Comunità dell’Isolotto -
Firenze, domenica 7 ottobre 2012
Percorsi di
memoria:
l’antichissima
memoria della civiltà della dea Madre per un futuro mutuale
riflessioni di Carlo,
Chiara, Claudia, Gisella, Luisella, Maurizio
La parabola del Samaritano dal Vangelo di
Luca
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e
incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono,
lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima
strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto
in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio,
passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli
fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo
giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente,
estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò
che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti
sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli
rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’
lo stesso».
In Cantico delle Creature:
conosciuto anche come “Il cantico di Frate sole e Sorella Luna” ed è la prima poesia
scritta in italiano. Francesco d’Assisi l’ha composta nel 1226. La poesia è una
lode a Dio, alla vita e alla natura vista in tutta la sua bellezza e
complessità.
Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle. Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione. Beati quelli ke ‘l sosterrano in pace, ka da te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a·cquelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male. Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate. |
Altissimo,
Onnipotente Buon Signore, tue sono la lode, la gloria, l’onore ed ogni
benedizione.
A te solo Altissimo, si addicono e nessun uomo è degno di pronunciare il tuo nome.
Tu
sia lodato, mio Signore, insieme a tutte le creature specialmente il fratello
sole, il quale è la luce del giorno, e tu attraverso di lui ci illumini.
Ed esso è bello e raggiante con un grande splendore: simboleggia te, Altissimo.
Tu
sia lodato, o mio Signore, per sorella luna e le stelle: in cielo le hai
formate, chiare preziose e belle.
Tu sia lodato, mio Signore, per fratello vento, e per l’aria e per il cielo; quello nuvoloso e quello sereno e ogni tempo tramite il quale dai sostentamento alle creature. Tu sia lodato, mio Signore, per sorella acqua, la quale è molto utile e umile, preziosa e pura. Tu sia lodato, mio Signore, per fratello fuoco, attraverso il quale illumini la notte. E’ bello, giocondo, robusto e forte.
Tu
sia lodato, mio Signore, per nostra sorella madre terra, la quale ci dà
nutrimento, ci mantiene e produce diversi frutti con fiori colorati ed erba.
Tu
sia lodato, mio Signore, per quelli che perdonano in nome del tuo amore e
sopportano malattie e sofferenze.
Beati quelli che le sopporteranno in pace, perchè saranno incoronati. Tu sia lodato, mio Signore, per la nostra morte corporale, dalla quale nessun uomo vivente può scappare: guai a quelli che moriranno mentre sono in situazione di peccato mortale.
Beati
quelli che la troveranno mentre stanno rispettando le tue volontà, perché la
seconda morte, non farà loro male.
Lodate
e benedicete il mio Signore, ringraziatelo e servitelo con grande umiltà.
|
Introduzione
Il libro di Riane Eisler “Il calice e la spada” rappresenta una
nuova e interessante rilettura della
storia dell’umanità a partire da una serie di straordinarie scoperte
archeologiche fatte nella seconda metà del secolo scorso un po’ in tutta Europa
e in particolare nell’Anatolia turca (Catal Huyuk).
Dall’analisi degli elementi
emersi con queste scoperte e dal loro collegamento con altri, numerosissimi,
provenienti dalle più disparate discipline, è emersa l’esistenza di una civiltà
antichissima, localizzata nell’Europa già nel Paleolitico[1] e poi
sviluppatasi nel Neolitico[2] (tra
10.000 a.C a circa 6.000 a.C.), caratterizzata da un’organizzazione sociale
sostanzialmente paritaria ed ugualitaria, un mondo agricolo, pacifico, in cui
di venerava una forza femminile simbolo della capacità di dare e nutrire la
vita, in cui il rapporto tra i sessi era equilibrato e fondato sulla
collaborazione.
Questa civiltà, denominata “civiltà dell’Antica Europa” o
“civiltà della Dea Madre” o fu sconfitta da popoli nomadi provenienti da est
portatori di un’organizzazione sociale fondata su una cultura guerriera e
dominatrice, nella quale aveva valore e potere chi aveva la capacità e la forza
di dare la morte, di uccidere.
Il libro è quindi titolato “Il
calice e la spada” per indicare questi due diversi modelli culturali
contrapposti: il calice segno di convivialità e la spada
strumento di morte.
Ma questo non è un libro di
archeologia, è uno strumento che, attraverso la lettura del passato, vuole
affrontare il presente, vuole trovare possibili risposte a domande sempre
attuali come per esempio:
Perché ci cacciamo e
perseguitiamo l’un l’altro?
Perché nel nostro mondo regna
la brutalità dell’uomo verso i suoi simili?
E’ ineluttabile la guerra? E’
ineluttabile la violenza dell’uomo sulla donna?
Cosa ci spinge perennemente
alla guerra anziché alla pace e all’armonia?
Cosa ci spinge al una
inesorabile distruzione del pianeta?
Riane Eisler si chiede: E’
realisticamente possibile un passaggio da un sistema di guerre incessanti, di
ingiustizia sociale e di squilibrio ecologico a un sistema che porti alla pace,
alla giustizia sociale e all’equilibrio ecologico?”; e nel libro offre
strumenti che danno elementi di fiducia e speranza:
·
non è utopico, ma anzi possibile e ragionevole,
cercare di costruire un futuro basato sulla collaborazione e sulla mutualità,
per la semplice e ottima ragione che una concretizzazione di tale visione del
mondo si è già concretizzata almeno una volta nella storia dell’umanità;
·
la nostra antichissima storia ci dimostra che la
guerra e “la guerra dei sessi” non sono decretate divinamente o biologicamente;
Infine Riane Eisler dice che il suo libro racconta la
storia di come il corso, inizialmente mutuale, della cultura occidentale abbia
compiuto una svolta cruenta di tipo dominatore durata 5.000 anni ..... e che i
nostri crescenti problemi planetari sono in gran parte la logica conseguenza ..
del modello di organizzazione sociale dominatore, per cui non possono essere
risolti dal suo interno.
La civiltà dell’Antica Europa
o della Dea Madre
IL PALEOLITICO: Tra i molti ritrovamenti
fatti in molti scavi archeologici, realizzati un po’ in tutta Europa, dai
Balcani alla Siberia dalla Francia a Vienna, ci sono:
·
migliaia di antichissime statuette che
raffigurano donne senza volto, dai grandi fianchi, dai grandi seni, spesso
incinte;
·
i dipinti in numerose caverne del Paleolitico,
tra l’altro con moltissimi “bastoncini”;
·
sepolture in cui i resti scheletrici erano
collocati all’interno di una figura fatta da conchiglie disposte con cura a
dare forma ad una grande vagina, cosparsa di polvere rossa, simbolo evidente di
sangue mestruale.
Figura 1 – Piantina con i
ritrovamenti di alcune delle più celebri “Dee Madri”
L’interpretazione
tradizionale ha classificato le statuette femminili come espressioni
dell’erotismo maschile o come oggetti usati in primitivi riti di fertilità e i
“bastoncini” come simboli di armi o di lance per la caccia.
Nell’interpretazione classica del Paleolitico, infatti, al centro c’è l’uomo,
cacciatore e guerriero, caratterizzato da una cultura simbolica primitiva.
Tutto il resto è non visto o trascurato.
La nuova interpretazione si
fonda sul collegamento tra le conoscenze pre-esistenti e gli elementi dei nuovi
scavi archelogici e su una lettura di tutti questi elementi in un’ottica nuova:
il corpo femminile di animali e donne è fonte di vita, una grande forza
femminile è alla base dei cicli di vita, di morte e rinascita della natura di
cui la specie umana è parte integrante. Inoltre, in quest’ottica, i riti
funebri in cui i morti venivano collocati nella grande vagina cosparsa di rosso
descrivono un orizzonte simbolico in cui la forza femminile può assicurare il
ritorno alla vita in uno dei cicli di rinascita della natura. E i “bastoncini”
dipinti delle caverne paleolitiche, che l’interpretazione classica classifica
come armi, lance per la caccia, in queste nuova lettura appaiono come forme
stilizzate di alberi e di piante (altrimenti inesistenti nelle raffigurazioni
paleolitiche).
André Leroi Gourhan, uno dei massimi esperti di arte
paleolitica di impostazione classica, ha convenuto che non si può più liquidare
come “culto primitivo della fertilità” tutto il nuovo materiale rinvenuto e che
i nostri avi del paleolitico avevano senz’altro sviluppato credenze molto più
complesse di quanto si sia pensato finora: i nostri avi del Paleolitico
avevano sviluppato una cultura religiosa e simbolica che, a partire dalla
constatazione che sono i corpi femminili che danno vita, poneva al centro la
forza femminile: ad essa si riconosceva il grande potere di dare la vita. Era
questo il nocciolo culturale che poi nel Neolitico diventerà il culto della
“Dea madre”.
Ma perché questa
interpretazione per certi versi così ovvia è stata così a lungo ignorata o
minimizzata? in parte perché queste scoperte archeologiche si sono
realizzate solo nella seconda metà del ‘900 e in parte perché persiste il
“paradigma culturale” di un paleolitico incentrato sulla figura del maschio
forte, cacciatore e dominatore.
IL NEOLITICO, L’EUROPA ANTICA, L’ARTE DEL NEOLITICO:
le conoscenze sulla preistoria sono potute progredire enormemente grazie a
straordinarie scoperte nella regione dell’Anatolia turca – gli scavi
archeologici di Catal Huyuk e Hacilar - e grazie al collegamento tra
gli elementi raccolti in questi scavi e quelli ritrovati in moltissime altre
zone dal medio Oriente all’India, dalla Palestina fino all’Inghilterra.
Dall’analisi
degli elementi reperiti dagli “scavi di edifici”, dagli “scavi funerari” e
soprattutto dall’Arte del Neolitico è
sorprendente osservare ciò che NON viene ritratto o rinvenuto (e
ciò che non è ritratto può essere altrettanto rivelatore di ciò che è
ritratto):
- non ci sono immagini di violenza, crudeltà o sacrifici, né immagini di “nobili guerrieri”, capi vittoriosi” e scene di battaglia;
- non ci sono tracce di sontuose sepolture dedicate a “capi tribu”;
- non ci sono immagini di armi, né tracce di depositi di armi e di fortificazioni militari;
- nelle raffigurazioni delle molteplici forme della “Dea madre” non vi sono lance, spade, folgori a indicare forza e potenza.
Ciò che invece si trova
dappertutto, nei templi e nelle case, nei dipinti murali e nell’arte sono:
- una immensa varietà di immagini e simboli presi dalla natura;
- una immensa varietà di immagini e statuette femminili, gravide o in fase di parto,
- una immensa varietà di immagini che raffigurano la “dea madre” come una figura di donna incinta o mentre partorisce e con forme molto diversificate ma sempre connesse alla natura.
Figura 2 – Dea Madre Catal
Huyuk 6.000 a.C.
Ne è derivata una nuova
lettura e conoscenza della preistoria e del Neolitico, una nuova immagine delle
origini e dello sviluppo della società preistorica:
- si è capito che la più grande rivoluzione della storia umana, ossia la rivoluzione agricola, risale al Neolitico, ed è quindi molto più antica di quanto finora si ritenesse; tutti i luoghi nei quali si è realizzata questa rivoluzione agricola (e gli altri grandi progressi sociali e materiali che ne sono seguiti) avevano come comune denominatore il “culto della Dea Madre”.
- la culla della civiltà, finora identificata nella “Mezzaluna fertile” non è la culla della civiltà, o quanto meno non la sola culla. Nel Neolitico vi sono state moltissime altre culle, disseminate in una vastissima area dell’Europa, del medio - oriente, delle isole del Mediterraneo. Si è trattato di una civiltà denominata, dalla studiosa Marija Gimbutas, “Civiltà dell’Europa Antica”.
La Civiltà dell’Antica Europa fu
caratterizzata da:
1.
la presenza del culto alla Dea Madre: il
principale comune denominatore di tutte le popolazione della Civiltà
dell’Antica Europa fu il culto della Dea Madre, una articolata e complessa
forma religiosa che poneva al centro l’immagine di una figura o forza
femminile, cui era riconosciuto il grande
potere di dare la vita, di presiedere ai cicli della natura di nascita,
morte e rinascita. La Dea è rappresentata da immagini di donne incinte o che
partoriscono e da una immensa varietà di simboli presi dalla natura (uccelli,
pesci, acque primordiali, tori, serpenti o farfalle (questi ultimi due simboli
della capacità di Madre natura di trasformarsi, di rigenerarsi, di
metamorfosi)). La Dea Madre, nelle sue varie vesti di Vergine, Progenitrice o
Creatrice, personifica l’unità di tutte le cose della natura, la forza naturale
che governa l’universo, la madre che dà vita e che al momento della morte si
prenderà cura dei suoi figli riportandoli ad un grembo cosmico.
2.
un’organizzazione religiosa a base comunitaria
anziché centralizzata e gerarchica, fondata su una spiritualità quotidiana: non
esisteva una distinzione tra sacro e profano, la religione era vita e la vita
era religione; la religione era una spiritualità da riconoscere in ogni forma
di vita, che ognuno poteva vivere e esprimere nei gesti quotidiani (la divinità
era seminare, cucinare, avere rapporti sessuali e procreare, tessere e molto
altro..). I templi non erano strutturalmente diversi dalle abitazioni, né
necessariamente di dimensioni maggiori, ed erano dislocati tra le case,
indicando la presenza di una struttura sociale e religiosa a base comunitaria e
non centralizzata e gerarchica.
3.
un’organizzazione sociale pacifica:
l’assenza di immagini di violenza e di battaglie, l’assenza di ritrovamenti di
depositi di armi e di tracce di fortificazioni, il fatto che gli insediamenti
erano posti in valli fluviali e non in colli alti o scoscesi, come fanno le
popolazioni con intenti bellicosi e con necessità difensive, sono chiari
segnali di un’organizzazione sociale tendenzialmente pacifica;
4.
un’organizzazione sociale sostanzialmente
egualitaria tra i sessi: non si sono ritrovati elementi che segnalano
superiorità e dominio degli uomini sulle donne; sono stati individuate invece
molti elementi che mostrano il ruolo
fondamentale che le donne avevano nella società. Per esempio: il luogo adibito
al sonno per le donne era spesso più ampio e migliore rispetto a quello degli
uomini; le donne sono spesso ritratte, nei modelli di templi e altari domestici
e nei resti di templi, a supervisionare la preparazione e lo svolgimento di
rituali dedicati alla Dea Madre; o nello svolgimento di funzioni importanti nel
culto alla Dea (macinavano e cuocevano il pane dei riti, tessevano e
dipingevano, etc..). Questo ha portato alcuni studiosi a classificare questa
società (dato che non era patriarcale) come “patriarcale” cioè fondata sulla
superiorità e il dominio delle donne sugli uomini. La Gimbutas sostiene però
che questo ragionamento è frutto del nostro modello di pensiero dualistico, che
non riesce ad uscire dal meccanismo di pensiero “se non domina l’uno allora
domina l’altro”. In questa società dell’Antica Europa non esisteva né il
patriarcato né il matriarcato. M.Gimbutas scrive “ci sono indizi di una
divisione del lavoro tra i sessi, ma non di una superiorità dell’uno
sull’altro...”; e poi ancora “...Nel cimitero 53 di Vinca non si
distingueva nessuna differenza tra la ricchezza degli addobbi delle tombe
maschili e quelle femminili”, e poi ancora “..il corredo delle tombe di
praticamente tutti i cimiteri che si conoscono dell’Antica Europa rivela una
società egualitaria uomo-donna”. Le donne erano dunque importanti ma
non superiori e non in posizione di dominio rispetto all’uomo (per
riuscire a immaginarlo possiamo pensare al solo rapporto umano che, anche nelle
società a dominio maschile, non viene concettualizzato in termini di
superiorità – inferiorità, quello di madre-figlio. Evidentemente la madre
adulta è più grande e più forte del figlio ma non per questo il figlio è
considerato inferiore o di poco conto). Per concludere nella società
dell’Europa Antica che adorava la Dea Madre e in cui le donne avevano un ruolo
importante, esistevano relazioni egualitarie tra i sessi e in generale tra
tutti i suoi componenti.
5.
un’organizzazione sociale sostanzialmente
egualitaria: dagli scavi relativi agli edifici e dalle immagini
dell’arte Neolitica si è potuto constatare che le abitazioni erano
sostanzialmente analoghe per grandezza, ricchezza nei materiali di costruzione
e di addobbi. Laddove si sono trovate differenze sociali queste non erano molto
marcate, molto vistose. Questo fa ritenere che esistesse una organizzazione
sociale sostanzialmente egualitaria tra i suoi componenti;
6.
lo sviluppo dell’agricoltura e dell’arte di
addomesticare gli animali: si coltivavano grano, orzo, piselli, legumi
e si sono addomesticati tutti gli animali presenti oggi nei Balcani ad
esclusione del cavallo. Questi progressi hanno consentito un certo grado di
benessere e lo sviluppo di nuove tecnologie e di attività artigianali
(lavorazione dell’osso, della ceramica, dei metalli). La Eisler osserva che
probabilmente la rivoluzione agricola si poté realizzare proprio perché la
società aveva un’organizzazione sociale pacifica e egualitaria.
7.
un orizzonte culturale e simbolico che pone al
centro l’amore per la vita e la natura: non essendoci immagini di dei
maschili potenti e irascibili, né immagini di capi tribù bellicosi con armi,
folgori e schiavi ai loro piedi, è
ragionevole pensare che questo non ci fosse nemmeno nella vita reale; e se la
principale immagine religiosa è quella di una donna gravida o che partorisce è
ragionevole pensare che l’orizzonte culturale e simbolico fosse quello
dell’amore per la natura e la vita, anziché quello della paura e della morte.
Creta, la sola civiltà della
Dea Madre che arrivò in epoca storica
Creta è l’unica grande civiltà in cui il culto della Dea
sia giunto fino ad epoca storica.Ed è incredibile come oggi continui ad essere visitata da
migliaia di turisti ignari di ciò che vedono. Questo accade perché le grandi
scoperte fatte su Creta e la loro nuova interpretazione stentano a diffondersi
per il permanere di pregiudizi duri ad essere sradicati.
La storia della civiltà cretese comincia
intorno al 6.000 a.C. quando arrivano sulle spiagge dell’isola un gruppo di
immigrati probabilmente provenienti dalla Anatolia. Portano con sé il culto
della Dea e una tecnologia che li colloca nel Neolitico.
Nei successivi 4.000 anni Creta vive un lento ma costante
progresso tecnologico in molti ambiti (agricoltura, tessitura, metallurgia,
incisione, architettura, etc..), una evoluzione sociale pacifica, una grande
espansione del commercio e lo sviluppo di uno stile artistico molto
particolare.
L’arte e la cultura cretese, un inno
alla vita, alla gioia, alla natura: secondo la quasi totalità degli
archeologi e degli storici dell’arte antica, la cultura e l’arte cretese si
differenziano molto da quelle delle altre civiltà del tempo (per es. in Egitto,
in Babilonia) per i loro caratteri unici di inno alla gioia e alla vita,
all’armonia con la natura e tra uomini e donne.
L’archeologo Platon
scrive che l’arte cretese è “delizia per la bellezza, la grazia e il
movimento, .... godimento della vita e del rapporto con la natura”. Altri
esperti hanno usato espressioni come “il più completo riconoscimento della
grazia della vita che il mondo abbia conosciuto” e ancora “la perfetta
espressione dell’idea di “homo ludens””.
Il culto della Dea: nella cultura minoica il
culto della Dea permeava ogni aspetto della vita quotidiana. La Dea era madre
dell’universo, del cielo e della terra, di animali, piante e di ogni forma di
vita. Il Culto della Dea significava fecondità della natura, della terra,
potenza creatrice dispensatrice di vita e anche di morte come forma naturale di
rigenerazione; la paura della morte praticamente non esisteva perché la morte
era concepita come un momento del percorso rigenerativo della vita: la morte
era un tornare nel grembo materno, alla madre terra che è madre della vita.
La Dea era rappresentata da una amplissima gamma di forme di vita, tra le tante si sottolineano il serpente e la farfalla: il loro cambiare forma e pelle era simbolo della capacità di trasformazione e rinascita della vita e della natura. La Dea era anche spesso rappresentata con una “doppia ascia”, che serviva a dissodare il terreno prima della semina e che aveva la forma stilizzata della farfalla: non era un’arma come erroneamente è stata considerata, bensì un simbolo di fecondità e di fertilità della natura. Scrive Platon: “tutta la vita era permeata da una fede.. nella Dea Natura, sorgente di tutto il creato e dell’armonia. Ciò spingeva all’amore per la pace, all’orrore per la tirannia, al rispetto per la legge...”.
Una società sostanzialmente pacifica, non-violenta,
non dominatrice: per lunghissimo tempo e certamente nel lungo periodo
più antico (periodo minoico) le città-stato sul mare non hanno avuto
fortificazioni, né vi sono tracce che abbiamo combattuto tra loro o che abbiano
intrapreso guerre di conquista; anche le ville sul mare erano completamente
sguarnite di forme di difesa.
L’assenza di immagini di
uomini maschi che incarnano il potere della forza, della conquista è
strettamente legato al fatto che l’immagine della divinità non è quella di una
divinità dominante, violenta e minacciosa, ma quella di una figura femminile
che dispensa vita, fertilità e protezione materna; e la totale assenza di una
concezione del potere basato sulla violenze e sul dominio è una delle
fondamentali ragioni della lunga pace che i cretesi hanno potuto vivere.
Ma nella società minoica non solo mancano le immagini di
uomini maschi che incarnano il potere della forza e della vittoria, mancano
anche del tutto immagini di uomini regnanti seduti sul trono, così frequenti in
altre società del tempo (basti pensare ai faraoni!).
Esclusi gli affreschi della Dea Madre seguita da fanciulli
e fanciulle, non vi sono immagini di regnanti: vi è forse un’unica eccezione,
quella del cosiddetto “giovane principe”, un’eccezione peraltro controversa
visto che l’immagine raffigura un giovane dai lunghi capelli, disarmato, nudo
fino alla cintola incoronato con piume di pavone e circondato da fiori e
farfalle, che – ammesso sia stato davvero un principe - non ha nulla dell’idea
del dominio.
Tutto questo ha spinto alcune studiose come la Hawkes a
pensare che sui troni minoici regnassero delle regine che si ispiravano, nella
conduzione del potere, al criterio della “responsabilità materna”. Resta
comunque il fatto, condiviso da tutti gli esperti, che nella società cretese
l’esercizio del potere e del governo delle città-stato non sia stato associato
ai concetti di dominio, di minaccia, di violenza. E le differenze con l’Egitto,
l’impero Assiro-Babilonese e altre civiltà antiche sono particolarmente
evidenti.
La ripartizione equa della ricchezza e opere
pubbliche destinate a tutti: un’altra caratteristica significativa
della società cretese, che la distingue nettamente dalle altre civiltà antiche,
è la ripartizione abbastanza equa della ricchezza, molto più equa di quanto si
sia verificato altrove, basti pensare al divario immenso che c’era tra i
potenti e i poveri in Egitto o a Babilonia, e che invece a Creta non esisteva.
Platon scrive “...il tenore di vita medio, persino dei
contadini, sembra fosse abbastanza alto ... nessuna delle case finora scoperte
suggerisce l’idea di condizioni di vita estremamente misere”. Certamente
Creta non aveva una ricchezza paragonabile a quella delle altre civiltà antiche
che erano certamente più ricche, ma aveva un sistema di ripartizione della
ricchezza più equo e moderno.
Intorno al 2.000 a.C. nel periodo chiamato Minoico Medio
(o periodo dei palazzi), il periodo in cui sorsero i grandi palazzi, si
sviluppò un’amministrazione governativa centralizzata, ma questo non portò la
società cretese ad adottare un governo autocratico, e non comportò nemmeno
l’uso delle tecnologie più avanzate ad esclusivo vantaggio di pochi. Al
contrario le entrate governative (provenienti dalla crescente ricchezza
dell’isola) furono destinate alla realizzazione di opere che oggi giudicheremmo
“moderne”, sistemi di approvvigionamento d’acqua, condutture idriche, latrine
domestiche in quasi tutte le abitazioni e poi strade, ricoveri e opere
pubbliche i cui vantaggi erano percepibili da tutti. Le differenze con l’Egitto
e l’Impero Babilonese sono molto marcate.
Il ruolo centrale
delle donne e il rapporto tra i sessi: nella cultura minoica le donne
avevano un ruolo molto importante in ogni ambito della sfera pubblica e
religiosa. Sono raffigurate spesso in posizione centrale sia negli affreschi
dei palazzi che in molte rappresentazioni artistiche, accanto alle immagini
della Dea come sacerdotesse. Vi era probabilmente una forma di discendenza
matrilineare. Anche quando Creta arrivò allo sviluppo tecnologico dell’Età del
Bronzo, ad una certa urbanizzazione e più complessa stratificazione sociale la
condizione delle donne non peggiorò.
Le donne avevano una posizione centrale nella vita
pubblica e vi era una discendenza matrilineare ma non si sviluppò alcuna forma
di matriarcato (il dominio delle donne sugli uomini, come il patriarcato è il
dominio degli uomini sulle donne); sostanzialmente nella società cretese non
era ideologizzato il criterio del dominio dell’uno sull’altro, vi era piuttosto
un modello mutuale, di reciproco riconoscimento, sostegno e collaborazione.
Il ruolo centrale del piacere per la vita e la
sessualità: nella cultura minoica ogni aspetto della vita che può dare
piacere e gioia era molto apprezzato. Le raffigurazioni artistiche di uomini e
donne nudi o in abiti succinti, con i genitali ben visibili e con gesti che
mostrano il bello del corpo, della sensualità, della sessualità e del piacere
che ne può derivare, dimostrano un atteggiamento libero, positivo verso il
piacere e la sessualità. Gli psicologi moderni mostrano come questo modo di vivere
la sessualità abbia potuto ridurre i livelli di aggressività e accrescere il
senso di riconoscimento reciproco tra uomini e donne. Il fatto che la divinità
fosse una figura femminile spesso raffigurata come una donna incinta o in
procinto di partorire è strettamente correlata a questa visione gioiosa e
positiva del corpo e della sessualità.
L’esercizio
fisico, lo spettacolo, la religione, l’amore per la vita: l’esercizio
fisico era praticato da uomini e donne alla pari ed era sempre improntato al
gioco e al divertimento. Lo spirito religioso spesso si intrecciava con le
attività del tempo libero rendendo spettacoli, giochi e danze, ricchi di
significato. Scrive Platon “ Musica,
canto e danza andavano ad aggiungersi ai piaceri della vita” e poi “C’erano
frequenti cerimonie pubbliche, soprattutto religiose, accompagnate da
processioni, banchetti, e dimostrazioni acrobatiche.” Lo studioso Higgins
riassume così l’intreccio tra religione, gioco e svago: “La religione per i
Cretesi era una faccenda lieta, veniva celebrata in palazzi-tempio o in
santuari all’aperto e in caverne sacre ... La religione era strettamente
collegata allo svago.
Le “taurocapzie”[3] erano spettacoli a
carattere ludico e religioso, erano giochi in cui giovani di entrambi i sessi
si esibivano facendo acrobazie, afferrando i tori per le corna e volteggiando
sulla loro schiena. In queste imprese c’era l’eccitazione per l’abilità dei
giovani, il salvarsi non aveva un carattere individuale ma collettivo.
La fine della Civiltà mutuale
Le civiltà dell’Antica Europa, che adoravano la Dea, che
vissero pacificamente per millenni con un lento e progressivo sviluppo in ogni
ambito, verso il V millennio a.C. cominciarono a subire una serie di bruschi e
violenti attacchi, che poi nel tempo determinarono uno shock culturale e un
arresto violento della loro evoluzione. Le scorribande di gruppi nomadi
provenienti dalle steppe eurasiche, inizialmente insignificanti poi divennero
vere e proprie invasioni violente e distruttive, sia sul piano materiale che culturale.
Con i recenti metodi di datazione è stato possibile individuare tre grandi
ondate di invasioni che gli esperti chiamano “invasioni kurganiche”:
·
la prima verso il 4.300-4.200 a.C;
·
la seconda verso il 3.400-3.200 a.C;
·
la terza tra il 3.000-2.800 a. C.
I Kurgan erano popolazioni che appartenevano al ceppo
linguistico che gli studiosi chiamano indoeuropeo anche se non erano
propriamente né indiani né europei; erano popolazioni nomadi provenienti dalle
steppe del nord dell’Asia e dell’Europa; avevano un’economia fondata
sull’allevamento nomade e sul pascolo, erano governati da sacerdoti-guerrieri;
adoravano dèi maschili, dèi della forza, della guerra, delle montagne, del
cielo tonante e delle folgori; avevano una struttura sociale autoritaria,
gerarchica, caratterizzata dal dominio
maschile. Secondo il loro sistema di valori, il massimo potere era
riconosciuto a chi aveva la capacità e il potere di togliere la vita
(anziché a chi aveva la capacità di dare e nutrire la vita come nelle civiltà
che adoravano la Dea)! Gli dei e i capi erano raffigurati con armi affilate,
nell’atto di uccidere, accanto al sangue versato delle loro vittime. Questo
sistema di valori è il presupposto culturale collegato al saccheggio, alla
razzia, alla guerra, all’asservimento prima e poi alla schiavitù, ai riti
religiosi di sacrificio, alla degradazione delle donne. Il ruolo delle donne,
fisicamente più piccole e meno forti, che si identificavano e si riflettevano
nell’immagine e nella cultura della Dea, fu drasticamente ridotto a quello di
consorti, concubine o schiave, in ogni caso subalterne.
Il potere di dominare e distruggere mediante la “spada”,
ossia la guerra, la violenza e il sistema di dominio e di asservimento produsse
non soltanto la sconfitta delle società mutuali dell’Antica Europa ma trasformò
radicalmente il sistema di valori delle popolazioni che sopravvissero:
moltissimi dei simboli di vita che prima erano associati al culto della Dea
furono presi, trasformati e utilizzati per affermare il nuovo sistema. Un
esempio: l’immagine dell’ascia che nella cultura della Dea era una
stilizzazione della farfalla, simbolo di trasformazione e della capacità della
natura di generare e rigenerare vita, fu ripreso e associato ai nuovi dèi
maschili come arma, simbolo di forza e potenza distruttrice.
Metallurgia e supremazia maschile: Engels fu
uno dei primi a collegare la comparsa delle gerarchie, della stratificazione
sociale e del dominio maschile sulle donne con lo sviluppo della metallurgia
intesa come la capacità di lavorare i metalli per la produzione di armi.
I nuovi metodi di datazione però hanno dimostrato che già
dal Neolitico, le civiltà dell’Antico Europa conoscevano la lavorazione di
alcuni metalli e la utilizzavano per produrre gioielli e attrezzi agricoli. Le
prove archeologiche portano a concludere che non è stata la metallurgia in sé
ma piuttosto il tipo di uso a determinare quella che Engels definì la “storica
sconfitta mondiale del sesso femminile”.
La fine di Creta: Creta è un’isola e il mare
per un po’ di tempo la protesse dalle invasioni delle orde guerriere; ma alla
fine il modello di società dominatrice sbarcò anche lì. Quando e come si
determinò la fine della cultura micenea è ancora oggetto di discussione e di
studi; l’ipotesi più accreditata è che l’invasione degli Achei seguì ad una
serie di enormi sconvolgimenti naturali, datati intorno al 1.450 a.C.;
terremoti, eruzioni vulcaniche e maremoti che indebolirono la popolazione di
Creta (sconvolgimenti narrati nella leggenda di Atlantide). Inizialmente gli
Achei sembrarono inserirsi nella società cretese, ci furono anche matrimoni tra
i re invasori e le regine cretesi, ma questo non riuscì a proteggere Creta da
ulteriori invasioni e dal sistema di valori fondato sulla violenza portato
dagli Achei. Di fronte alle invasioni le città-stato, non fortificate e non
abituate all’uso della guerra e delle armi, non riuscirono a difendersi
adeguatamente e intorno al 1200 a.C la civiltà minoica e fu spazzata via.
Riflessioni di Gisella
Nel Libro “Il calice e la spada”
si parla dei ritrovamenti di un’immensa varietà di immagini e statuette
femminili gravide o partorienti, e di simboli naturali, (uccelli, pesci,
serpenti, farfalle che simboleggiano la capacità di rigenerarsi e trasformarsi,
ecc) che, in base ad una nuova interpretazione, testimoniano la presenza del
culto della Grande Madre, una forza femminile a cui era riconosciuto il potere
di dare la vita e di presiedere ai cicli naturali di nascita, morte e
rinascita.
Questa è una delle
caratteristiche che, nel libro, vengono sottolineate per dire che all’origine
della storia umana, la donna rivestiva un ruolo positivo e paritario rispetto
all’uomo in una società fondata sul riconoscimento e il rispetto delle
differenze, sull’autonomia e la collaborazione.
Nei secoli vediamo invece,
soprattutto nel pensiero e nella società occidentale, affermarsi l’ordine
patriarcale che ha imprigionato l’identità della donna nell’immagine della
moglie e della madre votate alla cura e alla dedizione dell’altro, condannando
e rimuovendo ogni alto aspetto, stigmatizzato come aggressività, colpa,
distruttività.
Questa identificazione e questa
scissione prodotte dalle proiezioni maschili, permangono nella psiche delle
donne, spesso totalmente inconsce e riescono ad emergere, con sofferenza, nelle
terapie psicologiche e analitiche.
La conquista dell’identità delle
donne come capaci di porsi come soggetti autonomi e soggetti desideranti, per
molte, viene percepita non come un dato acquisito, ma come un percorso interno
da affermare ancora completamente rispetto a se stesse.
Alcuni psicologi, nei loro studi,
sostengono che è proprio della capacità riproduttiva che gli uomini si sono
voluti appropriare per poter “dominare” le donne e instaurare il “patriarcato”,
appropriare del potere di mettere al mondo figli e garantire così la
prosecuzione della specie, forza che, fin dai tempi antichi, è vissuta come
oscura e minacciosa.
Alcuni riti di iniziazione nelle
popolazioni primitive vengono interpretati in questo senso.
Per esempio un rito praticato
nell’isola di Ceram (Indonesia). I giovani maschi vengono introdotti a occhi
bendati, seguiti da genitori e parenti, in una casa nel cuore della foresta.
Appena in casa, si odono urla terribili e una spada stillante sangue viene
conficcata sul tetto della capanna, le madri urlano, convinte, che il diavolo
ha assassinato i loro figli e non sapranno mai cosa, in realtà, è successo.
Dopo alcuni giorni gli uomini, che avevano fatto da tutori ai ragazzi, tornano
al villaggio con la notizia che il diavolo ha ridato la vita ai giovani e
questi tornano facendo finta di non saper comunicare e di essere disorientati
come dei neonati. Tale rito viene interpretato come la simulazione della morte
e della rinascita, la capanna è l’utero in cui si nasce una seconda volta ma
non dal grembo materno, ma da questa alleanza tra uomini che si prendono, così,
beffe delle donne.
Anche i riti della circoncisione
e della subincisione (taglio praticato nel pene fino ad aprirlo in due metà)
vengono visti come un procurarsi, da parte maschile, una ferita con fuoriuscita
di sangue come il flusso mestruale, come, quindi, un riappropriarsi del potere
fecondante e non svirilizzarsi, anzi quasi un diventare un ermafrodito,
riunificando gli opposti.
Se pensiamo invece ai riti di
iniziazione delle donne, (pensiamo alla
clitoridectomia, all’infibulazione, ecc..) questi esprimono la violenza
dell’uomo che mira a togliere loro qualcosa che esse possiedono e le rende
simili all’uomo.
Non parliamo poi delle
mestruazioni, viste come un tabù; le donne erano ritenute impure, preda di uno
spirito maligno, pericolose e quindi segregate, perché il ciclo era il segno
della loro capacità riproduttiva. Oggi ci siamo liberate del tabù delle
mestruazioni, ma il fatto che molte donne, durante il ciclo, presentino difficoltà
fisiche e psicologiche può forse dipendere dal fatto che i contenuti psichici
che venivano proiettati nel tabù agiscono ancora a livello inconscio.
Quindi, fin dai tempi più
antichi, l’uomo, attraverso miti e riti, ha voluto appropriarsi del potere fecondante
femminile, da cui la donna è stata depotenziata, tanto è vero che anche la
decisione della sua maternità spettava all’uomo, ma al tempo stesso l’ha
imprigionato nell’identità di moglie e madre.
Ma la commercializzazione dei
metodi contraccettivi e la legalizzazione dell’aborto ridanno in pieno il
“potere” alle donne: la sessualità femminile diventa indipendente dalla
procreazione e dalla maternità e si capovolgono i ruoli uomo/donna, ora è la
donna che sceglie se avere o no un figlio da un determinato uomo, la maternità
diventa una libera scelta, come pure la paternità ora dipende dalla libera
scelta della donna.
Faccio un accenno solo a tutte le
nuove tecniche di procreazione: può trattarsi del “vecchio” progetto maschile
di controllo totale della filiazione, di riappropriazione della fecondità
attraverso “un rituale scientifico”?
Studi recenti di analiste e
filosofe donne stanno rileggendo i riti e i miti dal punto di vista della
differenza di genere che è capace di smontare certezze consolidate, di
rovesciare prospettive e modi di vedere, rivelare verità rimosse perché
sgradite.
Per esempio Maria Cristina Barducci (“Il velo
e il coltello”) rivisita alcune figure femminili della Bibbia: Tamar, scelta da Giuda, figlio di Giacobbe,
come moglie prima del figlio Er, che muore senza eredi, poi del figlio Onan,
che muore anche lui, stanca di aspettare, indossa il velo della prostituta e,
con l’inganno, non essendo riconosciuta,
giace con il suocero dando alla luce dei figli, viene vista non come una
donna che lotta per il diritto alla maternità, ma come capace di aderire ai
propri desideri con un gesto di rottura delle norme vigenti in nome della
“passione per se stessa”.
Giuditta libera il suo
popolo di Israele affermandosi come colei che rifiuta sia la brama di potere di
Oloferne, sia la rassegnazione dei propri cittadini.
Penelope tesse nella tela
le imprese dello sposo Ulisse, per affermare la sua fedeltà, ma attraverso la
propria identità di soggetto erotico e desiderante.
Medea, nella versione
classica, uccide i propri figli, perché si ribella alla scelta di Giasone di
sposare Creusa per brama di potere e lo vuole punire, non per l’abbandono, ma
perché ha tradito la loro relazione, cioè ha negato lei stessa come soggetto
d’amore.
Elena Pulcini, filosofa,
propone, (“La cura del mondo”) in altri termini, quanto espresso da
Riane Eisler. Dice che va valorizzata l’eredità simbolica che vede la donna
come soggetto relazionale incline alla cura e capace di empatia, ma va rivista
l’idea di soggettività, che non può essere quella che conosciamo e viviamo
nell’attuale mondo occidentale che porta all’individualismo, all’indifferenza
l’uno per l’altro, alla mancanza di solidarietà per poter emergere, ciascuno di
noi, con il proprio narcisismo. Va pensata una soggettività aperta all’altro,
alle contaminazioni dell’altro e la relazione non può essere vissuta secondo il
modello materno come totale dedizione e oblatività, ma come “passione per
l’altro”. La prima fedeltà è a se stessi,
ai propri desideri che si aprono all’altro come a quella parte che ci manca,
non come a colui a cui dobbiamo le nostre cure o il nostro sacrificio, ma come
ad un soggetto che ci mobilita emotivamente, non in un percorso semplice e
lineare, ma sempre contraddittorio, perché l’altro è colui che ci attrae, ma
anche ci respinge, ci seduce, ma ci sfida,
processo in cui le due identità si mettono in gioco per la costruzione
di un soggetto relazionale che vede il mondo come una “comunità”.
Un’ultima annotazione. Enzo
Mazzi nel suo libro “Il valore dell’eresia” nel
paragrafo “L’eresia della convivialità nella cultura ancestrale” riprende
ampiamente l’analisi di Riane Eisler e conclude dicendo:
“La speranza nella fine della
cultura di guerra e nell’instaurazione di un’era di pace non è un sogno di
anime belle prive di senso di realtà. Il sogno del profeta biblico Isaia e di
tanti profeti disseminati nella storia di tutti i popoli può essere visto come
il realismo più razionale perché è declinabile al passato in quanto già in
qualche modo sperimentato fin dall’origine dell’umanità:
Il lupo dimorerà presso l’agnello
e la tigre si accovaccerà accanto
al capretto,
il vitello e il leone
pascoleranno insieme
e un bimbo piccolo li condurrà
per mano.
La mucca e l’orsa staranno
insieme al pascolo
e i loro piccoli si sdraieranno
insieme
e il leone come il bue mangerà
l’erba.
Un bambino lattante giocherà sul
covo dell’aspide
e un bambino appena svezzato
stenderà la sua mano nella tana
della vipera…
Non si farà più del male né si
compierà più strage”.
La
Poudrière dell'utopia
di
Angelo Mastrandrea – BRUXELLES
da
Il Manifesto 6 ottobre 2012
Una
comunità che abolisce proprietà privata e individualismo. In una ex
polveriera occupata nel cuore del «coin du diable», nell'ex polo industriale di
Bruxelles a un passo dalle istituzioni europee
Esiste un luogo, oggi in Europa, in cui la proprietà privata è abolita ed è messa al bando ogni forma di individualismo. È un'oasi di resistenza al neoliberismo, un laboratorio di pratiche sociali alternative, un esperimento radicale di vita comunitaria, una zona temporaneamente liberata dal capitalismo, come l'avrebbe definita il teorico americano Hakim Bey, dove gli abitanti come giapponesi nella foresta non si sono finora accorti della crisi che sta sconvolgendo l'Europa, o meglio il suo modello economico.
Chi pensa che stiamo esagerando,
è scettico, dubbioso e vuole toccare con mano, deve solo fare lo sforzo di
spostarsi fino a Bruxelles e, una volta arrivato a destinazione, spostarsi dal
centro turistico e dalla Grand Place verso il quartiere dove sorgono gli
edifici più antichi della città, fin quasi al ponte che separa il cuore della
capitale del Belgio, geograficamente ma anche socialmente ed economicamente,
dal melting pot di Molenbeek e, un po' più a sud, di Anderlecht. Volendo, può
chiedere ospitalità e un letto agli occupanti della Poudrière, l'antica
polveriera oggi considerata monumento nazionale e diventata la quinta teatrale
di un esperimento sociale che Riccardo Petrella, intellettuale di punta del
movimento altermondialista e vecchia conoscenza dei lettori del manifesto, con
entusiasmo neppure celato non esita a definire un «modello di comunismo
realizzato», all'infuori del socialismo reale e a un passo dalle principali
istituzioni europee.
Petrella da queste parti è di
casa, non solo perché vive a Bruxelles, da anni ed è professore emerito
all'università di Lovanio. In questo quadrilatero di stradine denominato le
coin du diable, l'angolo del diavolo, in virtù di una leggenda risalente al
XVII secolo e riguardante la costruzione del ponte che porta dall'altra parte
della Senna, il professore ha sistemato un ufficio della sua Università del
bene comune (con le facoltà dell'acqua, dell'alterità, della creatività, della
mondialità) e ogni anno conferisce un dottorato honoris causa in Utopia
a chi, singolo o collettivo, ritiene doveroso premiare per la sua visionarietà.
Questo è il terzo anno in cui il riconoscimento verrà assegnato e, dopo
l'avvocato calabrese Domenico Vestito, premiato per aver scelto di tornare a
esercitare la professione nel paese d'origine, Locri, e per aver messo a
disposizione di tutti le proprie competenze professionali, e dopo, noblesse
oblige, la Poudrière, quest'anno la borsa di studio andrà a una comunità
colombiana.
Comune? No, comunità
Non è
una comune, la Poudrière, e nemmeno un condominio o un centro sociale occupato
come quelli che conosciamo in Italia. È una comunità che, partendo da
un'originaria spinta religiosa e dall'impulso di un gruppetto di preti operai,
nel tempo si è trasformata in un progetto collettivo e socialisteggiante. Tutto
cominciò nel 1958, quando le numerose fabbriche costruite intorno ai canali che
avevano fatto meritare a quell'area la definizione di «piccola Manchester»,
presero a chiudere una dietro l'altra e il quartiere divenne un piccolo
cimitero industriale, con un tasso di povertà dickensiano. Fu per questo che
quel pugno di missionari, guidati da padre Léon Van Hoorde, un uomo che ancora
oggi, a quindici anni dalla morte, è ricordato come fondatore e leader carismatico,
occupò la fabbrica dismessa, formando da subito una piccola comunità aperta al
quartiere. Fu con il '68 che l'originario spirito
missionario si contaminò definitivamente con istanze laiche, senza che
venissero però stravolti i suoi principi fondativi: presenza nella società
senza adottare il suo stile di vita; amicizia; giustizia ed eguaglianza
sociale; utopia nel cercare di costruire un mondo nuovo; crescita personale.
Obiettivi da raggiungere attraverso il lavoro, la condivisione, uno stile di vita
sobrio, l'aiuto reciproco tra i membri della comunità.
Chi entrava nella Poudrière doveva mettere in comune i propri redditi, «non il patrimonio» però, «per evitare di trasformarci in una setta», spiega Giovanni Morocutti, per tutti Vanni, che arrivò qui dalle Alpi friulane nel 1969 e che oggi è considerato un «saggio» della comunità, vero e proprio leader dopo la morte del fondatore padre Léon. Con il tempo, anche le case di fronte alla ex polveriera cominciarono a essere occupate, un edificio fu adibito a granaio e molti dei vecchi abitanti del quartiere, in segno di gratitudine, presero a lasciare le loro abitazioni in eredità alla Poudrière o a venderle loro a prezzi più che ridotti. Il risultato oggi, a 54 anni dall'occupazione, è che praticamente tutte le case che affacciano su rue de la Poudrière e alcune di quelle sulla tangenziale rue des Fabriques sono abitate da esponenti della comunità.
Tra immigrati e
«gentrification»
Anche se in tutta l'area è ben visibile quella che gli
americani chiamerebbero gentrification, vale a dire la risistemazione
innanzitutto urbanistica del quartiere al prezzo di un aumento del valore degli
immobili e della progressiva espulsione dei ceti più poveri, che va di pari
passo con la riconversione delle ex industrie abbandonate e la sistemazione dei
ponti sul canale, il resto del coin du diable è ancora oggi in larga parte
abitato da immigrati, in stragrande maggioranza nordafricani. Sono quelli che
vediamo affollarsi nel mercato della Poudrière per acquistare gli oggetti usati
ma rimessi a nuovo dagli occupanti o i prodotti delle fattorie che la comunità
ha fondato a Rummen, nelle Fiandre, e che garantiscono loro l'autosufficienza
alimentare. È aperto tre pomeriggi a settimana e, anche in questo senza timore
di esagerare, possiamo garantire che con cifre che si discostano poco dal
centinaio di euro si riesce ad arredare una casa intera.
Un altro mercato, più grande, è
stato aperto in un ex cementificio a Peruwelz, alla frontiera con la Francia, e
tutto ciò, grazie all'arte del riciclo e nonostante i prezzi a dir poco
competitivi, ha fatto della Poudrière una comunità che tutto sommato riesce a
vivere bene, con una gran cura di tutto ciò che è collettivo. Agiata ma ispirata alla sobrietà, e soprattutto con un
principio: chi ne fa parte deve lavorare, in base alle proprie capacità, e i
frutti del proprio lavoro devono essere messi in comune. «Noi non facciamo
assistenza», ci tengono a precisare, «chi
chiede di venire fra noi deve contribuire con il suo lavoro in base alle sue
possibilità e gli sarà dato a seconda dei suoi bisogni». A decidere, con il
metodo della democrazia consensuale, faticoso per loro stessa ammissione perché
basta un solo veto a produrre ulteriori discussioni e slittamenti, è l'intera
comunità: un'assemblea mensile, denominata «riunione spaghetti», è destinata
alle decisioni più importanti, poi ci sono quelle settimanali o quotidiane per
le cose minori. L'argent de poche, una
sorta di mini salario di 25 euro a persona ogni settimana, serve invece per le
piccole spese, che non necessitano di un'assemblea per essere decise. Al resto
provvede la comunità, in base a un'analisi dei bisogni: cosa comprare? Il
richiedente ne ha davvero necessità? Il consumismo non abita certo qui. Non che
tutto sia totalitariamente collettivo: gli spazi personali sono garantiti, a
cominciare dalla casa, l'importante è che vengano rispettate le regole della
vita comunitaria.
Il pastore e la giovane infermiera
Gli abitanti della Poudrière,
oltre al mercatino, svolgono un'attività ormai consolidata di traslocatori.
«All'inizio non chiedevamo soldi ma ad ognuno di darci quello che poteva. Poi
ci siamo accorti che i più ricchi spesso erano quelli che pagavano meno e così
siamo stati costretti a mettere delle tariffe, variabili a seconda del
committente. Per i più poveri traslochiamo gratis», dicono. La maggior parte di
loro lavora nelle attività della «polveriera», alcuni invece hanno un lavoro
esterno e versano il reddito alla comunità.
Gli utili vengono utilizzati per
le necessità degli abitanti, reinvestiti nelle attività o utilizzati per
finanziare azioni di solidarietà o la rete di Emmaus, l'associazione francese
contro la povertà fondata dall'Abbè Pierre della quale fanno parte. Tra i
sessanta membri effettivi che la comunità attualmente può contare (ma sono
arrivati fino a 150 negli anni '90) ci sono oggi un pastore protestante, una
ragazza, Marise, che rappresenta ormai la terza generazione, quella dei nipoti
dei primi occupanti, e che lavora all'ospedale come infermiera, alcuni immigrati
musulmani, persone in difficoltà economiche o senza casa che vengono ospitate
temporaneamente, ma anche chi ha deciso di sperimentare un modello di vita
alternativo, come il friulano Vanni. Lui, che in Italia lavorava per una ditta
di spedizioni, per trent'anni ha montato tensostrutture in Belgio e condiviso i
proventi della sua attività con i compagni della Poudrière. Voleva andare a
Cuba per vivere la revoluciòn, si è invece fermato a Bruxelles. «Sono venuto
per una decina di giorni nel '69 in attesa del visto cubano, in seguito ho
chiesto di tornare perché affascinato dalla radicalità di questo laboratorio di
vita comunitaria, più umana, che non esclude nessuno e dove l'individualismo
non ha diritto di esistere», dice. Alla Poudrière ha incontrato la donna della
sua vita, una studentessa che come lui era ospite per provare a vedere come si
viveva senza essere proprietari individualmente delle proprie cose. Era l'epoca
della trasformazione da comunità religiosa a laica, e così quando i due annunciarono
di volere sposarsi, ma solo in forma civile, ci fu una lunga discussione in cui
alla fine la loro volontà fu accettata. Oggi alla Poudrière la maggioranza non
ha più molto a che vedere con la religione, ma rimane una «spiritualità
comunitaria» fusa in un originale impasto con un socialismo autogestionario e
antistatalista («dal governo non vogliamo nulla, né sussidi di disoccupazione
né pensioni minime») e con un anticapitalismo radicale.
Marx e la demonologia
A Bruxelles ci si chiede da un
secolo e mezzo quanto il fatto che Karl Marx abbia vissuto qui per tre anni,
tra il 1845 e il 1848, e vi abbia scritto il Manifesto del partito comunista,
possa avere influenzato la società e la politica belga. O, al contrario, quanto
il Belgio, che per la sua politica «liberale» nel diciannovesimo secolo divenne
rifugio di tanti intellettuali (non solo il barbuto di Treviri, ma pure Victor
Hugo e Charles Baudelaire, tanto per fare un esempio) abbia influenzato
l'estensione del Manifesto, e quanto abbia influito sul pensiero marxiano la
visione del proletariato in quell'area industriale dove qualche anno prima, tra
il 1830 e il 1837, aveva soggiornato un celebre demonologo, Jacques Collins de
Plancy, che non aveva scritto alcun proclama politico né elaborato teorie rivoluzionarie
ma pubblicato un Dizionario infernale in cui raccontava la leggenda della
costruzione del ponte che avrebbe collegato finalmente le due sponde del
canale. La prima pietra, secondo il demonologo, fu opera del diavolo, da qui il
nomignolo del quartiere. Poi arrivò Marx il quale, considerando la religione, e
figuriamoci la demonologia, «l'oppio dei popoli», fece altro. Non avrebbe
potuto immaginare che centocinquant'anni dopo tutto sarebbe cambiato ma proprio
lì, in quel quadrilatero di stradine oggi affollato di immigrati nordafricani,
sarebbe rimasto un piccolo germoglio di quello che aveva seminato.
[1] Il Paleolitico
(dal greco significa “età della pietra antica”) è quel lunghissimo periodo
della preistoria che va da 2,5 milioni a 10 mila anni fa. Con questo
termine, nell’accezione classica, si indica il lungo tempo in cui l’umanità ha
imparato/inventato la lavorazione della pietra con la tecnica della
scheggiatura per creare utensili, armi e strumenti; ed ha imparato a usare il
fuoco per cuocere il cibo, proteggersi dalle belve feroci e riscaldarsi.
[2] Il Neolitico (dal greco “età della pietra
nuova”) è quel periodo della preistoria (10.000 - 5000 a.C) nel quale la
specie umana diventa più sedentaria, e impara/inventa l’agricoltura,
l’addomesticamento di molti animali, la ceramica, la lavorazione della pietra con la tecnica della
levigatura e molto altro.
[3] NB informazioni non presenti nel libro ma
fornitemi dalla guida del Palazzo di Crosso quest’estate: il palazzo di Crosso
era anche chiamato “palazzo della doppia ascia o ascia bipenne” (la doppia
ascia era la stilizzazione della farfalla uno degli antichi simboli della Dea
Madre) per la loro frequente presenza nelle stanze del palazzo. Doppia ascia si
diceva (labris); quindi labirinto significa “palazzo dei labris” e non
significa labirinto, luogo dove senza guida ci si perde e si muore. Il mito di
Teseo e del Minotauro secondo la visione cretese trova questa spiegazione: al
tempo dell’arrivo dei greci nei Palazzi, i cretesi invitavano/sfidavano gli ospiti greci nelle taurocaptie, i giovani
greci meno abili morivano. Così i viaggiatori greci quando tornavano
elaboravono racconti terribili di “minotauri” sanguinari, per giustificare la
morte dei giovani greci.
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