Translate

domenica 23 febbraio 2014

Incontro con la cooperativa Lavoro e non solo di Corleone

Comunità dell’Isolotto - Firenze, domenica 23 febbraio 2014
Incontro con la cooperativa Lavoro e non solo di Corleone
riflessioni di Carlo, Claudia, Gisella, Luisella, Maurizio
con Franca Bonichi e Paolo Adomi, Maurizio Pascucci (a distanza)
e Sofia, Monica e Paola (volontarie nei campi di lavoro)


1. Letture dal Vangelo e non solo
2. Notizie sulla Cooperativa Lavoro e non solo di Corleone
3. Riflessioni di Pietro Grasso sui rapporti tra Chiesa e Mafia
4. Sulla beatificazione di don Puglisi
Appendice: scheda su Libera

1a. Letture dal Vangelo di Matteo
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”».
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.                                                                                                                                   [Matteo, 13, 24-35]
1.b Lettura da una antica favola africana
Nella foresta scoppiò un grande incendio e tutti gli animali cominciarono a fuggire in direzione opposte alle fiamme.
Solo un colibrì, con una goccia d’acqua nel becco, volava verso il fuoco.
Il leone lo vide e gli disse: “Cosa stai facendo, sei impazzito, non hai visto l’incendio?”.
Ma il colibrì rispose: “Sto andando a fare la mia parte”.
                                                                                                      
1.c da Paolo Borsellino
Non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili.
                                          
Ci piace proporre la interpretazione di padre Alberto Maggi della parabola del granello di senape : “… in questa parabola Gesù prende le distanze dalla idea grandiosa del Regno di Dio che era stata descritta dai profeti, in particolare Ezechiele: questi immaginava un altissimo monte e sopra a questo un altissimo albero di cedro, la pianta più bella, l’albero chiamato il re degli alberi, quindi qualcosa che anche da lontano attira l’attenzione.
Ebbene, Gesù prende le distanze da tutto questo e paragona il regno di Dio ad un chicco di senape, un elemento piccolo, quasi microscopico. Gesù poi afferma che la pianta che cresce dal chicco di senape si sviluppa nell’orto di casa (e non su un alto monte); è una pianta comune, di modeste dimensioni, che non attira l’attenzione degli uomini per la sua magnificenza. Ma essendo questi semi piccolissimi, il vento li trascina dovunque ed essendo una pianta infestante, che quindi attecchisce in ogni terreno, la pianta si diffonde dappertutto…”


2. Notizie sulla Cooperativa Lavoro e non solo di Corleone
(dal sito www.lavoroenonsolo.it)

La Cooperativa Lavoro e Non Solo, nata da un progetto di Arci Sicilia e partner di Libera, gestisce dal 2000 un’azienda agricola che coltiva terreni confiscati a Cosa Nostra tra Corleone, Monreale e Canicattì.  L’attività agricola, condotta interamente secondo i metodi dell’agricoltura biologica, va di pari passo con l’impegno nell’inserimento lavorativo di persone con problemi di salute mentale.

I Meloni di MalvelloLa storia: alla fine degli anni 80, nell’ambito di un complesso percorso di rinnovamento con cui Arci Sicilia mirava a porsi come soggetto politico di un cambiamento possibile, si faceva strada anche l’idea di dare vita a imprese sociali capaci di dare lavoro e sviluppo tenendo fede ai principi etici e di inclusione sociale ai quali l’Arci era da sempre legata. Tra le imprese sociali nate da quell’impegno c’è anche la Cooperativa Lavoro e Non Solo che viene costituita nel 1998 a Canicattì, grazie alla collaborazione tra il comitato Arci cittadino  e il locale  Dipartimento di Salute Mentale.
Le attività prendono avvio quando nel 1999, Pippo Cipriani, sindaco di Corleone, annuncia l’intenzione di assegnare un terreno di 10 ettari confiscato a Giovanni Marino, nipote di Luciano Liggio, uno dei boss più potenti di Cosa Nostra, colpevole tra l’altro dell’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto.
In seguito al rifiuto di un’altra cooperativa, le terre vennero date in gestione alla Cooperativa Lavoro e Non Solo che decise di coltivarle a grano. Nel frattempo si instaurarono contatti col Dipartimento di Salute Mentale di Corleone che assegnò i primi casi di inserimento lavorativo, che tutt’ora rappresentano il tratto peculiare della cooperativa.
Negli anni successivi la Cooperativa ebbe in gestione altri terreni a Corleone (2002), confiscati a Lo Iacono, mafioso di Partinico, e terre sottratte  nel territorio di Monreale (2004) ai Grizzaffi, famiglia mafiosa corleonese. Dal 2004 si aggiungono anche le terre nel territorio di Canicattì che oggi ospitano vigneti e altre colture.
MalvelloOggi la Cooperativa gestisce 58 ettari a Corleone, 72 ettari a Morreale, 19 ettari di Canicattì, un laboratorio di lavorazione dei legumi e la vecchia casa della famiglia Grizzaffi, oggi Casa Caponnetto, dove ogni estate dal 2008, alloggiano centinaia di giovani volontari del progetto LiberArci dalle Spine che scelgono di affiancare la Cooperativa nel lavoro agricolo e di prendere posizione contro la mafia.

Le persone: la Cooperativa Lavoro e Non Solo è costituita da 13 soci, di cui 8 soci fondatori (Calogero Parisi, Salvatore Ferrara, Franco Ferrara, Bernardo Cancemi, Franco Ancona,  Mario Maniscalco, Luigi Madonia e Francesco Caizone) e da 5 soci sovventori (Arci Sicilia, Compagnia Portuale di Livorno, Unicoop Tirreno, Arci Empolese Valdese, Maurizio Pascucci). Tra i soci fondatori, tra cui figurano commercialisti, operai agricoli specializzati e operatori sociali,  rientrano anche alcuni “svantaggiati”: entrati nel gruppo di lavoro come utenti, oggi sono protagonisti della vita cooperativa a tutti gli effetti. La Cooperativa si avvale di collaboratori e dipendenti e continua ad ospitare per periodi più o meno lunghi anche persone in borsa lavoro in convenzione con i Servizi Sociali.

Se non sei un po’ matto non puoi lavorare qui …: La Cooperativa Lavoro e Non Solo è conosciuta a Corleone anche come la cooperativa dei pazzi, sia perché – come dicono i soci stessi – ”Se non sei un po’ matto, non puoi lavorare qui”, sia perché il tratto distintivo della sua attività è da sempre l’inserimento socio lavorativo di persone con disagio psichico. L’attenzione per  il mondo della salute mentale e la volontà di spendersi in progetti di inclusione socio-lavorativa per chi soffre di un disagio psichico è sempre stata centrale nella storia di Arci, e in Sicilia le battaglie per la chiusura dei manicomi hanno avuto un valore forse ancora più profondo che altrove. Quello di Palermo fu l’ultimo ospedale psichiatrico a essere chiuso nel 1996 e in Sicilia la cura e l’istituzionalizzazione del disagio psichico costituivano un giro d’affari senza eguali nel resto del Paese.
La Cooperativa Lavoro e Non Solo iniziò a coinvolgere lavoratori segnalati dai Servizi sin dall’inizio della sua attività, facendosi carico dei loro bisogni e degli oneri connessi al loro percorso a volte anche al di là del sostegno ricevuto dalle istituzioni stesse. Il successo dei progetti di inserimento portati avanti sta nelle vite stesse dei soci. Alcuni di loro sono entrati in Cooperativa come “utenti”, ma grazie ad un continuo coinvolgimento nel gruppo e nelle attività della Cooperativa, sono riusciti a riscattarsi dal proprio stato di esclusione, hanno trovato una propria dimensione lavorativa e sociale e conducono oggi una vita autonoma, inseriti in una rete di relazioni  e di impegno sociale molto ampia.
A proposito dei progetti di inserimento lavorativo condotti finora, Carmelo Gagliano, dirigente medico del DSM responsabile delle attività riabilitative  fino al 2009, parla di “doppio traguardo”: “Chi affronta un percorso di inserimento in questa  Cooperativa, può trovare una dimensione socio lavorativa autonoma, prerogativa da non dare per scontata nel panorama delle proposte in ambito di riabilitazione psichiatrica, ma può aspirare a ben altro. Nel tempo passato qui si impara a guardare in modo critico la realtà, si impara a scegliere, e lo si fa all’interno di un gruppo di soci e inseriti nella rete ben più ampia dei volontari dei campi di lavoro che vengono da tutta Italia. Ci si emancipa, non solo dal disagio, ma anche dalla subcultura legata alle logiche mafiose, dando impulso ad un cambiamento”.

Le coltivazioni e la scelta del biologico: nei terreni confiscati alle mafie assegnati alla Cooperativa Lavoro e Non Solo vengono coltivati grano, ceci, lenticchie, pomodori, uva, mandorle. Vi sono oliveti e vigneti. Si coltiva seguendo i principi e ai metodi dell’agricoltura biologica. Questa scelta ha un valore ecologico e ambientale:
  • da un punto di vista strettamente ecologico l’agricoltura biologica non ha impatti nocivi sul terreno, lo mantiene produttivo e fertile anche a lungo termine, senza snaturarlo, garantendo la produzione di prodotti sani, naturali, che fanno bene a chi li consuma. 
  • da un punto di vista simbolico poi, coltivare le terre confiscate  in modo biologico significa metaforicamente e concretamente “depurarle” dai veleni della chimica e dell’illegalità.

Casa Caponnetto : Casa Antonino Caponnetto, era un tempo la casa della famiglia Grizzaffi, nipoti di Riina. Dal 2008, dopo alcuni anni dal provvedimento di confisca, è stata assegnata alla Cooperativa Lavoro e Non Solo. La Casa è la base per i volontari impegnati nei campi di lavoro. A piano terra ci sono cucina, postazioni di lavoro e tavolo da pranzo, nelle stanze dei due piani superiori alloggiano i volontari.
La Casa in questi anni è cambiata molto, le pareti delle stanze sono state dipinte di colori sgargianti, sono state collocate decine di letti a castello, ristrutturati i bagni e arredatala cucina e i locali, e i lavori di sistemazione proseguono. Si vuole far sì che i volontari che arrivano per partecipare ai campi di lavoro abbiano tutto il necessario per sentirsi a casa.
Prossimamente l'immobile avrà il riconoscimento formale di Ostello.
La nuova campagna per sostenere la Cooperativa
Contatti:






intervento (a distanza) di Maurizio Pascucci – ARCI Firenze

Carissimi, e  amiche e amici,
purtroppo domani mattina non potrò essere con voi.
Ci saranno un bel gruppo di giovani volontari.
Ragazze e ragazzi che dopo avere effettuato i campi antimafie Liberarci dalle Spine a Corleone hanno deciso di continuare il loro impegno costituendosi in un gruppo di studio sull’infiltrazione mafiosa in Toscana.
Mi trovo a Corleone a organizzare non solo i campi antimafie 2014 ma anche una strategia di contrasto al saccheggio agricolo che fa si che i pomodori siano pagati 0,20  al kg , i meloni gialli a 0,14  al kg e i fichi d’india a 0,40 al kg.
Non è solo mafia ma anche la complicità di un imprenditoria selvaggia del centro nord.
Siamo alla vigilia della decima edizione di Liberarci dalle Spine.
Incontri come quello da voi organizzato sono per noi importantissimi e di grande vitalità.
Pensiamo ad una disponibilità di volontari frutto di riflessioni sull’importanza dell’impegno sociale.
Lì a Corleone si fa Resistenza Popolare, giorno dopo giorno, a testa alta e con la schiena dritta.
Il vostro impegno attuale, la vostra storia è frutto degli stessi percorsi;
dove la verità, senza ipocrisia e falsità, è difficile da dire.
Io devo molto a Enzo Mazzi.
Lo ricordo nei giorni del Social Forum Europeo quando con la sua pacatezza mi convinse che si doveva stampare e diffondere una pubblicazione per ricordare le lotte operaie fiorentine.
Poi nel Natale successivo mi chiamo a testimoniare l’impegno antimafie a Corleone.
Conservo ancora una sua email dove mi incoraggiava ad andare avanti anche nei momenti difficili.
In più occasioni ho utilizzato il suo incoraggiamento.
Vi saluto dalla Capitale Mafiosa, ma oramai Corleone si è avviato verso il cambiamento; questo percorso potrà pur essere rallentato ma la sua direzione è definita.
Pensate che insieme all’impegno antimafie della Cooperativa Lavoro e Non Solo si aggiungono le attività scolastiche e la nascita dell’Associazione Produttori Fior di Corleone.
Produttori uniti tra di loro per manifestare la loro onestà e il valore del lavoro.
Un abbraccio e tante scuse per l’assenza,
un saluto

Maurizio Pascucci
coordinatore del progetto Liberarci dalle spine


3. Riflessioni di Pietro Grasso sui rapporti tra Chiesa e Mafia
(Pietro Grasso è stato il Procuratore Nazionale Antimafia e oggi è Presidente del Senato)
da “Liberi Tutti. Lettera a un ragazzo che non vuole morire di mafia”

[…] Non v’è dubbio che il riconoscimento sociale di volgari assassini come persone di rispetto, di giustizia, d’onore si sia basato, in passato (tranne per alcune eccezioni …) sulla legittimazione concessa da una Chiesa che, rimasta in silenzio, ha rinunciato a denunciare la violenza della mafia, anche se l’insegnamento di Cristo ripudia la violenza.
Sostenere la dottrina del perdono senza limiti non ha forse finito per favorire la persistenza del fenomeno mafioso?
Perché la Chiesa ha rinunciato alla sua secolare funzione di indirizzo etico, celebrando per i mafiosi e le loro famiglie battesimi, cresime, matrimoni e funerali in pompa magna?
Perché non ha usato nei loro confronti l’esecrazione aperta, la scomunica, l’emarginazione dalla comunità di fedeli, quando invece rifiuta i sacramenti ai divorziati e ai suicidi, e contrasta i sostenitori dell’aborto e del’eutanasia on nome di un diritto alla vita che viene quotidianamente calpestato dagli stessi mafiosi?
E’ legittimo per la Chiesa rifiutarsi di prendere posizione sulla questione mafiosa, trattandola come un problema di stretta competenza dello Stato?
Del resto, perché un parroco dovrebbe denunciare pubblicamente i mafiosi se sono i massimi benefattori della parrocchia, impediscono i furti di opere d’arte o di arredi sacri (..) e organizzano …i festeggiamenti per il Santo Patrono, raccogliendo fondi per la processione, le luminarie, i fuochi d’artificio e talvolta anche per le loro tasche? […]
Il mafioso garantisce l’ordinato esercizio del culto e in cambio riceve legittimazione.
Perché la Chiesa non ha mai scagliato anatemi contro il simbolismo religioso dei riti d’iniziazione, nei quali, oltre all’uso strumentale dell’immagine sacra, si crea una singolare analogia con il battesimo, celebrato alla presenza di un padrino, con tanto di sangue purificatore e fuoco che distrugge, a rappresentare la rinascita dell’affiliando nell’organizzazione?
[…]
E’ con il cardinale Pappalardo che comincia la denuncia ferma, aperta, della violenza mafiosa; è con lui che la Chiesa siciliana acquista quella dignità che in passato era stata mortificata da un atteggiamento di “complice prudenza”. La sua presa di posizione suonò per la comunità religiosa palermitana come una novità dirompente.
Da qualche anno, dagli omicidi di Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre, sino a Carlo Alberto Dalla Chiesa, era emersa l’intensità del momento storico, con una mafia che non esitava a colpire, con attentati cruenti, personalità dello Stato di altissimo livello che osavano contrastarla.
Il cardinale aveva levato senza timori la sua voce nel 1979 ai funerali di Giuliano; due anni dopo mentre infuriava la guerra di mafia … celebrò una funzione nella Cattedrale, poi definita “messa antimafia” in cui si rivolse direttamente ai mafiosi, dicendo: “Il profitto che deriva dall’omicidio è maledetto da Dio e dagli uomini e quand’anche riusciste a sfuggire alla giustizia degli uomini, non riuscirete a sfuggire a quella di Dio”.

Il 4 settembre dal pulpito della chiesa di San Domenico, il cardinale fece impallidire i più importanti uomini politici siciliani e d’Italia, che assistevano nelle prime file alla messa funebre del prefetto Dalla Chiesa. “La mafia”, disse il cardinale, “è un demone dell’odio, l’incarnazione stessa di Satana. Si sta sviluppando una catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così lente e incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, quanto mai decise, invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti a colpire. Sovviene e si può applicare una nota frase della letturatura latina: Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur: mentre a Roma ci si consulta, la città di Sagunto viene espugnata. Sagunto è Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?”. […] dal fondo della chiesa, dove sedeva la gente comune, esplose un fragoroso applauso […]
L’omelia di Sagunto segnò una grande svolta nella storia della lotta alla mafia. Dopo qualche giorno venne approvata la legge Rognoni-La Torre, fu nominato un prefetto di Palermo con poteri speciali e l’azione della Commissione antimafia riprese vigore. Da allora giovani parroci-coraggio iniziarono a porsi domande sul loro ruolo in una terra di violenza, sangue e diritti negati, chiedendosi se dovevano limitarsi a curare le anime o invece impegnarsi in un’azione apostolica in difesa dei diritti dell’uomo. […]
Nella successiva Pasqua del 1983 nessun detenuto si recò alla celebrazione eucaristica del cardinal Pappalardo nel carcere dell’Ucciardone….i picciotti era rimasti scontenti del cardinale e avevano voluto dargli una lezione… […]
Successivamente nella storia della mafia spiccano le figure religiose più contraddittorie [e segue  un elenco di sacerdoti e religiosi che in vari modi e misure sono stati contigui e hanno favorito la mafia].
Il numero dei religiosi per i quali sono emersi rapporti con i mafiosi non è trascurabile. […]
Del resto anche i capi mafiosi ricambiano le attenzioni dei religiosi e ostentano la loro devozione: nei pizzini di Bernardo Provenzano non mancavo mai qualche espressione del tipo “Sia fatta la volontà di Dio”, “Il signore vi benedica e vi protegga” [ecc…]. Così il boss si rivolgeva sia ai propri familiari sia agli affiliati. Quello che si può dedurre dalla lettura di questi messaggi, in realtà, è che la Bibbia viene utilizzata come una grammatica elementare per la gestione del potere. Perché la mafia è anche una comunità politica, e come tale ha bisogno di un alfabeto di potere. E inoltre, come diceva Falcone, entrarvi equivale a convertirsi ad un culto. Mafia e religione hanno la stessa dimensione totalizzante.

Il 9 maggio 1993, ad Agrigento, dopo aver incontrato i genitori del giudice Rosario Livatino ucciso nel settembre del 1991, Giovanni Paolo II, alla conclusione della messa nella valle dei templi, diede una svolta del tutto imprevedibile alla cerimonia. Abbandonando il testo scritto, scagliò infatti un terribile anatema contro la mafia. […] L’intervento del papa ebbe grande risonanza: le sue parole provocarono tra i devoti commozione e gioia e molti vi lessero un annuncio di liberazione e di ritrovata solidarietà umana nel segno della fede. […]
Ma nella Chiesa siciliana, anche dopo una così forte e autorevole testimonianza, la lotta alla mafia non era destinata a diventare la scelta pastorale dell’intera comunità. L’impegno restava affidato all’iniziativa di singoli parroci di alcune comunità di volontariato. Nasceva così, nell’immaginario collettivo, la figura del prete antimafia pronto a gesti eclatanti, alle denunce clamorose. Espressione di un’altra Chiesa, ignorata dalla stampa, discreta e silenziosa, ispirata ad una concezione prettamente pastorale ed evangelica.
Uno di questi era padre Pino Puglisi, che aveva creato, nel quartiere Brancaccio, nel 1993, il centro sociale “Padre nostro”. In una via del quartiere alle 20.45 del 15 settembre 1993 il sacerdote stava rientrando a casa …davanti al portone …venne affrontato da un uomo che gli strappò il borsello. Fu un attimo. Padre Puglisi si voltò, sorrise e disse “Me lo aspettavo”. Un killer alle spalle gli esplose un colpo di pistola alla nuca a brevissima distanza.
Padre Puglisi è morto a causa del suo impegno evangelico, sociale e pastorale in un quartiere dormitorio dove una maestra di vita, per ragazzi cresciuti troppo in fretta, era la strada; dove la realtà quotidiana erano la miseria, il dolore e la morte, dove la gente viveva in condizione di sudditanza e di omertà. Un colpo micidiale per quanti lo conoscevano e, in generale, per la coscienza civile di chi aveva tentato di reagire alle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Come spesso accade, la tragedia non fu priva di risvolti positivi: anche la Chiesa, sino a quel momento presente solo marginalmente nel movimento antimafia, sembrò scuotersi dal letargo, e costernata, fare fronte comune con i concittadini migliori.
La Chiesa di padre Puglisi è quella che io amo. Il suo messaggio va oltre la testimonianza di fede, perché è il messaggio di un uomo libero che non si piega di fronte al potere mafioso. Una persona disarmata, non violenta, che usa solo la parola e la cultura per ribellarsi a un sistema di morte. Il fatto che sia stato ucciso, per l’eredità che ha lasciato in questa città, non ne segna la sconfitta. […]
Che strana città Palermo: a essere normali si corre il serio rischio di finire assassinati, e poi esaltati fino alla beatificazione. Appunto come padre Puglisi! O come don Peppe Diana, assassinato a Casal di Principe nella sagrestia della parrocchia ..il 19 marzo del 1994, per la sua azione pastorale di aperta e coraggiosa denuncia contro la camorra.
Oggi c’è una consapevolezza maggiore da parte della Chiesa: l’ultimo documento della CEI sul Mezzogiorno afferma che la mafia è struttura di peccato, inconciliabile con la fede, ma a fronte dell’impegno di pochi vescovi, di diversi preti e gruppi cattolici di base, ci sono ancora troppe ambiguità, condiscendenza o compiacenza da parti di molti religiosi. La Chiesa che dice parole forti e chiare sull’incompatibilità tra mafia e Vangelo, abbia il coraggio della denuncia.
4. Sulla beatificazione di don Puglisi[1]

Padre Pino Puglisi, prete, palermitano, viene nominato nel 1990, parroco della chiesa di San Gaetano, al  Brancaccio di Palermo, un quartiere controllato, attraverso i fratelli Graviano, dalla famiglia del boss Leoluca Bagarella. Qui inizia la sua lotta antimafia: cerca di lavorare con i ragazzini che vivono per strada e che considerano i mafiosi come degli idoli. Cerca attraverso giochi e attività varie di offrire alternative ai ragazzini, perché non siano risucchiati dalla vita mafiosa, impiegati nello spaccio e in piccole rapine. Cerca di offrire alternative, di far capire che esiste un rispetto diverso da quello che si ottiene con l’esercizio della forza e della violenza. E usa parole dure contro la mafia durante le sue omelie, che a volte si svolgono all’aperto, sul sagrato della chiesa.
Per questo suo lavoro si guadagna l'ostilità dei boss che, dopo una lunga serie di minacce di morte,  decidono di ucciderlo. Nel settembre 1993 mentre sta rientrando a casa dopo una festicciola per il suo 56° compleanno viene avvicinato da un killer che gli spara alla nuca a brevissima distanza.
Il 25 maggio 2013 vi è stata la cerimonia di beatificazione di don Puglisi. In molti ne sono stati felici.
Ma è utile ricordare le parole di Giovanni Falcone quando diceva: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».
E’ utile anche tener presente le parole del fratello di Puglisi, Gaetano: «La Chiesa oggi lo fa beato, ma quando serviva una mano nessuno gliela diede a don Pino. Lui a un certo punto si trovò solo a Brancaccio».
E poi ancora le parole di Pino Martinez – una delle persone che tanto collaborò con don Puglisi per la rinascita sociale di Brancaccio: «Io penso che da soli non si muore. Ma noi eravamo completamente isolati. Penso che forse padre Puglisi si sarebbe salvato se la Chiesa di Palermo gli avesse dimostrato aperta vicinanza quando cominciò la stagione delle intimidazioni l’amara verità è che lo Stato e la Chiesa sapevano ma non intervennero».
E poi ancora le parole di suor Carolina Iavazzo che insieme ad altre suore ha lavorato a lungo con Puglisi: «È stato abbandonato sicuramente sia dalla Chiesa che dallo Stato. Dalla Curia e dal mondo cattolico non veniva mai nessuno a Brancaccio. Eravamo soli, con nessuno a cui fare riferimento. Ci ignoravano per il fatto che noi portavamo problemi. E per la mafia questo è stato sicuramente un messaggio forte, preciso. Era un messaggio muto».
Di fronte alla beatificazione di don Puglisi bisogna ricordare che i rapporti tra il parroco di Brancaccio e i vertici della Chiesa palermitana, a cominciare dall’arcivescovo della città, il card. Pappalardo, non furono affatto così sereni e pacifici come il trionfalismo della beatificazione ha voluto mostrare.
Il nostro personale commento è che le beatificazioni sono solo ipocrisie se si continua a lasciare sole le persone impegnate nella lotta alla mafia. Il solo modo credibile per tenere viva la memoria delle persone che si sono impegnate nella lotta alla mafia è quella di non lasciare sole le persone che oggi lottano contro la mafia.














Appendice. Scheda su Libera  (dal sito www.libera.it)
"Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" è nata il 25 marzo 1995 con l'intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia.
Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità.
La legge sull'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l'educazione alla legalità democratica, l'impegno contro la corruzione, i campi di formazione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono alcuni dei concreti impegni di Libera.
Libera è riconosciuta come associazione di promozione sociale dal Ministero della Solidarietà Sociale. Nel 2008 è stata inserita dall'Eurispes tra le eccellenze italiane.  
Nel 2012 è stata inserita dalla rivista The Global Journal nella classifica delle cento migliori Ong del mondo: è l'unica organizzazione italiana di "community empowerment" che figuri in questa lista, la prima dedicata all'universo del no-profit.

IL RIUTILIZZO DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA
Nel 1995, la prima grande campagna nazionale che Libera intraprese insieme a tutti gli altri soggetti della rete fu una raccolta di firme per introdurre il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alla mafia. La gestione di questi beni diventa una sorta di moderno "contrappasso", per contrastare le attività della criminalità organizzata e diffondere quella cultura della legalità che si pone come il principale anticorpo alle mafie.
La legge n. 109 del 7 marzo 1996 venne approvata in sede deliberante dalla Commissione Giustizia, in tempi da record e a legislatura finita. Esistono tre diverse categorie di beni confiscati, ognuna con una precisa disciplina: beni mobili[2]; beni immobili[3]; e beni aziendali[4].
Libera promuove l'effettiva applicazione della legge n. 109/96 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, che prevede l'assegnazione dei patrimoni e delle ricchezze di provenienza illecita a quei soggetti - Associazioni, Cooperative, Comuni, Province e Regioni - in grado di restituirli alla cittadinanza, tramite servizi, attività di promozione sociale e lavoro.
Libera non gestisce direttamente i beni confiscati, ma promuove, in collaborazione con l'Agenzia Nazionale per l'Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata, le Prefetture e i Comuni, i percorsi di riutilizzo dei beni. Libera svolge un'importante azione di animazione territoriale, attivando percorsi di conoscenza e sensibilizzazione relativi alla presenza di beni confiscati sul territorio nazionale, anche nelle regioni del centro nord Italia.
L'attività è volta a creare e rafforzare la rete tra le istituzioni (Agenzia Nazionale per l'Amministrazione e la Destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, Prefetture, Regioni, Province, Consorzi di Comuni e Comuni), le Cooperative e le Associazioni, le scuole e gli altri soggetti del territorio tramite la mappatura e l'analisi dei beni confiscati sul territorio e la diffusione di buone pratiche sul loro possibile utilizzo.

E!STATE LIBERI: CAMPI DI VOLONTARIATO SUI TERRENI CONFISCATI ALLA MAFIE

Tanti giovani scelgono di fare un'esperienza di volontariato e di formazione civile sui terreni confiscati alle mafie gestiti dalle cooperative sociali di Libera Terra. Segno questo, di una volontà diffusa di essere "protagonisti" e di voler tradurre questo impegno in una azione concreta di responsabilità e di condivisione.
L'obiettivo principale dei campi di volontariato sui beni confiscati alle mafie è quello di diffondere una cultura fondata sulla legalità e giustizia sociale che possa efficacemente contrapporsi alla cultura della violenza, del privilegio e del ricatto. Si dimostra così, che è possibile ricostruire una realtà sociale ed economica fondata sulla pratica della cittadinanza attiva e della solidarietà. Caratteristica fondamentale di E!State Liberi è l'approfondimento e lo studio del fenomeno mafioso tramite il confronto con i familiari delle vittime di mafia, con le istituzioni e con gli operatori delle cooperative sociali. L'esperienza dei campi di lavoro ha tre momenti di attività diversificate: il lavoro agricolo o attività di risistemazione del bene, la formazione e l'incontro con il territorio per uno scambio interculturale.
Ci sono campi per singoli cittadini, per giovani, per giovani minorenni, per famiglie e molto altro.




[1] Si legga in proposito Adista  n.25/2013 e il libro di Mario Lancisi  : Don Puglisi. Il Vangelo contro la mafia, Ed Piemme
[2] Beni mobili: denaro, assegni, liquidità e titoli, crediti personali (cambiali, libretti al portatore, altre obbligazioni), oppure autoveicoli, natanti e beni mobili non facenti parte di patrimoni aziendali. Di norma, le somme di denaro confiscate o quelle ricavate dalla vendita di altri beni mobili sono finalizzate alla gestione attiva di altri beni confiscati.
[3] Beni immobili: appartamenti, ville, terreni edificabili o agricoli. Hanno un alto valore simbolico, perché rappresentano il potere che il boss può esercitare sul territorio e sono spesso i luoghi prescelti per gli incontri tra le diverse famiglie mafiose. Lo Stato può decidere di utilizzarli per "finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile" come recita la normativa, oppure trasferirli al patrimonio del comune nel quale insistono. L'ente locale potrà poi amministrarli direttamente o assegnarli a titolo gratuito ad associazioni, comunità e organizzazioni di volontariato. Un caso particolare è rappresentato da quei luoghi confiscati per il reato di agevolazione dell'uso di sostanze stupefacenti: il bene sarà assegnato preferibilmente ad associazioni e centri di recupero per persone tossicodipendenti.
[4] Beni aziendali: fonti principali di riciclaggio del denaro proveniente da affari illeciti. I sequestri e le confische coprono una vasta gamma di settori di investimento: industrie attive nel settore edilizio; aziende agroalimentari (come l'immenso allevamento bufalino con annesso caseificio sequestrato e confiscato alla camorra nella zona di Castel Volturno); ristoranti e pizzerie praticamente ovunque, dalla Calabria fino a Lecco, e noti locali della vita notturna come lo storico Cafè de Paris, punto nevralgico della Dolce Vita romana, finito nelle mani di un prestanome della 'ndrangheta calabrese; interi centri commerciali, sorti dal nulla come cattedrali nel deserto.

Nessun commento:

Posta un commento