di Paolo Farinella
Il Fatto Quotidiano -
26 maggio 2013
Genova 25
maggio 2013 - Già di prima mattina, come nei giorni precedenti, la chiesa
di San
Benedetto al Porto in Genova, sede della Comunità, è gremita di
folla, accorsa per l’ultimo saluto sulla terra a don
Andrea Gallo. Piove, come se gli angeli volessero partecipare al
distacco fisico e le loro lacrime scendono dal cielo bagnando tutti. La pioggia
è una benedizione che purifica tutti per essere degni di partecipare alla morte
di un profeta che ha partecipato alla vita di tutti quelli che lo hanno
incontrato e amato. In chiesa, oltre alla folla di gente, vi sono alcuni preti,
un paio di Genova e gli altri venuti da
tutta Italia: da Cossato (Biella), da Torino, da Antrosano
(l’Aquila), da Lucca, da Firenze, da Budrio (Bologna), da Napoli, da Caserta e
da altre città.
Parte il
corteo da San Benedetto al Porto verso la chiesa di N. S. del Carmine e
Sant'Agnese, nella zona della Nunziata, passando per la Stazione di Porta
Principe. Un mare di ombrelli copre le strade. Quando il corteo giunge alla
Nunziata il colpo d’occhio di via Balbi, che è un solo fitto ombrello, toglie il
respiro: Genova
non ha mai visto un folla così ai funerali di qualcuno, e pure di un
prete. C’era Genova, c’era l’Italia e anche oltre. A intervalli spontanei e non
organizzati – non esiste nemmeno la parvenza di servizio d’ordine – scoppia
dalla folla «O bella, ciao, ciao, ciao» che è la sola preghiera
laica che accomuna tutti nel segno della libertà. Alla Nunziata, don
Andrea Gallo è preso a spalle dalla Comunità e dai «Camalli» del porto e ci si
avvia per il Carmine, distante poche decine di metri. C’è Vauro, c’è Landini,
c’è Dalla Chiesa, c’è don Ciotti. C’è Dio.
Altra folla in
attesa che unita a quella che arriva forma un oceano di umanità riunita attorno
all'Uomo, al Prete, al Combattente che in tutta la vita ha solo unito tutti,
restando rigorosamente Uomo, Prete e Combattente di parte perché
non si può stare con tutti come alibi per non stare con nessuno. Come
in fisica un corpo non può occupare due spazi, così anche la coscienza umana non
può stare dalla parte degli oppressi e anche da quella degli oppressori, dei
giusti e degli ingiusti, dei ladri e dei derubati, dei poveri e dei ricchi. Don
Gallo stava da una parte ben precisa, ma costringeva tutti all'unità con gli
altri, facendo scelte radicali. Fu amato da tutti perché non barò mai e non era
irenico a buon mercato. La Pace per lui aveva un cognome puntuale:
Giustizia.
I funerali
sono presieduti dal cardinale Bagnasco Angelo,
vescovo di Genova e presidente della Cei. Egli si sforza fin dall'inizio di
mantenere un contegno asettico, istituzionale, neutro, impassibile, anzi
impenetrabile. Prigioniero del suo ruolo cultuale non riesce – e forse non si
sforza nemmeno o non può – a capire
quello che sta succedendo. Non ha visto il mare di persone che
affollava non solo la chiesa ma via Brignole De Ferrari, la piazzetta del
mercato, Piazza della Nunziata, via Balbi. Bagnasco è «dentro», la gente è
«fuori». Egli gestisce un evento straordinario come se fosse un ordinario
funerale qualsiasi e non si rende conto che il ritorno di don Gallo al Carmine è
una forma di risarcimento postumo, perché da quella Chiesa nel 1969 fu
letteralmente cacciato via da un altro cardinale, Giuseppe Siri, campione unico
di ottusità maniacale.
Bagnasco
prende i fogli, forse scritti da altri, e comincia a leggere. Incauto, non è
capace di dire una parola fuori dal protocollo rituale, «recitato»
pedissequamente, anche nelle parti lasciate libere all'iniziativa del
celebrante, secondo l’occasione del momento. Al nome di Siri «padre e
benefattore», da
fuori scoppia un urlo che immediatamente si propaga dentro la chiesa
al grido di «Andrea, Andrea». Solo l’intervento di Lilli, la storica segretaria
di don Gallo e la mamma della Comunità, riesce a calmare lo sdegno e la
contestazione.
Un’occasione
perduta per il cardinale e per la chiesa istituzionale,
rappresentata da una trentina di preti presenti in chiesa, alcuni, assenti con
il cuore e l’anima: sono infastiditi dalle preghiere, da alcune presenze e forse
anche dalla presenza stessa di don Gallo. Il cardinale non vedendo e non
rendendosi conto che la chiesa è là fuori della balaustra e del tempio, parla
come se parlasse a un raduno di preti e manca l’appuntamento con la storia della
sua città che sabato 25 maggio 2013, dalle ore 11,30 alle ore 13,30 si era data
convegno per celebrare l’Eucaristia con il suo prete, con il Gallo, comandante,
sobillatore di coscienze, perturbatore delle quiete, dissacratore del Dio
dissacrato da tutte le gerarchie ecclesiastiche che hanno fatto finta di
appropriarsene per impedire che la gente della strada, gli ultimi, i perduti, i
tartassati dai governi dei tecnici e delle larghe intese, appoggiati dalla Cei e
dal Vaticano, potessero accedere al Dio della Giustizia e dell’Amore.
Il cardinale
Angelo Bagnasco nel giorno del funerale di don Andrea Gallo, non si presenta
come il padre di una chiesa in ricerca, ma come il burocrate
del sacro e delle formulette prefabbricate, limitandosi a «recitare
un funerale» anonimo. La folla lo percepisce come «nemico», anzi peggio, come
«altro». Il
funerale del Gallo è l’emblema visibile di due chiese parallele: una
di popolo, di sfigati, di gente di carne e di sangue, che sbaglia, ma che ama e
l’altra quella rappresentata dal cardinale che vive in un altro mondo, un mondo
alieno, senza storia e senza cuore. Una chiesa asfittica, morta. Don Gallo morto
è vivo e pimpante. Il cardinale vivente e imbacuccato in paramenti e cappelli, è
morto e seppellito. Nel giorno del funerale del Gallo abbiamo
seppellito una Chiesa, ormai finita e assistito alla risurrezione
popolare di un profeta che, autentico, parla anche da morto e fa vibrare i cuori
del desiderio di Dio che è lì in quella folla, possente nella sua
tenerezza.
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