura tradizionalista e curiale, inadeguata se non contraria ai cambiamenti che si rendevano sempre più urgenti.
Vennero, poi, le mazzate. Nel dicembre 1958, un intervento vaticano vieta all'Università cattolica del S.Cuore di conferire la laurea honoris causa in scienze politiche a Jaques Maritain. Poco dopo, un ordine del Sant'Uffizio blocca la diffusione di Esperienze Pastorali di don Milani, fino a lambire lo stesso cardinale Dalla Costa. Agli inizi del 1959 viene allontanato da Firenze padre Ernesto Balducci. Il 4 aprile dello stesso anno il Sant'Uffizio rinnova, con la dichiarata approvazione del papa, la condanna contro i comunisti, allargandola perfino ai cattolici che con i loro comportamenti "favorivano" il comunismo. Ancora nello stesso anno, il card. Feltin riceve dal card, Pizzardo, segretario del Sant'Uffizio, l'ingiunzione di chiudere definitivamente l'esperienza dei preti operai, creando drammatici casi di coscienza e ferite tutt'ora aperte.
Il nuovo papa appariva un ostaggio imbelle della Curia vaticana. Si allontanava sempre più la prospettiva che ci aveva aperta il card. Dalla Costa.
Il clima che circolava negli ambienti dove si stava realizzando la gestazione del rinnovamento era di disorientamento. Ma non di scoraggiamento, perché mille segni ci dicevano che, nonostante il gelo vaticano duro e distruttivo come le nevicate di marzo, la primavera era in piena e inarrestabile fermentazione.
Lontani com'eravamo dalle stanze e dalle trame del potere, a diretto contatto con la gente più umile, immersi in una quotidianità che impegnava tutte le nostre energie intellettuali e materiali, ci sfuggiva il fatto che alcuni di questi segni di germinazione si annidavano nella coscienza e nei gesti minori del nuovo papa. Come l'abbraccio con cui papa Giovanni accolse l'eretico dissidente don Primo Mazzolari, in una pubblica udienza il 6 febbraio 1959, nello stesso momento in cui i vescovi italiani, card. Montini compreso, esigevano una condanna definitiva ed esemplare di Mazzolari e della sua rivista "Adesso". Dalla Costa non aveva parlato invano quel giorno di novembre 1958 e soprattutto egli sapeva quello che faceva quando aveva impegnato tutta la sua credibilità e la sua autorevolezza di papabile per favorire l'elezione di Roncalli. I due, Dalla Costa e Roncalli, non potevano scoprire le loro carte più preziose. Carlo Falconi afferma in una pubblicazione su I papi del ventesimo secolo che " molto prima di diventare il 262° successore di Pietro, Roncalli era già in possesso di tutto l'esplosivo ideologico a cui avrebbe avvicinato la miccia (...) soltanto negli ultimi anni della sua vita". Papa Giovanni attendeva l'ora stabilita dalla Provvidenza, dice Falconi. Ma noi come potevamo saperlo? Come potevamo pensare che un uomo così esplicitamente inviluppato nella tela del ragno potesse covare il colpo d'ala capace di liberarlo e di liberare con lui la Chiesa intera?
La stessa notizia che Giovanni XXIII aveva espresso l'intenzione d'indire un Concilio ci lasciò sulle prime indifferenti. Ritenevamo che un Concilio sarebbe stato egemonizzato dalla solita Curia che l'avrebbe usato come nuova occasione di trionfalismo, per ribadire il luoghi comuni del centralismo vaticano. Stava a dimostrarlo il fallimento del Sinodo Romano, il primo dell'epoca post-tridentina, tenutosi nel gennaio 196o, con gran pompa ma senza alcun segno di apertura al nuovo.
Per concludere, si consolidava sempre più in noi la convinzione che la riforma della Chiesa non poteva in alcun modo venire dal centro o dall'alto. Era una conferma storica del Cantico di Maria (Ha rovesciato dai troni i potenti ed ha innalzato i senza-potere...), del discorso della montagna e delle parole con cui Gesù accolse i discepoli di ritorno dalla missione (Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai potenti e le hai rivelate ai piccoli...). Diveniva sempre più chiaro che l'attuale struttura ecclesiastica, teocratica, centralista, autoritaria, imponente, ricca, alleata con i ricchi e i potenti, era una fortezza-prigione totalmente impenetrabile, capace di annullare ogni buona volontà riformatrice. Il massimo che ci si poteva attendere era una "verniciatura dei sepolcri".
Del resto noi stessi, nel nostro piccolo, lo sperimentavamo. Il Vangelo era vissuto fuori dalle strutture ecclesiastiche, nei luoghi del non-potere, della insignificanza, della emarginazione, della povertà. E noi, preti e laici, che tentavamo di aprire le nostre parrocchie delle squallide periferie o di sperduti paesi  o delle baraccopoli alla creatività dello Spirito, cozzavamo sempre contro muraglie inamovibili. Non era solo questione di uomini. anzi, in radice non era affatto questione di uomini. Erano sbarre fatte di ruoli, leggi, riti, dogmi, catechismi, concordati, protezioni politiche, patrimoni, consuetudini....
La riforma della Chiesa in senso evangelico poteva venire solo dal basso o se si vuole dalla periferia. La comprensione del Vangelo, il catechismo, la liturgia, la spiritualità, i beni materiali, le strutture decisionali, insomma tutta la struttura di vita dell'essere chiesa veniva progressivamente rovesciato. A lenti ma decisivi passi era collocato su un nuovo fondamento: la base, i poveri, gli handicappati, gli abbandonati, gli umili, gli operai. Le realtà nuove che nascevano si chiamavano non di rado, con termine equivoco, "comunità", e magari "comunità parrocchiali". Solo più tardi si affaccerà quel nome che ancora non è stato assorbito e travisato dalle istituzioni forti: "comunità di base", cioè realtà che trovano il proprio fondamento nello Spirito che vive nella base, realtà protese alla sostanziale autonomia dalla struttura della parrocchia, della diocesi, della Curia vaticana.
Insomma eravamo "periferie" che si avviavano coscientemente, sempre più coscientemente, a divenire soggetti storici della inelusibile riforma della Chiesa.
Papa Giovanni, ecco l'intuizione del card. Dalla Costa che più tardi, nella preparazione del Concilio, divenne chiara anche a noi, si trovava sulla stessa lunghezza d'onda: era un papa che ci sarebbe piaciuto. La carriera di diplomatico aveva portato Roncalli a contatto con alcuni snodi storici cruciali del dopoguerra: la Bulgaria e la Turchia delle frontiere ecumeniche col mondo ortodosso e islamico, la Francia delle parrocchie missionarie e dei preti operai e infine l'Italia dell'opposizione all'assolutismo e all'anticomunismo pacelliano. Egli aveva preso coscienza di quanto la Chiesa intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava forte nelle periferie e nella base. Intendiamoci, non voglio dire che lui fosse sempre d'accordo con le esperienze innovative che incontrava. Ma avrebbe voluto paternamente indirizzarle, secondo il suo stile di "buon pastore" che vuole evitare di trasformarsi in "organizzatore della vita collettiva", come ebbe a dire nel discorso dell'incoronazione. Ben presto però si accorse che egli, dal centro, poteva solo reprimere e soffocare. La riforma della Chiesa non poteva partire da lui. Non voleva essere un papa-riformatore. E concepì il Concilio proprio per rompere il centralismo romano, per far tacere i "profeti di sventura" e quindi liberare le esperienze conciliari delle periferie e dare spazio ai "segni dei tempi. E' emblematica la vicenda, nota ma ormai dimenticata, dello schema chiave riguardante le fonti della Rivelazione. Papa Giovanni sconfessò praticamente lo schieramento dei vescovi italiani, spagnoli, molti latino-americani, guidato dai potenti cardinali curiali con in testa Ottaviani il quale con cavilli procedurali voleva imporre lo schema proposto dall'alto, e diede spazio alle istanze rinnovatrici. Questo era il suo compito: non fare lui stesso la riforma, ma dare spazio al processo di riforma che germinava nella chiesa.
Ecco la convergenza che trovo fra la germinazione delle comunità di base e di tante altre esperienze conciliari e la coscienza profetica di Giovanni XXIII.
Dalla Costa aveva proprio ragione: papa Giovanni ci è piaciuto.
Appunti per l’incontro sulla storia delle religioni monoteiste organizzato da AUSER presso la Comunità dell’Isolotto - Firenze 20 aprile 1999 - Enzo Mazzi

Una data segna un passaggio storico fondamentale per la religione cattolica: l'11 ottobre 1962 quando una foresta di candide mitrie vescovili illuminò e animò l'ambigua immensità di S.Pietro.
Come evento in sé, il Concilio Vaticano II è ormai consegnato alla storia passata, oggetto di ricerca, di riti commemorativi, di esegesi interessate dei testi prodotti. Ma è solo questo oppure è da vedere anche come processo aperto, percorso di trasformazione, segno della direzione di marcia di un'epoca?
Proviamo a storicizzare un tale interrogativo per riportarlo poi all'oggi.
A differenza del Vaticano I, che era stato ancora un concilio essenzialmente europeo, i quasi 2500 padri conciliari provenivano ora da tutto il mondo. Meno della metà erano europei, ottocento venivano dalle Americhe, più di cinquecento dall'Africa e dall'Asia. Rappresentavano le periferie della cattolicità. Proprio per questo papa Giovanni li aveva convocati: per dar voce e forza alla molteplicità creativa delle ininfluenti e non di rado ignorate province dell'impero. Sta tutta qui, a mio avviso, la geniale ispirazione profetica di papa Giovanni, oppure il suo peccato o almeno la sua ingenuità, a giudizio di alcuni e forse di molti.
La Chiesa cattolica fino allora era stata di parte, dominio dei "profeti di sventura", arroccata "contro": contro la Riforma, la modernità, il comunismo, la diversità, la verità dell' "altro"; contro l'autonomia delle coscienze e il riscatto dei popoli.
L’ideologia dominante nel cattolicesimo ancora una volta aveva “munto con violenza alle mammelle della Scrittura e invece di latte aveva bevuto sangue”: questa espressione tragicamente colorita di un anonimo autore del secolo XI, il quale si riferiva alle giustificazioni tratte dalla Bibbia da ambedue le parti nella lotta per le investiture e nel tanto sangue sparso, la vedo appropriata anche alla Chiesa della controriforma e tridentina.
Del resto, apro una parentesi, vedo l’espressione appropriata anche al coinvolgimento attuale delle religioni nella pulizia etnica, nei massacri e nella guerra nella ex-Yugoslavia. Raramente e forse mai nella storia chi compie massacri o intraprende guerre confessa i motivi veri del proprio operato violento, ma ammanta la violenza con motivi nobili: religiosi o etici. Finge di mungere latte per bere in realtà sangue.
Così era stato per la Chiesa cattolica dal tempo della Controriforma fino al Vaticano II: una chiesa di parte, arroccata in difesa rispetto a un mondo considerato nemico.
Papa Roncalli, nella bolla di indizione del Vaticano II, Humanae salutis, scrive: “Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i “segni dei tempi” (Mt 16,4), ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della Chiesa e dell’umanità.
Era una svolta storica rispetto alla valutazione negativa della storia moderna che si era andata accentuando nell’ottocento e nella prima metà del novecento.
Come data d’inizio “ideale” di tale accentuazione negativa si può citare l’enciclica Mirari vos (15 agosto 1832) di Gregorio XVI, nella quale la storia contemporanea veniva letta sotto il segno di una “congiura dei malvagi” che non permetteva indulgenza e benignità alcuna da parte della chiesa e imponeva piuttosto di “reprimere col bastone” i vari errori. Questo giudizio globalmente negativo sulla storia ne sulla società occidentale, soprattutto sulle società democratiche, non fu soltanto ripreso nel magistero di Pio IX (basti pensare al Sillabo), ma codificato solennemente nel proemio che apre la Costituzione dogmatica del Vaticano I sulla fede cattolica: la storia moderna, dopo il Tridentino, viene descritta come la progressiva corruzione dell’uomo, provocata dalla negazione protestante del principio di autorità. E’ significativa a tale proposito anche la Quoad Apostolici Muneris di Leone XIII.
E’ su questo sfondo che bisogna collocare la portata dell svolta di Papa Giovanni. La Chiesa deve tornare ad essere "chiesa di tutti e particolarmente dei poveri", disse nell'intervento dell'11 settembre 1962 in preparazione del concilio e ripeté sostanzialmente un mese dopo, nel discorso d'apertura. "Chiesa di tutti" e non solo della gerarchia; "di tutti" e non solo dei cattolici, degli europei, dell'occidente opulento. Una tale trasformazione era un compito immane, un miracolo che nessun papa dal centro avrebbe mai potuto compiere. Roncalli, uomo dell'apparato sapeva quanto era grande la solitudine istituzionale del vescovo di Roma, conosceva bene la prigionia vaticana e lo spessore delle catene curiali. Era cosciente di ciò quando accettò l'elezione e se ne convinse meglio i primi anni del suo pontificato quando fu trascinato in una delle ricorrenti strette involutive che si abbatté sulle esperienze del cattolicesimo italiano e francese più impegnate in quella trasformazione che entrava sempre più decisamente nei suoi sogni.
Negli anni 1958-'59, furono colpiti Jaques Maritain, cui fu negato dal card. Pizzardo, segretario del Sant'Uffizio, il conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Università cattolica del S.Cuore, Lorenzo Milani, le cui "Esperienze pastorali" furono ritirate dalla circolazione, Ernesto Balducci, esiliato da Firenze, i preti operai francesi obbligati a lasciare il lavoro, i teologi diffidati dal proseguire nelle timide aperture verso la nuova esegesi biblica, Teilhard de Chardin, accusato di eresia. Altro che sogni di apertura!
Papa Roncalli si sentiva inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino nelle mani dell'onnipotenza curiale. Ed ebbe la genialità di rompere quell'isolamento chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti esemplari di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al Medio Evo. Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica possibilità istituzionalmente a lui consentita, intese dare voce e forza a quei processi di crescita umana e cristiana che animavano la storia. Li aveva incontrati nella sua esperienza di diplomatico vaticano in cruciali posti di frontiera: in Bulgaria, a contatto col mondo dell'ortodossia e del comunismo, inTurchia, la porta dell'Islam, nella Francia, "paese di missione" animato dal card. Suhard e inoltre nodo storico della decolonizzazione (Algeria e Vietnam).
Nell'enciclica "Pacem in terris" chiamerà tali processi "segni dei tempi" e darà loro precisi connotati: "ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici...ingresso della donna nella vita pubblica ...non più popoli dominatori e popoli dominati..."; ancora altri "segni dei tempi", secondo la Pacem in Terris, l'aprirsi delle coscienze al carattere democratico della vita sociale e politica e all'illiceità ormai della guerra nell'era atomica.
Che ne è di tutta questa realtà, di questo mondo ribollente, di questa presa di coscienza delle "periferie", della base cui attraverso il concilio si è inteso dar voce e forza? Ha certamente ottenuto l'intento di farsi sentire ed ha contagiato la gran parte dei padri conciliari; ma è riuscita anche scardinare in qualche modo la tela del ragno o ne è rimasta invischiata?
La domanda, si vede bene, si colloca in una visione del Concilio non come puro fatto di chiesa, ma come espressione e segno di un'epoca, di una fase storica, di una tappa del cammino umano complessivo.
Ebbene, a giudicare dalla prassi alto-istituzionale si direbbe che il Concilio è effettivamente morto. Rimane solo la liturgia funebre i cui riti si ripropongono sempre uguali. Ultimi in ordine di tempo: la condanna della Teologia della liberazione, l'approvazione del catechismo universale, che a detta di molti è una ferita pofonda alla inculturazione del vangelo, le celebrazioni dei 500 anni di evangelizzazione, a Santo Domingo. E’ vero che c’è un atteggiamento fortemente critico nei confronti del neoliberismo, dell’individualismo egoista occidentale, dell’iniquo rapporto Nord-Sud e soprattutto c’è questa condanna della guerra. E’ una condanna, per me molto giusta, ma che cala dall’alto. E’ una specie di riproposizione dello scontro medioevale fra papato Impero. Manca completamente l’annuncio dei “segni dei tempi”.
Dunque si può dire addio ai "segni dei tempi"? Si deve considerare ormai fuori dall'orizzonte storico attuale la fiducia nel cammino umano, la valorizzazione delle periferie, delle diversità, dei processi di trasformazione dal basso?
Insomma si deve considerare morto lo spirito del Concilio?
Non ne sarei tanto sicuro. La sua tomba potrebbe essere vuota e i riti funebri un esorcismo contro un processo inarrestabile.
E' una tesi questa assai diffusa fra i sociologi e i teologi. Soprattutto è un atteggiamento di fede e un'apertura di credito alla speranza, su cui si gioca un aspetto non secondario del nostro futuro e su cui si fonda la fedeltà e la costanza di realtà ecclesiali quali ad esempio le comunità di base.
Le comunità di base sono nate proprio per annunciare e inverare il processo di riconciliazione e pacificazione universale a cui tendevano e tendono i “segni dei tempi” intravisti da papa Giovanni.
Comunità di base sono esperienze diffuse in tutto il mondo per andare oltre le incrostazioni secolari delle verità assolute ed esclusive che creano separazione e contrapposizione, per rimettere in moto la ricerca a tutto campo, per oltrepassare tutti i confini, le appartenenze totalizzanti e le bandiere, per cercare strade nuove di relazione basate sul primato dell’uomo e della donna, per riconciliare anche, anzi prima di tutto, i vari aspetti dissociati dell’essere umano, per valorizzare e intrecciare i percorsi positivi in atto in ogni angolo del mondo. Le Comunità di base sono un segno di speranza. Ma i segni di speranza che animano la società attuale sono tanti. La sostiene con forza una testimonianza di padre Ernesto Balducci, apparsa postuma sulla pubblicazione “Che ne è del Concilio”: "Gli apparati ecclesiastici tendono a ricomporsi secondo il modello messo in crisi dal Concilio...Ma la fermentazione del Concilio non si è arrestata...Non ha molta importanza che al vertice della chiesa siano potenti i gruppi della restaurazione. Il Concilio ha riabilitato la libertà di coscienza, dentro e fuori la chiesa, e la libertà di coscienza messa in rapporto col Vangelo come messaggio di liberazione è ormai una forza che nessuna astuzia potrà imbrigliare".


[1] E’ orami noto che il termine “cammello” è una traduzione errata.

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