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sabato 4 ottobre 2014

Dante Alighieri vs Bonifacio VIII



Comunità dell’Isolotto
  Domenica 5 ottobre 2014 alle ore 10,30
 ci troviamo all'assemblea della comunità  per approfondire con Urbano Cipriani il tema

Teocrazia e laicità 

Confronto fra due grandi personaggi: Dante Alighieri e Bonifacio VIII°
I rapporti tra Impero e papato, tra politica e religione, tra scienza e fede attraversano gran parte della storia d’Europa, fino ad oggi. Dante costituisce un’antenna ricetrasmittente sensibilissima di questa vexata quaestio che ne condiziona la vita e l’opera: a Cesare quel che è di Cesare. Un bel confronto tra Bonifacio VIII e Dante ambasciatore fiorentino alla corte pontificia.


«
 Postisi in osservazione, mandarono informatori, che si fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all'autorità e al potere del governatore. Costoro lo interrogarono: «Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio. È lecito che noi paghiamo il tributo a Cesare?». Conoscendo la loro malizia, disse: «Mostratemi un denaro: di chi è l'immagine e l'iscrizione?». Risposero: «Di Cesare». Ed egli disse: «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Così non poterono coglierlo in fallo davanti al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero. » 
  (Luca 20,20-26)
«O Padre nostro, che ne' cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch'ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore
da ogne creatura, com' è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver' noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de' suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s'affanna.
E come noi lo mal ch'avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s'adona,
non spermentar con l'antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona. 
(Purgatorio XI,1-21)

Bonifacio VIII - Unam sanctam Ecclesiam (1302)

I precedenti
La bolla papale di Bonifacio VIII costituisce l'ultimo episodio del conflitto tra potere spirituale e potere temporale, e riprende, riaffermandoli con energia, gli ideali teocratici espressi in precedenza soprattutto da papa Gregorio VII, nel 1075 con il Dictatus Papae, e da papa Innocenzo III. Si tratta in realtà di un conflitto plurisecolare, che si può far risalire alla fine delV secolo, a papa Gelasio I e alla sua dottrina delle "due spade", quella spirituale e quella temporale, con l'affermazione, certo, della loro distinzione, ma anche con la definizione del primato della prima sulla seconda, e di conseguenza del papa sull'imperatore.
Contenuto
Nella bolla di Bonifacio VIII la novità consiste nel fatto che la figura dell'imperatore come rappresentante del potere temporale è sostituita da quella del re di Francia Filippo il Bello. Questo fatto è storicamente significativo perché dimostra come all'inizio del XIV secolo il potere dei re nazionali fosse aumentato notevolmente a scapito di quello imperiale. In realtà, dopo la morte di Federico II, avvenuta nel 1250, il Sacro Romano Impero aveva vissuto lunghi periodi di incertezze e vuoti di potere.
La giustificazione biblica dell'interpretazione teocratica della dottrina delle due spade, nel testo di Bonifacio VIII, è data da un passo del Vangelo di Luca che narra come Gesù, prima di recarsi nell'orto dei Getsemani accettasse due spade per la difesa della propria persona:
« Ed essi dissero: Signore, ecco qui due spade» (Luca - 22, 38)
Bonifacio VIII con questa bolla sottolinea inoltre l'unicità della Chiesa attraverso una particolare allegoria.
« Al tempo del diluvio invero una sola fu l'arca di Noè, raffigurante l'unica Chiesa; era stata costruita da un solo braccio, aveva un solo timoniere e un solo comandante, ossia Noè, e noi leggiamo che fuori di essa ogni cosa sulla terra era distrutta. »

Nella citazione, il ripetuto utilizzo delle parole "un solo" o "una sola", ha il fine di dare l'idea di unicità della chiesa dal punto di vista spirituale (Dio si riconosce in un'unica Chiesa); le parole «e noi leggiamo che fuori di essa ogni cosa sulla terra era distrutta» sottolineano l'importanza e la necessità della Chiesa anche per il buon ordinamento temporale dell'umanità.
Riassumendo il contenuto della bolla, si può dire che:
1. È affermata l'unità e l'unicità della Chiesa, al di fuori della quale non c'è salvezza; la Chiesa è un corpo mistico con un solo capo, Gesù Cristo;
2. È affermata la dottrina delle due spade: quella spirituale è usata dalla Chiesa stessa, quella temporale è concessa al regno;
3. Il potere temporale è subordinato a quello spirituale, così che il potere temporale è giudicato da quello spirituale; così pure, nella Chiesa, lo spirituale inferiore è giudicato dallo spirituale superiore (i vescovi sono giudicati dal papa); il papa a nemine judicatur, solo da Dio;
4. È necessario, ai fini della salvezza, che ogni creatura sia sottomessa al papa.

Alla redazione della bolla diedero certamente il loro contributo alcuni prestigiosi teologi, particolarmente legati a Bonifacio VIII[2], tra cui il cardinale francescano Matteo d'Acquasparta ed i due agostiniani Egidio Romano, che aveva precedentemente teorizzato nel De ecclesiastica potestate il concetto di plenitudo potestatis (cioè il pieno potere del papa), e Giacomo da Viterbo, che scrisse in quel periodo il trattato De regimine christiano, in cui il religioso viterbese sviluppò i concetti del papato, inteso come teocrazia, e del potere temporale della Chiesa.


Dante - De Monarchia (1308-1313)
Libro III: Dissertazione sulla questione se l’autorità imperiale derivi dal Pontefice o direttamente da Dio (Capp. 1 – 15)
Cap. 1.  Il problema è dunque il seguente: l’autorità del sommo Monarca dipende da Dio o dal suo vicario in terra, il papa?
Cap. 2. Bisogna assumere, come già fatto negli altri libri, un fondamento logico sul quale fondare i propri argomenti e trovare la soluzione al problema. Ora il fondamento è questo: Dio non approva ciò che ostacola l’intenzione della natura, la cui dimostrazione può essere fatta in diversi modi.
Cap. 3.  Agli uomini spesso accade d’essere travolti dalle passioni, di abbandonare la via della ragione, sì che si fa strada non soltanto la falsità, ma anche l’uscire fuori dalla competenza. Alla soluzione di questo problema si oppongono tre persone: il papa e i suoi seguaci, quelli ottenebrati dalla cupidigia, cristiani solo di nome, e i “decretalisti”, falsi teologi, seguaci dei Decretali, la cui autorità deve essere posposta a quella di Cristo. Dante si rivolge ai veri cristiani che semplicemente ignorano la verità.
Cap. 4. Questo capitolo e i seguenti sono rivolti a coloro che, erroneamente, argomentano che il potere temporale derivi da quello spirituale. Dalla Bibbia prendono lo spunto dall’immagine dei due astri (sole e luna = potere spirituale, temporale), ma essi sono in errore. Si può errare in due modi: assumendo un qualcosa di falso, oppure ragionando in modo falso.
Cap. 5. Un altro falso argomento ricavato dalle Scritture è quello dei figli di Giacobbe, Levi e Giuda, allegorie dei poteri. Questo argomento è facilmente confutabile, pur ammettendo la premessa dei significati allegorici, considerando bene la natura del sillogismo.
Cap. 6. Inoltre, prendendo spunto dal libro dei Re, per quanto attiene all’investitura di re Saul, essi affermano che, come il vicario di Dio, cioè Samuele, ha avuto l’autorità di dare e togliere il potere temporale, così il papa, vicario di Cristo, può fare lo stesso. La confutazione parte dal presupposto che Samuele non è stato un vicario di Cristo, ma un semplice delegato. Sbagliato è quindi il sillogismo a cui si affidano.
Cap. 7. Ancora: affermano che i doni regalati dai Magi a Cristo simboleggiano i due poteri e quindi il vicario di Cristo ha potere sulle cose spirituali e temporali allo stesso tempo. Anche in questo caso è errato il sillogismo: il vicario non equivale a Dio, ma è soltanto un’espressione ridotta della potenza divina.
Cap. 8. Ancora: dal Vangelo argomentano dalle parole di Cristo a Pietro: “Qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata nei cieli”.
Dice Cristo a Pietro: “Ti darò le chiavi del Regno dei Cieli”. Perciò quell’ “ogni cosa” significherà “qualunque cosa riguarderà il tuo ufficio”. Le leggi dell’Impero riguardano l’ufficio papale? No, come sarà dimostrato in seguito.
Cap. 9. Ancora dal Vangelo; Pietro, in occasione della Pasqua, disse a Cristo: “Ecco due spade”; essi sostengono che queste due spade rappresentano i due poteri, entrambi nelle mani di lui. Ciò è falso, sia perché la risposta non sarebbe adeguata all’intenzione di Cristo, sia perché Pietro era solito rispondere in maniera immediata e irriflessiva (si rilegga il brano dal Vangelo di Luca).
Cap. 10. Un altro argomento preso a vessillo della loro teoria è la donazione di Costantino a papa Silvestro del territorio della Chiesa. Ma Costantino non poteva di diritto fare questo, cioè privarsi di una parte del territorio e donarla ad altri, perché contro le leggi. Inoltre sia la Chiesa che l’Impero hanno i loro fondamenti distinti, né è lecito pretendere l’uno dall’altro. Il fondamento della Chiesa è Cristo, quello dell’Impero è il diritto umano. Inoltre ogni giurisdizione esiste prima del suo giudice: l’Impero è una giurisdizione, dunque è anteriore al suo giudice, l’Imperatore. Perciò egli non può trasferire la sua giurisdizione ad altri, ricevendo da essa la sua stessa esistenza. Inoltre la Chiesa, nata povera, non aveva il diritto di accettare un dono così significativo.
Cap. 11. Ancora, da Aristotele: tutto quello che appartiene ad una stessa categoria deve essere riferito ad una sola unità: gli uomini, unica categoria, devono essere riferiti ad una sola unità. Anche il papa e l’imperatore, essendo uomini, devono sottostare a questa verità. Ma il papa non può essere riferito ad altri, l’Imperatore deve essere riferito a lui. Ancora una volta è errato il sillogismo: una cosa è essere uomo, un’altra papa o imperatore. Quindi, essendo uomini, devono entrambi essere riferiti ad un unico ente, Dio.
Cap. 12. Dimostrati falsi gli errori, bisogna dimostrare la vera soluzione del problema. Sarà sufficiente dimostrare che l’autorità imperiale dipende semplicemente da Dio. La dimostrazione è che l’autorità della Chiesa è separata da quella dell’Impero, perché l’Impero è precedente ad essa, e non soggetto ad alcuna dipendenza di virtù. Inoltre, se Costantino non avesse avuto autorità, non avrebbe potuto assegnare alla Chiesa quei beni che le ha assegnato, e la Chiesa usufruirebbe ingiustamente di quella donazione.
Cap. 13. Se la Chiesa avesse la facoltà d’autorità sull’Imperatore, l’avrebbe o da Dio, o da sé stessa, o da un Imperatore, o dal consenso di tutti gli uomini. Essa, in verità, non l’ha ricevuta da alcuna di queste vie: non la possiede.
Cap. 14. Inoltre l’esercizio dell’autorità temporale è contro la natura della Chiesa, quindi non rientra nelle sue facoltà. Infatti la natura della Chiesa è la sua stessa forma, cioè Cristo ed i Suoi insegnamenti. Cristo disse: “Il mio regno non è di questo mondo”. Non osservare questo comandamento è non seguire la forma della Chiesa.

Cap. 15. Ancora resta da dimostrare come l’autorità dell’Impero discenda direttamente da Dio. Bisogna considerare che l’uomo è termine medio tra le cose corruttibili e le cose incorruttibili, racchiudendo in sé stesso entrambe le nature (corpo e anima), quindi è necessario che partecipi ad entrambe. E poiché ogni natura è ordinata ad un fine, ne consegue che esiste un duplice fine, uno corruttibile e uno incorruttibile, la felicità in questa vita e la felicità nella vita eterna. Alla prima si giunge per mezzo della filosofia, alla seconda per mezzo della teologia.


Il De Monarchia  costituisce un’opera direttamente e coscientemente contrapposta alla Bolla unam Sanctam di papa Bonifacio.
Nel 1329 il cardinal Bertrando del Poggetto, su disposizione del papa Giovanni XXII che ancora risiedeva in Avignone, richiese a Ravenna le ossa di Dante per farne un falò in Piazza Grande a Bologna insieme alle copie del De Monarchia. I duchi di Ravenna opposero un netto rifiuto. Si chiamavano Pino della Tosa e Ostasio da Polenta.

Dante anticipa le conquiste dell’uomo rinascimentale:
Sono gli anni in cui Marsilio da Padova si rifugia in Germania presso Ludovico il Bavaro per sfuggire alla persecuzione della Curia per il suo “Defensor pacis” scritto nel 1324, una replica aggiornata della Monarchia di Dante.
Di Pico della Mirandola è rimasta letteralmente proverbiale la prodigiosa memoria: si dice che sapesse recitare la Divina Commedia al contrario, partendo dall'ultimo verso. Certamente aveva letto il De Monarchia.
“Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché [...] tutto secondo il tuo desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai”. (Giovanni Pico della Mirandola, De hominis Dignitate).

Dante anticipa la Riforma: Ognuno è sacerdote di se stesso (Lutero). 

La causa del mancato buon ordinamento della società civile è data dalla commistione dei due poteri religioso e civile. Una vera ossessione per Dante che riempie la sua Cantica di consigli, accuse, rimproveri e invettive sulla grande questione del rapporto tra i due poteri religioso e civile. Un esempio tra le tante terzine della Commedia che affrontano il tema (Inferno XIX 1-6, 52-117, Inferno XXVII 85-111,  Purg VI 91-96,  Purg. XX 70-96, Purg. XXXII 148-160,  Paradiso XXVII 40-66):

Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, 
due soli aver, che l'una e l'altra strada
 facean vedere, e del mondo e di Deo.
L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada
 col pasturale, e l'un con l'altro insieme 
per viva forza mal convien che vada;
 però che, giunti, l'un l'altro non teme: 
se non mi credi, pon mente a la spiga,
 ch'ogn' erba si conosce per lo seme.
...Dì oggimai che la chiesa di Roma, 
per confondere in sé due reggimenti, 
cade nel fango e sé brutta e la soma.
(Purgatorio XVI, 106-114, 127-129)

Gli antecedenti:
Rifiuto di mantenere in Maremma 100 cavalieri armati, richiesti da Bonifacio VIII

Nei primi giorni dell’ottobre 1301 Dante è a Roma, in ambasceria presso Bonifacio VIII. La resa dei conti tra la parte Bianca e la parte Nera è imminente. Dante, eletto priore il 13 giugno 1301, si è fortemente esposto, e in senso segnatamente antipapale: nella seduta del 19 giugno è l’unico a pronunciarsi a favore del ritiro delle truppe (cento cavalieri dislocati in Maremma) prestate in precedenza a Bonifacio, e che il Papa chiede di trattenere: “Dante Alagherii consuluit quod de servuitio faciendo pape nichil fiat” (Dante espresse il parere
che riguardo al servizio da rendere al papa non se ne facesse nulla).

La prima condanna - 7 gennaio 1302
In nome di Dio, amen.
Io Messer Cante dei Gabrielli da Gubbio, onorevole Potestà della Città di Firenze … nell’anno del Signore 1302, al tempo del Santissimo Padre Papa Bonifazio VIII, indizione quindicesima…
OMISSIS
Essendomi venuto alle orecchie sulla base di pubbliche dicerie che Dante Alighieri, durante il tempo del suo Priorato o dopo, 1 -aveva commesso per sé o per altri Baratterie, illeciti lucri, inique estorsioni in denaro o altre cose
...
4 – che aveva fatto spendere denari contro il Sommo Pontefice e per impedire la venuta di re Carlo D’Angiò;
5 – che aveva commesso o fatto commettere frode, falsità, dolo, malizia, baratteria e grave estorsione e aveva operato per dividere la città di Pistoia causando l’espulsione da detta città dei Neri fedeli alla Chiesa Romana, staccandola dall’alleanza con Firenze, dalla soggezione alla Chiesa romana e a re Carlo, paciaro in Toscana;
...
ordino che detto messer Dante, insieme a Palmerio, Orlanduccio e Lippo,…
venga multato di 5.000 fiorini piccoli, che restituisca quello che ha illegittimamente estorto. Se non obbedisca alla condanna entro il terzo giorno da oggi che tutti i suoi beni siano confiscati, devastati e distrutti; e devastati e distrutti restino di proprietà comunale; che, anche se pagante, resti fuori della provincia di Toscana a confino per due anni; che sia escluso per sempre dai pubblici uffici come falsario e barattiere, che paghi la condanna o no.
Tale è la nostra sentenza di condanna.
(Libro del chiodo pag. 3, Firenze, Archivio storico).

Passi della Divina Commedia relativi alla condanna della Chiesa costantiniana e simoniaca

(Inferno XIX 1-6, 52-117,
O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci         
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Ed el gridò: "Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
 Se' tu sì tosto di quell'aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a 'nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?".

Inferno XXVII 85-111,
"Deh, or mi dì: quanto tesoro volle   90
            Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro".     93
            Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria. 96
            Però ti sta, ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.   99
            E se non fosse ch'ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta, 102
            io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.          105
            Di voi pastor s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;   108
            quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.           111
            Fatto v'avete dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?       114
            Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!".

 Purg VI 91-96,
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,   93
            guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.   96


Purg. XVI, 106-114, 127-129
Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, 
due soli aver, che l'una e l'altra strada
 facean vedere, e del mondo e di Deo.
L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada
 col pasturale, e l'un con l'altro insieme 
per viva forza mal convien che vada;
 però che, giunti, l'un l'altro non teme: 
se non mi credi, pon mente a la spiga,
 ch'ogn' erba si conosce per lo seme.
...Dì oggimai che la chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango e sé brutta e la soma.

 Purg. XX 70-96,
Tempo vegg'io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ' suoi. 72
            Sanz'arme n'esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.         75
            Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta.  78
            L'altro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l'altre schiave.          81
            O avarizia, che puoi tu più farne,
poscia c' ha' il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne?  84
            Perché men paia il mal futuro e 'l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.   87
            Veggiolo un'altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.           90
            Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.     93
            O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?      96

 Purg. XXXII 148-160,
Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m'apparve con le ciglia intorno pronte;        150
            e come perché non li fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e basciavansi insieme alcuna volta.  153
            Ma perché l'occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;   156
            poi, di sospetto pieno e d'ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo      159
            a la puttana e a la nova belva.          

  Paradiso XXVII 40-66):

"Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d'oro usata;    42
            ma per acquisto d'esto viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.   45
            Non fu nostra intenzion ch'a destra mano
d'i nostri successor parte sedesse,
parte da l'altra del popol cristiano;    48
            né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;    51
            né ch'io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond'io sovente arrosso e disfavillo.   54
            In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?     57
            Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s'apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi! 60
            Ma l'alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com'io concipio;    63
            e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo".

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