Comunità dell’Isolotto -
Firenze, domenica 23 febbraio 2014
Incontro con
la cooperativa Lavoro e non solo di Corleone
riflessioni di Carlo,
Claudia, Gisella, Luisella, Maurizio
con Franca Bonichi e Paolo
Adomi, Maurizio Pascucci (a distanza)
e Sofia, Monica e Paola
(volontarie nei campi di lavoro)
1. Letture dal
Vangelo e non solo
2. Notizie
sulla Cooperativa Lavoro e non solo di Corleone
3.
Riflessioni di Pietro Grasso sui rapporti tra Chiesa e Mafia
4. Sulla
beatificazione di don Puglisi
Appendice: scheda
su Libera
1a. Letture
dal Vangelo di Matteo
Espose loro un’altra parabola,
dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme
nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della
zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece
frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e
gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove
viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i
servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non
succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano.
Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento
della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in
fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”».
Espose loro un’altra parabola,
dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo
prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una
volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero,
tanto che gli uccelli del cielo
vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei
cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di
farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con
parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si
compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
Aprirò
la mia bocca con parabole, proclamerò
cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. [Matteo,
13, 24-35]
1.b Lettura da una antica favola africana
Nella foresta scoppiò un grande incendio e tutti
gli animali cominciarono a fuggire in direzione opposte alle fiamme.
Solo un colibrì, con una goccia d’acqua nel becco,
volava verso il fuoco.
Il leone lo vide e gli disse: “Cosa stai facendo, sei
impazzito, non hai visto l’incendio?”.
Ma il colibrì rispose: “Sto andando a fare la mia
parte”.
1.c da Paolo Borsellino
Non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se
siete stati credibili.
Ci piace proporre la interpretazione di padre Alberto Maggi della
parabola del granello di senape : “… in questa parabola Gesù prende le distanze
dalla idea grandiosa del Regno di Dio che era stata descritta dai profeti, in
particolare Ezechiele: questi immaginava un altissimo monte e sopra a questo un
altissimo albero di cedro, la pianta più bella, l’albero chiamato il re degli
alberi, quindi qualcosa che anche da lontano attira l’attenzione.
Ebbene, Gesù prende le distanze da tutto questo e paragona il
regno di Dio ad un chicco di senape, un elemento piccolo, quasi microscopico.
Gesù poi afferma che la pianta che cresce dal chicco di senape si sviluppa
nell’orto di casa (e non su un alto monte); è una pianta comune, di modeste
dimensioni, che non attira l’attenzione degli uomini per la sua magnificenza.
Ma essendo questi semi piccolissimi, il vento li trascina dovunque ed essendo
una pianta infestante, che quindi attecchisce in ogni terreno, la pianta si
diffonde dappertutto…”
2. Notizie sulla Cooperativa
Lavoro e non solo di Corleone
(dal sito www.lavoroenonsolo.it)
La Cooperativa Lavoro
e Non Solo, nata da un progetto di Arci Sicilia e partner di
Libera, gestisce dal 2000 un’azienda agricola che coltiva terreni
confiscati a Cosa Nostra tra Corleone, Monreale e Canicattì. L’attività
agricola, condotta interamente secondo i metodi dell’agricoltura biologica, va
di pari passo con l’impegno nell’inserimento lavorativo di persone con problemi
di salute mentale.
La storia: alla fine degli anni 80,
nell’ambito di un complesso percorso di rinnovamento con cui Arci Sicilia
mirava a porsi come soggetto politico di un cambiamento possibile, si faceva
strada anche l’idea di dare vita a imprese sociali capaci di dare lavoro e
sviluppo tenendo fede ai principi etici e di inclusione sociale ai quali l’Arci
era da sempre legata. Tra le imprese sociali nate da quell’impegno c’è anche la
Cooperativa Lavoro e Non Solo che
viene costituita nel 1998 a
Canicattì, grazie alla collaborazione tra il comitato Arci cittadino e il
locale Dipartimento di Salute Mentale.
Le attività prendono avvio quando
nel 1999, Pippo Cipriani, sindaco di Corleone, annuncia l’intenzione di assegnare
un terreno di 10 ettari
confiscato a Giovanni Marino, nipote di Luciano Liggio, uno dei boss più
potenti di Cosa Nostra, colpevole tra l’altro dell’omicidio del sindacalista
Placido Rizzotto.
In seguito al rifiuto di un’altra
cooperativa, le terre vennero date in gestione alla Cooperativa Lavoro e Non
Solo che decise di coltivarle a grano. Nel frattempo si instaurarono contatti
col Dipartimento di Salute Mentale di Corleone che assegnò i primi casi di
inserimento lavorativo, che tutt’ora rappresentano il tratto peculiare della
cooperativa.
Negli anni successivi la
Cooperativa ebbe in gestione altri terreni a Corleone (2002), confiscati a Lo
Iacono, mafioso di Partinico, e terre sottratte nel territorio di
Monreale (2004) ai Grizzaffi, famiglia mafiosa corleonese. Dal 2004 si
aggiungono anche le terre nel territorio di Canicattì che oggi ospitano vigneti
e altre colture.
Oggi la
Cooperativa gestisce 58
ettari a Corleone, 72 ettari a Morreale, 19 ettari di Canicattì,
un laboratorio di lavorazione dei legumi e la vecchia casa della famiglia
Grizzaffi, oggi Casa Caponnetto, dove ogni estate dal 2008, alloggiano
centinaia di giovani volontari del progetto
LiberArci dalle Spine che scelgono di affiancare la Cooperativa nel lavoro agricolo
e di prendere posizione contro la mafia.
Le persone: la
Cooperativa Lavoro e Non Solo è costituita da 13 soci, di cui 8 soci
fondatori (Calogero Parisi, Salvatore Ferrara, Franco Ferrara, Bernardo
Cancemi, Franco Ancona, Mario Maniscalco, Luigi Madonia e Francesco
Caizone) e da 5 soci sovventori (Arci Sicilia, Compagnia Portuale
di Livorno, Unicoop Tirreno, Arci Empolese Valdese, Maurizio Pascucci). Tra i
soci fondatori, tra cui figurano commercialisti, operai agricoli specializzati
e operatori sociali, rientrano anche alcuni “svantaggiati”: entrati nel
gruppo di lavoro come utenti, oggi sono protagonisti della vita cooperativa a
tutti gli effetti. La Cooperativa si avvale di collaboratori e dipendenti e
continua ad ospitare per periodi più o meno lunghi anche persone in borsa
lavoro in convenzione con i Servizi Sociali.
Se non sei un po’ matto non puoi lavorare qui …: La Cooperativa
Lavoro e Non Solo è conosciuta a Corleone anche come la cooperativa dei
pazzi, sia perché – come dicono i soci stessi – ”Se non sei un po’ matto,
non puoi lavorare qui”, sia perché il tratto distintivo della sua attività è da
sempre l’inserimento socio lavorativo di
persone con disagio psichico.
L’attenzione per il mondo della salute mentale e la volontà di spendersi
in progetti di inclusione socio-lavorativa per chi soffre di un disagio
psichico è sempre stata centrale nella storia di Arci, e in Sicilia le
battaglie per la chiusura dei manicomi hanno avuto un valore forse ancora più
profondo che altrove. Quello di Palermo fu l’ultimo ospedale psichiatrico a
essere chiuso nel 1996 e in Sicilia la cura e l’istituzionalizzazione
del disagio psichico costituivano un giro d’affari senza eguali nel resto del
Paese.
La Cooperativa Lavoro e Non Solo
iniziò a coinvolgere lavoratori segnalati dai Servizi sin dall’inizio della sua
attività, facendosi carico dei loro bisogni e degli oneri connessi al loro
percorso a volte anche al di là del sostegno ricevuto dalle istituzioni stesse.
Il successo dei progetti di inserimento portati avanti sta nelle vite stesse
dei soci. Alcuni di loro sono entrati in Cooperativa come “utenti”, ma
grazie ad un continuo coinvolgimento nel gruppo e nelle attività della
Cooperativa, sono riusciti a riscattarsi dal proprio stato di esclusione, hanno
trovato una propria dimensione lavorativa e sociale e conducono oggi una vita
autonoma, inseriti in una rete di relazioni e di impegno
sociale molto ampia.
A proposito dei progetti di
inserimento lavorativo condotti finora, Carmelo Gagliano, dirigente medico del
DSM responsabile delle attività riabilitative fino al 2009, parla di
“doppio traguardo”: “Chi affronta un
percorso di inserimento in questa Cooperativa, può trovare una dimensione
socio lavorativa autonoma, prerogativa da non dare per scontata nel panorama
delle proposte in ambito di riabilitazione psichiatrica, ma può aspirare a ben
altro. Nel tempo passato qui si impara a guardare in modo critico la realtà, si
impara a scegliere, e lo si fa all’interno di un gruppo di soci e inseriti
nella rete ben più ampia dei volontari dei campi di lavoro che vengono da tutta
Italia. Ci si emancipa, non solo dal disagio, ma anche dalla subcultura legata
alle logiche mafiose, dando impulso ad un cambiamento”.
Le coltivazioni e la scelta del biologico:
nei terreni confiscati alle mafie assegnati alla Cooperativa Lavoro e Non Solo
vengono coltivati grano, ceci, lenticchie, pomodori, uva, mandorle. Vi
sono oliveti e vigneti. Si coltiva seguendo i principi e ai metodi dell’agricoltura
biologica. Questa scelta ha un valore ecologico e ambientale:
- da un punto di vista strettamente ecologico l’agricoltura biologica non ha impatti nocivi sul terreno, lo mantiene produttivo e fertile anche a lungo termine, senza snaturarlo, garantendo la produzione di prodotti sani, naturali, che fanno bene a chi li consuma.
- da un punto di vista simbolico poi, coltivare le terre confiscate in modo biologico significa metaforicamente e concretamente “depurarle” dai veleni della chimica e dell’illegalità.
Casa Caponnetto : Casa
Antonino Caponnetto, era un tempo la casa della famiglia Grizzaffi, nipoti di
Riina. Dal 2008, dopo alcuni anni dal provvedimento di confisca, è stata
assegnata alla Cooperativa Lavoro e Non Solo. La Casa è la base per i
volontari impegnati nei campi di lavoro. A piano terra ci sono cucina,
postazioni di lavoro e tavolo da pranzo, nelle stanze dei due piani superiori
alloggiano i volontari.
La Casa in questi anni è cambiata molto, le pareti delle
stanze sono state dipinte di colori sgargianti, sono state collocate decine di
letti a castello, ristrutturati i bagni e arredatala cucina e i locali, e i
lavori di sistemazione proseguono. Si vuole far sì che i volontari che arrivano
per partecipare ai campi di lavoro abbiano tutto il necessario per sentirsi a
casa.
Prossimamente l'immobile avrà il riconoscimento formale di
Ostello.
Contatti:
Presidente: calogero@lavoroenonsolo.org
Informazioni: info@lavoroenonsolo.org
intervento (a distanza) di Maurizio Pascucci –
ARCI Firenze
Carissimi, e amiche e amici,
purtroppo domani mattina non potrò essere con voi.
Ci saranno un bel gruppo di giovani volontari.
Ragazze e ragazzi che dopo avere effettuato i campi
antimafie Liberarci dalle Spine a Corleone hanno deciso di continuare il loro
impegno costituendosi in un gruppo di studio sull’infiltrazione mafiosa in
Toscana.
Mi trovo a Corleone a organizzare non solo i campi
antimafie 2014 ma anche una strategia di contrasto al saccheggio agricolo che
fa si che i pomodori siano pagati 0,20 al kg , i meloni gialli a 0,14
al kg e i fichi d’india a 0,40 al kg.
Non è solo mafia ma anche la complicità di un
imprenditoria selvaggia del centro nord.
Siamo alla vigilia della decima edizione di Liberarci
dalle Spine.
Incontri come quello da voi organizzato sono per noi
importantissimi e di grande vitalità.
Pensiamo ad una disponibilità di volontari frutto di
riflessioni sull’importanza dell’impegno sociale.
Lì a Corleone si fa Resistenza Popolare, giorno dopo
giorno, a testa alta e con la schiena dritta.
Il vostro impegno attuale, la vostra storia è frutto
degli stessi percorsi;
dove la verità, senza ipocrisia e falsità, è difficile
da dire.
Io devo molto a Enzo Mazzi.
Lo ricordo nei giorni del Social Forum Europeo quando
con la sua pacatezza mi convinse che si doveva stampare e diffondere una
pubblicazione per ricordare le lotte operaie fiorentine.
Poi nel Natale successivo mi chiamo a testimoniare
l’impegno antimafie a Corleone.
Conservo ancora una sua email dove mi incoraggiava ad
andare avanti anche nei momenti difficili.
In più occasioni ho utilizzato il suo incoraggiamento.
Vi saluto dalla Capitale Mafiosa, ma oramai Corleone
si è avviato verso il cambiamento; questo percorso potrà pur essere rallentato
ma la sua direzione è definita.
Pensate che insieme all’impegno antimafie della
Cooperativa Lavoro e Non Solo si aggiungono le attività scolastiche e la
nascita dell’Associazione Produttori Fior di Corleone.
Produttori uniti tra di loro per manifestare la loro
onestà e il valore del lavoro.
Un abbraccio e tante scuse per l’assenza,
un saluto
Maurizio Pascucci
coordinatore
del progetto Liberarci dalle spine
3. Riflessioni di Pietro Grasso sui rapporti tra Chiesa
e Mafia
(Pietro
Grasso è stato il Procuratore Nazionale
Antimafia e oggi è Presidente del Senato)
da “Liberi
Tutti. Lettera a un ragazzo che non vuole morire di mafia”
[…] Non v’è dubbio che il
riconoscimento sociale di volgari assassini come persone di rispetto, di
giustizia, d’onore si sia basato, in passato (tranne per alcune eccezioni …)
sulla legittimazione concessa da una Chiesa che, rimasta in silenzio, ha
rinunciato a denunciare la violenza della mafia, anche se l’insegnamento di
Cristo ripudia la violenza.
Sostenere la dottrina del perdono
senza limiti non ha forse finito per favorire la persistenza del fenomeno
mafioso?
Perché la Chiesa ha rinunciato
alla sua secolare funzione di indirizzo etico, celebrando per i mafiosi e le
loro famiglie battesimi, cresime, matrimoni e funerali in pompa magna?
Perché non ha usato nei loro
confronti l’esecrazione aperta, la scomunica, l’emarginazione dalla comunità di
fedeli, quando invece rifiuta i sacramenti ai divorziati e ai suicidi, e
contrasta i sostenitori dell’aborto e del’eutanasia on nome di un diritto alla
vita che viene quotidianamente calpestato dagli stessi mafiosi?
E’ legittimo per la Chiesa
rifiutarsi di prendere posizione sulla questione mafiosa, trattandola come un
problema di stretta competenza dello Stato?
Del resto, perché un parroco
dovrebbe denunciare pubblicamente i mafiosi se sono i massimi benefattori della
parrocchia, impediscono i furti di opere d’arte o di arredi sacri (..) e
organizzano …i festeggiamenti per il Santo Patrono, raccogliendo fondi per la
processione, le luminarie, i fuochi d’artificio e talvolta anche per le loro
tasche? […]
Il mafioso garantisce l’ordinato
esercizio del culto e in cambio riceve legittimazione.
Perché la Chiesa non ha mai
scagliato anatemi contro il simbolismo religioso dei riti d’iniziazione, nei
quali, oltre all’uso strumentale dell’immagine sacra, si crea una singolare
analogia con il battesimo, celebrato alla presenza di un padrino, con tanto di
sangue purificatore e fuoco che distrugge, a rappresentare la rinascita
dell’affiliando nell’organizzazione?
[…]
E’ con il cardinale Pappalardo che
comincia la denuncia ferma, aperta, della violenza mafiosa; è con lui che la
Chiesa siciliana acquista quella dignità che in passato era stata mortificata
da un atteggiamento di “complice prudenza”. La sua presa di posizione suonò per
la comunità religiosa palermitana come una novità dirompente.
Da qualche anno, dagli omicidi di
Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile,
Gaetano Costa, Pio La Torre, sino a Carlo Alberto Dalla Chiesa, era emersa
l’intensità del momento storico, con una mafia che non esitava a colpire, con
attentati cruenti, personalità dello Stato di altissimo livello che osavano
contrastarla.
Il cardinale aveva levato senza
timori la sua voce nel 1979 ai funerali di Giuliano; due anni dopo mentre
infuriava la guerra di mafia … celebrò una funzione nella Cattedrale, poi
definita “messa antimafia” in cui si rivolse direttamente ai mafiosi, dicendo:
“Il profitto che deriva dall’omicidio è
maledetto da Dio e dagli uomini e quand’anche riusciste a sfuggire alla
giustizia degli uomini, non riuscirete a sfuggire a quella di Dio”.
Il 4 settembre dal pulpito della
chiesa di San Domenico, il cardinale fece impallidire i più importanti uomini
politici siciliani e d’Italia, che assistevano nelle prime file alla messa
funebre del prefetto Dalla Chiesa. “La
mafia”, disse il cardinale, “è un
demone dell’odio, l’incarnazione stessa di Satana. Si sta sviluppando una
catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così
lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla
sicurezza e al bene di tutti, quanto mai decise, invece, tempestive e scattanti
sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti a colpire. Sovviene e
si può applicare una nota frase della letturatura latina: Dum Romae consulitur,
Saguntum expugnatur: mentre a Roma ci si consulta, la città di Sagunto viene
espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?”.
[…] dal fondo della chiesa, dove sedeva la gente comune, esplose un fragoroso
applauso […]
L’omelia di Sagunto segnò una
grande svolta nella storia della lotta alla mafia. Dopo qualche giorno venne
approvata la legge Rognoni-La Torre, fu nominato un prefetto di Palermo con
poteri speciali e l’azione della Commissione antimafia riprese vigore. Da
allora giovani parroci-coraggio iniziarono a porsi domande sul loro ruolo in
una terra di violenza, sangue e diritti negati, chiedendosi se dovevano
limitarsi a curare le anime o invece impegnarsi in un’azione apostolica in
difesa dei diritti dell’uomo. […]
Nella successiva Pasqua del 1983
nessun detenuto si recò alla celebrazione eucaristica del cardinal Pappalardo
nel carcere dell’Ucciardone….i picciotti era rimasti scontenti del cardinale e
avevano voluto dargli una lezione… […]
Successivamente nella storia
della mafia spiccano le figure religiose più contraddittorie [e segue un elenco di sacerdoti e religiosi che in
vari modi e misure sono stati contigui e hanno favorito la mafia].
Il numero dei religiosi per i
quali sono emersi rapporti con i mafiosi non è trascurabile. […]
Del resto anche i capi mafiosi
ricambiano le attenzioni dei religiosi e ostentano la loro devozione: nei
pizzini di Bernardo Provenzano non mancavo mai qualche espressione del tipo
“Sia fatta la volontà di Dio”, “Il signore vi benedica e vi protegga” [ecc…].
Così il boss si rivolgeva sia ai propri familiari sia agli affiliati. Quello
che si può dedurre dalla lettura di questi messaggi, in realtà, è che la Bibbia
viene utilizzata come una grammatica elementare per la gestione del potere.
Perché la mafia è anche una comunità politica, e come tale ha bisogno di un
alfabeto di potere. E inoltre, come diceva Falcone, entrarvi equivale a
convertirsi ad un culto. Mafia e religione hanno la stessa dimensione
totalizzante.
Il 9 maggio 1993, ad Agrigento,
dopo aver incontrato i genitori del giudice Rosario Livatino ucciso nel
settembre del 1991, Giovanni Paolo II, alla conclusione della messa nella valle
dei templi, diede una svolta del tutto imprevedibile alla cerimonia.
Abbandonando il testo scritto, scagliò infatti un terribile anatema contro la
mafia. […] L’intervento del papa ebbe grande risonanza: le sue parole
provocarono tra i devoti commozione e gioia e molti vi lessero un annuncio di
liberazione e di ritrovata solidarietà umana nel segno della fede. […]
Ma nella Chiesa siciliana, anche
dopo una così forte e autorevole testimonianza, la lotta alla mafia non era
destinata a diventare la scelta pastorale dell’intera comunità. L’impegno
restava affidato all’iniziativa di singoli parroci di alcune comunità di
volontariato. Nasceva così, nell’immaginario collettivo, la figura del prete
antimafia pronto a gesti eclatanti, alle denunce clamorose. Espressione di
un’altra Chiesa, ignorata dalla stampa, discreta e silenziosa, ispirata ad una
concezione prettamente pastorale ed evangelica.
Uno di questi era padre Pino
Puglisi, che aveva creato, nel quartiere Brancaccio, nel 1993, il centro
sociale “Padre nostro”. In una via del quartiere alle 20.45 del 15 settembre
1993 il sacerdote stava rientrando a casa …davanti al portone …venne affrontato
da un uomo che gli strappò il borsello. Fu un attimo. Padre Puglisi si voltò,
sorrise e disse “Me lo aspettavo”. Un killer alle spalle gli esplose un colpo
di pistola alla nuca a brevissima distanza.
Padre Puglisi è morto a causa del
suo impegno evangelico, sociale e pastorale in un quartiere dormitorio dove una
maestra di vita, per ragazzi cresciuti troppo in fretta, era la strada; dove la
realtà quotidiana erano la miseria, il dolore e la morte, dove la gente viveva
in condizione di sudditanza e di omertà. Un colpo micidiale per quanti lo
conoscevano e, in generale, per la coscienza civile di chi aveva tentato di
reagire alle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Come spesso accade, la tragedia
non fu priva di risvolti positivi: anche la Chiesa, sino a quel momento
presente solo marginalmente nel movimento antimafia, sembrò scuotersi dal
letargo, e costernata, fare fronte comune con i concittadini migliori.
La Chiesa di padre Puglisi è
quella che io amo. Il suo messaggio va oltre la testimonianza di fede, perché è
il messaggio di un uomo libero che non si piega di fronte al potere mafioso. Una
persona disarmata, non violenta, che usa solo la parola e la cultura per
ribellarsi a un sistema di morte. Il fatto che sia stato ucciso, per l’eredità
che ha lasciato in questa città, non ne segna la sconfitta. […]
Che strana città Palermo: a
essere normali si corre il serio rischio di finire assassinati, e poi esaltati
fino alla beatificazione. Appunto come padre Puglisi! O come don Peppe Diana,
assassinato a Casal di Principe nella sagrestia della parrocchia ..il 19 marzo
del 1994, per la sua azione pastorale di aperta e coraggiosa denuncia contro la
camorra.
Oggi c’è una consapevolezza
maggiore da parte della Chiesa: l’ultimo documento della CEI sul Mezzogiorno afferma
che la mafia è struttura di peccato, inconciliabile con la fede, ma a fronte
dell’impegno di pochi vescovi, di diversi preti e gruppi cattolici di base, ci
sono ancora troppe ambiguità, condiscendenza o compiacenza da parti di molti
religiosi. La Chiesa che dice parole forti e chiare sull’incompatibilità tra
mafia e Vangelo, abbia il coraggio della denuncia.
4. Sulla beatificazione di don Puglisi[1]
Padre Pino Puglisi, prete, palermitano,
viene nominato nel 1990, parroco della chiesa di San Gaetano, al Brancaccio di Palermo, un quartiere
controllato, attraverso i fratelli Graviano, dalla famiglia del boss Leoluca
Bagarella. Qui inizia la sua lotta antimafia: cerca di lavorare con i ragazzini
che vivono per strada e che considerano i mafiosi come degli idoli. Cerca
attraverso giochi e attività varie di offrire alternative ai ragazzini, perché
non siano risucchiati dalla vita mafiosa, impiegati nello spaccio e in piccole
rapine. Cerca di offrire alternative, di far capire che esiste un rispetto
diverso da quello che si ottiene con l’esercizio della forza e della violenza. E
usa parole dure contro la mafia durante le sue omelie, che a volte si svolgono
all’aperto, sul sagrato della chiesa.
Per questo suo lavoro si guadagna
l'ostilità dei boss che, dopo una lunga serie di minacce di morte, decidono di ucciderlo. Nel settembre 1993 mentre
sta rientrando a casa dopo una festicciola per il suo 56° compleanno viene
avvicinato da un killer che gli spara alla nuca a brevissima distanza.
Il 25 maggio 2013 vi è stata la
cerimonia di beatificazione di don Puglisi. In molti ne sono stati felici.
Ma è utile ricordare le parole di Giovanni Falcone quando
diceva: «Si muore generalmente perché si
è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché
non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».
E’ utile anche tener presente le
parole del fratello di Puglisi, Gaetano: «La
Chiesa oggi lo fa beato, ma quando serviva una mano nessuno gliela diede a don
Pino. Lui a un certo punto si trovò solo a Brancaccio».
E poi ancora le parole di Pino
Martinez – una delle persone che tanto collaborò con don Puglisi per la
rinascita sociale di Brancaccio: «Io
penso che da soli non si muore. Ma noi eravamo completamente isolati. Penso che forse padre Puglisi si sarebbe
salvato se la Chiesa di Palermo gli avesse dimostrato aperta vicinanza quando
cominciò la stagione delle intimidazioni l’amara verità è che lo Stato e la
Chiesa sapevano ma non intervennero».
E poi ancora le parole di suor Carolina
Iavazzo che insieme ad altre suore ha lavorato a lungo con Puglisi: «È stato abbandonato sicuramente sia dalla
Chiesa che dallo Stato. Dalla Curia e dal mondo cattolico non veniva mai
nessuno a Brancaccio. Eravamo soli, con nessuno a cui fare riferimento. Ci ignoravano per il fatto che noi portavamo
problemi. E per la mafia questo è stato sicuramente un messaggio forte,
preciso. Era un messaggio muto».
Di fronte alla beatificazione di
don Puglisi bisogna ricordare che i rapporti tra il parroco di Brancaccio e i
vertici della Chiesa palermitana, a cominciare dall’arcivescovo della città, il
card. Pappalardo, non furono affatto così sereni e pacifici come il
trionfalismo della beatificazione ha voluto mostrare.
Il nostro
personale commento è che le beatificazioni sono solo ipocrisie se si continua a
lasciare sole le persone impegnate nella lotta alla mafia. Il solo modo
credibile per tenere viva la memoria delle persone che si sono impegnate nella
lotta alla mafia è quella di non lasciare sole le persone che oggi lottano
contro la mafia.
Appendice. Scheda su Libera (dal sito www.libera.it)
"Libera. Associazioni, nomi
e numeri contro le mafie" è nata il 25 marzo 1995 con l'intento di
sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e
giustizia.
Attualmente Libera è un coordinamento
di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base,
territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e
organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità.
La
legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l'educazione alla
legalità democratica, l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione
antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono
alcuni dei concreti impegni di Libera.
Libera
è riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della
Solidarietà Sociale. Nel 2008 è stata inserita dall'Eurispes tra le eccellenze
italiane.
Nel
2012 è stata inserita dalla rivista The
Global Journal nella classifica delle cento migliori Ong del mondo: è
l'unica organizzazione italiana di "community empowerment" che figuri
in questa lista, la prima dedicata all'universo del no-profit.
IL RIUTILIZZO DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA
Nel 1995, la prima grande campagna nazionale che Libera intraprese
insieme a tutti gli altri soggetti della rete fu una raccolta di firme per
introdurre il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alla mafia. La
gestione di questi beni diventa una sorta di moderno "contrappasso",
per contrastare le attività della criminalità organizzata e diffondere quella
cultura della legalità che si pone come il principale anticorpo alle mafie.
La legge n. 109 del 7 marzo 1996 venne approvata in sede deliberante dalla Commissione Giustizia, in tempi da record e a legislatura finita. Esistono tre diverse categorie di beni confiscati, ognuna con una precisa disciplina: beni mobili[2]; beni immobili[3]; e beni aziendali[4].
La legge n. 109 del 7 marzo 1996 venne approvata in sede deliberante dalla Commissione Giustizia, in tempi da record e a legislatura finita. Esistono tre diverse categorie di beni confiscati, ognuna con una precisa disciplina: beni mobili[2]; beni immobili[3]; e beni aziendali[4].
Libera
promuove l'effettiva applicazione della legge n. 109/96 sul riutilizzo sociale
dei beni
confiscati alle mafie, che prevede l'assegnazione dei patrimoni e
delle ricchezze di provenienza illecita a quei soggetti - Associazioni,
Cooperative, Comuni, Province e Regioni - in grado di restituirli alla
cittadinanza, tramite servizi, attività di promozione sociale e lavoro.
Libera
non gestisce direttamente i beni confiscati, ma promuove, in collaborazione con
l'Agenzia Nazionale per l'Amministrazione e la Destinazione dei Beni
Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata, le Prefetture e i
Comuni, i percorsi di riutilizzo dei beni. Libera svolge un'importante azione
di animazione territoriale, attivando percorsi di conoscenza e
sensibilizzazione relativi alla presenza di beni confiscati sul territorio
nazionale, anche nelle regioni del centro nord Italia.
L'attività
è volta a creare e rafforzare la rete tra le istituzioni (Agenzia Nazionale per
l'Amministrazione e la Destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata, Prefetture, Regioni, Province, Consorzi di Comuni e
Comuni), le Cooperative e le Associazioni, le scuole e gli altri soggetti del
territorio tramite la mappatura e l'analisi dei beni confiscati sul territorio
e la diffusione di buone pratiche sul loro possibile utilizzo.
E!STATE LIBERI: CAMPI
DI VOLONTARIATO SUI TERRENI CONFISCATI ALLA MAFIE
Tanti giovani scelgono di fare un'esperienza di
volontariato e di formazione civile sui terreni confiscati alle mafie gestiti
dalle cooperative sociali di Libera Terra. Segno questo, di una volontà diffusa
di essere "protagonisti" e di voler tradurre questo impegno
in una azione concreta di responsabilità e di condivisione.
L'obiettivo
principale dei campi di volontariato sui beni confiscati alle mafie è quello di
diffondere una cultura fondata sulla legalità e giustizia sociale che possa
efficacemente contrapporsi alla cultura della violenza, del privilegio e del
ricatto. Si dimostra così, che è possibile ricostruire una realtà sociale ed
economica fondata sulla pratica della cittadinanza attiva e della solidarietà.
Caratteristica fondamentale di E!State Liberi è l'approfondimento e lo studio
del fenomeno mafioso tramite il confronto con i familiari delle vittime di
mafia, con le istituzioni e con gli operatori delle cooperative sociali.
L'esperienza dei campi di lavoro ha tre momenti di attività diversificate: il
lavoro agricolo o attività di risistemazione del bene, la formazione e
l'incontro con il territorio per uno scambio interculturale.
Ci
sono campi per singoli cittadini, per giovani, per giovani minorenni, per
famiglie e molto altro.
[1] Si legga in proposito
Adista n.25/2013 e il libro di Mario
Lancisi : Don Puglisi. Il Vangelo contro la mafia, Ed Piemme
[2] Beni mobili: denaro, assegni, liquidità
e titoli, crediti personali (cambiali, libretti al portatore, altre
obbligazioni), oppure autoveicoli, natanti e beni mobili non facenti parte di
patrimoni aziendali. Di norma, le somme di denaro confiscate o quelle ricavate
dalla vendita di altri beni mobili sono finalizzate alla gestione attiva di
altri beni confiscati.
[3] Beni immobili: appartamenti, ville,
terreni edificabili o agricoli. Hanno un alto valore simbolico, perché
rappresentano il potere che il boss può esercitare sul territorio e sono spesso
i luoghi prescelti per gli incontri tra le diverse famiglie mafiose. Lo Stato
può decidere di utilizzarli per "finalità di giustizia, di ordine pubblico
e di protezione civile" come recita la normativa, oppure trasferirli al
patrimonio del comune nel quale insistono. L'ente locale potrà poi
amministrarli direttamente o assegnarli a titolo gratuito ad associazioni,
comunità e organizzazioni di volontariato. Un caso particolare è rappresentato
da quei luoghi confiscati per il reato di agevolazione dell'uso di sostanze
stupefacenti: il bene sarà assegnato preferibilmente ad associazioni e centri
di recupero per persone tossicodipendenti.
[4] Beni
aziendali: fonti principali di
riciclaggio del denaro proveniente da affari illeciti. I sequestri e le
confische coprono una vasta gamma di settori di investimento: industrie attive
nel settore edilizio; aziende agroalimentari (come l'immenso allevamento
bufalino con annesso caseificio sequestrato e confiscato alla camorra nella
zona di Castel Volturno); ristoranti e pizzerie praticamente ovunque, dalla
Calabria fino a Lecco, e noti locali della vita notturna come lo storico Cafè
de Paris, punto nevralgico della Dolce Vita romana, finito nelle mani di un
prestanome della 'ndrangheta calabrese; interi centri commerciali, sorti dal
nulla come cattedrali nel deserto.
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