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lunedì 17 giugno 2013

L'economia della truffa

        “A che punto siamo arrivati! L’economia della truffa”

       Sintesi della relazione tenuta al “Giardino dei ciliegi” il 31 maggio 2013

La riflessione su questo tema è stata suggerita da alcune truffe “ideologiche” di esponenti di spicco della classe dirigente mondiale ed europea, smascherate dall’analisi critica di alcuni economisti, come si dirà più avanti. Questi episodi hanno richiamato l’attualità di un libro scritto nel 2004, a 96 anni, dall’economista americano John K. Galbraith, dal titolo “L’economia della truffa”. In esso si denuncia il carattere ideologico della teoria economica dominante, messa al servizio dei grandi interessi capitalistici. Galbraith sottolinea il fatto che in economia l’inganno ed il falso sono accettati sia da chi li compie, sia da chi li subisce, in quanto endemici al nostro tessuto sociale. In tal modo la realtà viene mistificata e si distorce a piacimento la verità dando vita a miti e leggende: la speculazione come forma d’ingegno, l’economia di libero mercato come sistema di massima efficienza per risolvere i problemi del mondo, la guerra come strumento di democrazia.
Ciò che caratterizza in particolare l’ideologia economica è l’abbandono della categoria “capitalismo” sostituita da quella di “mercato” che riduce il processo economico a puro e semplice meccanismo di scambio, la cui efficienza sarebbe assicurata dalla libera concorrenza a vantaggio del “consumatore sovrano” che otterrebbe le merci ai prezzi più bassi possibili. Si nasconde in tal modo la realtà del dominio attuale praticato da veri e propri poteri oligopolistici e/o monopolistici, giacché sono le grandi imprese e non il mercato impersonale a manovrare i prezzi per realizzare il massimo profitto. Il meccanismo economico è ridotto così alla fase della circolazione della ricchezza, trascurando la premessa fondamentale della produzione, la cui natura capitalistica è attestata dal rapporto sociale conflittuale fra capitale e lavoro.

Categoria indispensabile per comprendere la realtà attuale è perciò quella di “capitalismo”, che è la forma storico-sociale assunta nel mondo moderno dalla funzione economica, presente in tutte le società come attività organizzata di base per produrre le risorse necessarie al mantenimento della vita individuale e collettiva. Occorre allora partire dalla strutturale legge del meccanismo capitalistico che assegna al sistema economico della produzione e della distribuzione della ricchezza, non l’obiettivo della soddisfazione dei bisogni umani, che dovrebbero essere definiti autonomamente dalla società che si vuole democratica, bensì quello della soddisfazione del bisogno di valorizzazione ed accumulazione del capitale. Di conseguenza gli è necessaria l’egemonia culturale come strumento di potere per controllare la vita sociale, imporre il modo di consumo funzionale ai suoi interessi, mettere al proprio servizio l’agire politico dei governi e dei parlamenti. Sotto il profilo dei rapporti di produzione, lo sfruttamento del lavoro è decisivo per ottenere la massima redditività del capitale. Quindi il conflitto di classe fra capitale e lavoro è oggettivamente strutturale, come mostra il recente libro di Gallino, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”. “Dopo”, perché è scomparsa la lotta di classe dal basso, agita e diretta dal mondo del lavoro e dalle sue rappresentanze sindacali e politiche, in quanto il soggetto lavorativo ne è stato espropriato ed il conflitto sociale è oggi praticato e governato dall’alto, dal capitale stesso. Basta ricordare la recente vicenda Fiat , col duro attacco di Marchionne ai diritti del lavoro ed ai salari.


                           L’origine dell’attuale fase storica del capitalismo

Nel secondo dopoguerra fino ad oggi, possiamo suddividere l’andamento dell’economia capitalistica in tre fasi: quella del keynesismo sociale, quella neoliberista e quella della crisi in corso.



                                                 Il periodo 1945-anni ‘70

Superata con la guerra la crisi degli anni ’30, per evitare di ricadere in quella depressione e per far crescere l’economia, il capitalismo si è affidato alla politica, se non altro sotto la minaccia sovietica come alternativa al sistema occidentale.
Possiamo sintetizzare in alcuni punti le caratteristiche fondamentali di questa fase: concezione politica dell’economia, regolazione sociale del capitalismo, compromesso capitale/lavoro col conflitto distributivo mediato politicamente ed orientato verso la classe lavoratrice.
E’ stata l’epoca in cui è nato lo Stato sociale, con fondamentali diritti, con al primo posto quello al lavoro, a cui si aggiungono il diritto alla salute, all’istruzione per tutti e via dicendo. Il diritto al lavoro è chiaramente enunciato nella Carta delle Nazioni Unite al cap.IX, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo artt. 22/23, e nella nostra Costituzione , art. 4, 35/6, con l’aggiunta che l’attività economica pubblica e privata deve avere fini sociali, art.41.
La politica dei governi, di ispirazione keynesiana, è stata la politica della domanda. Poiché il meccanismo economico capitalistico, nella sua autonomia, non è capace di esprimere una domanda all’altezza della produzione possibile, generando disoccupazione, allora per garantire il diritto al lavoro col pieno impiego deve intervenire la spesa pubblica e la politica fiscale di distribuzione del reddito dall’alto verso il basso, in modo da creare la domanda in grado di consumare l’intero reddito prodotto al livello della piena occupazione. C’è anche da tenere presente che nell’economia capitalistica pura, non corretta, non sono riconosciuti bisogni e diritti sociali, essendo l’unico diritto ammesso e riconosciuto quello al profitto della proprietà privata del capitale.

                        La crisi degli anni ’70 ed il trionfo del “neoliberismo”

L’economia capitalistica governata politicamente dall’impostazione keynesiana, con gli anni ’70 entrava in una crisi profonda, caratterizzata dalla stagflazione. Per usare una previsione del 1942 di Kalecki contro Keynes, il segno del momento è stato manifestato dallo “sciopero del capitale”. In altre parole, gli investimenti privati si riducevano in misura consistente, riappariva quindi la disoccupazione, accompagnata da alta inflazione attribuita all’eccesso di spesa pubblica. In questo periodo prendeva gradatamente forza una profonda rivoluzione nella sfera culturale e nelle politiche economico-sociali.
Si passava dalla precedente concezione politica dell’economia ad una concezione economica della politica. Ciò ha determinato l’accettazione del capitalismo come ordine economico-sociale naturale, insorpassabile, senza alternative, con la rinuncia all’analisi critica circa la sua natura. E’ stato il momento in cui sono fiorite le teorie della fine della storia (Fukuiama). Da allora, la categoria teorica dominante non è stata più “capitalismo” ma “mercato”. Il problema economico su cui prosperano ancora le teorie “neoclassiche” è diventato quello dell’equilibrio di mercato, col consumatore come soggetto centrale. Il rapporto di produzione capitale/lavoro è stato sostituito ideologicamente da quello produttore-venditore e consumatore. Su tutti i piani, anche nell’etica sociale, è penetrato in misura sempre più pervasiva il più estremo individualismo, come traduzione pratica dell’individualismo metodologico della teoria economica “ortodossa”.
Sul piano dell’azione politica sono stati acriticamente accettati e praticati i precetti del neoliberismo. Si accusavano, e si accusano tuttora, le politiche economiche keynesiane di essere le responsabili della crisi in quanto, con l’eccesso di consumo del reddito prodotto, impediscono la formazione del risparmio necessario agli investimenti e quindi al rilancio degli stessi ed al riassorbimento della disoccupazione. Dalla politica della domanda si passava così alla politica dell’offerta, in cui è privilegiato il momento accumulativo, con la riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori, con l’aumento della produttività del lavoro, con l’introduzione di una sua sempre maggiore flessibilità. Il principio è che il taglio del costo della mano d’opera consente alle imprese di competere con successo su un mercato mondiale sempre più aperto e quindi di realizzare i profitti che permetteranno successivamente di allargare la base produttiva, tornando così ad assumere i lavoratori disoccupati.
Lo Stato è il problema non la soluzione (Reagan). Deve perciò ritirarsi dall’agire direttamente nella sfera economica, ma sostenerla dall’esterno con le privatizzazioni, le liberalizzazioni, la deregolamentazione, la libertà di movimento dei capitali, in modo da affidare al mercato capitalistico la quota più alta possibile di risorse disponibili in quanto il suo meccanismo garantisce il massimo rendimento al loro impiego. Perciò dalla fiscalità precedente basata sulla distribuzione del reddito dall’alto verso il basso, si è passati ad una fiscalità invertita dal basso verso l’alto, con la riduzione delle aliquote massime, dato che sono i ricchi che risparmiano ed investono. Le banche centrali, infine, divorziavano dai governi (non obbligatoriamente però. Solo in Italia, Ciampi ha tradotto quella facoltà in obbligo rigido), nel senso di non finanziare più i loro deficit ed il conseguente debito pubblico, ma consegnando gli Stati ai mercati finanziari che la libertà di movimento dei capitali e la deregolamentazione hanno reso sempre più potenti.
Gli effetti sociali. Con questa controrivoluzione sociale, è finita l’epoca dei diritti sociali, gradatamente ridotti e svuotati di contenuto. Con la riduzione dei salari (diretti, indiretti e differiti) e le “riforme del mercato del lavoro” aumentava la disuguaglianza sociale con una ripartizione del reddito che ha spaccato la società fra una èlite privilegiata ed una massa sempre più consistente di cittadini a basso reddito, verso la quale continua tuttora a precipitare anche il ceto medio. Lo stesso diritto al lavoro è stato di fatto cancellato, in base al principio che è il mercato capitalistico che crea i posti di lavoro necessari alle imprese. Pertanto il lavoro deve recuperare la sua figura di puro fattore della produzione, da combinare con gli altri (materie prime e macchinari) nel processo produttivo, in modo da essere reso occupabile (è il senso della riforma Fornero), eliminando le tutele sindacali e legali che lo rendono rigido e non rispondente alle necessità imprenditoriali.
Il messaggio è chiaro: i lavoratori, nel loro interesse, devono rinunciare a diritti e salari oggi – perché altrimenti la disoccupazione aumenta ed i salari scenderanno ulteriormente - in modo da rilanciare in futuro produzione, occupazione e recupero salariale.

Ma cosa ci dice il riscontro empirico di questa dottrina? Ci dice che si tratta di una grossa truffa, purtroppo subita passivamente dalle sue vittime e dalle organizzazioni sindacali e politiche che le dovrebbero difendere. Alcuni grafici ce ne forniscono la prova.
Il primo mostra l’andamento del tasso di profitto e degli investimenti industriali in America del Nord, Europa e Giappone, dalla fine degli anni ’60 in poi. Vediamo che fino al decennio ’80 i profitti diminuiscono e con essi gli investimenti. Dal 1983/4/5, risulta invece che i profitti riprendono a crescere rapidamente e consistentemente, come effetto dell’attacco al lavoro di cui si è detto, mentre il tasso degli investimenti produttivi continua a scendere. Per quel che riguarda i salari, dal ’73 al 2007 si riduce la loro quota sul reddito nazionale: Francia –12,07, Germania – 15,90, Italia – 7,34, Giappone – 5,06, Spagna – 4,26, Regno Unito – 15,73, Usa – 10,30, altri 12 paesi europei – 11,37.
In sostanza, i profitti non sono stati indirizzati verso il settore produttivo e quindi a ricreare posti di lavoro, ma erano dirottati verso quello finanziario delle rendite e dei facili ed immediati guadagni, come dimostra un grafico sull’andamento della borsa di New York dal 1900 al 2008. Vi si nota che con gli anni ’80 la curva prende a salire vertiginosamente, ben al di sopra della crescita del PIL (durante la presidenza Clinton l’indice borsistico aumentava del 201% contro il 17% del PIL) mentre nei periodi precedenti l’indice grafico dei corsi si muoveva sulla linea orizzontale, pur con oscillazioni. Insomma la deflazione salariale è servita ad alimentare l’inflazione finanziaria, sostenuta anche dalla liquidità delle banche centrali, prevalentemente ora rivolta non al sostegno dell’economia “reale” ma a quello della finanza, come settore preminente dell’accumulazione capitalistica.
Che si tratti di una truffa ce lo dicono anche le teorie di due economisti “ortodossi”. Friedman sostiene che perché non ci sia inflazione è necessario un tasso di disoccupazione, il NAIRU (Not acceleration inflation rate of unemployment). L’altro è Blanchard, capo economista del FMI. Ci viene detto che nell’economia contemporanea il salario reale di equilibrio è quello offerto dalle imprese. Perché i lavoratori lo accettino, è necessario indebolire la loro capacità di resistenza e per questo occorre mantenere un certo livello di disoccupazione (tasso naturale di equilibrio di disoccupazione). In breve il messaggio chiaramente espresso afferma che il sistema capitalistico funziona solo se c’è disoccupazione. Conclusione: l’invito ai lavoratori a ridurre i salari e a rinunciare ai loro diritti per riavere in futuro occupazione e recupero salariale è dimostrato essere una grossa truffa, purtroppo subita senza reazione.

                               La crisi iniziata nel 2007/8 ed ancora in corso

Questa crisi non solo conferma le truffe precedentemente richiamate, ma ne aggiunge di nuove, scientemente programmate.
La crisi ha avuto il suo momento tragico nel settembre 2008, quando il sistema capitalistico crollava. L’economista Usa Stiglitz ha dichiarato: “il settembre nero è stato per l’economia di mercato capitalista l’equivalente della caduta del muro di Berlino per i regimi comunisti”. Il crollo però non è avvenuto. Perché? Perché lo Stato che era il problema, dagli stessi che lo dichiaravano tale veniva invocato per la salvezza del sistema. Una volta realizzata, allo Stato è stato richiesto di ritirarsi e lasciare di nuovo i meccanismi del mercato a sé stessi. Comunque il salvataggio c’è stato ed è consistito nel convertire le passività dei privati in debito pubblico, senza però che i governi scambiassero questo intervento con una nuova disciplina politica dell’economia capitalistica, come invece è avvenuto con la crisi del ’30. Anzi il problema politicamente assunto è oggi quello della copertura di questi debiti pubblici enormemente aumentati. In altre parole, si sono socializzate le perdite private per garantire il mantenimento dei profitti.
Di conseguenza si è messa in atto un’altra grossa truffa a danno dei cittadini e dei lavoratori in specie, con la quale la necessità di ridurre il debito pubblico è stata ed è usata come occasione per un’ulteriore diminuzione della spesa sociale, ulteriori privatizzazioni e riduzioni dei servizi pubblici, in breve per portare a compimento la demolizione dello Stato sociale e dei diritti del mondo del lavoro, come già nel 2008 suggeriva al governo di allora l’economista bocconiani Giavazzi.
Per sostenere questo indirizzo fino dal 2002 Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, e Giavazzi, docente alla Bocconi, hanno lanciato la teoria della austerità espansiva. Vi si sostiene che lo sviluppo economico e la crescita della ricchezza richiedono una politica di drastico calo della spesa pubblica, quasi esclusivamente sociale. A confermare questa teoria due economisti, Reinhart e Rogoff, hanno presentato i risultati di una loro ricerca empirica riguardante l’arco di tempo 1946-2009, in base alla quale i paesi con un debito pubblico superiore al 90% del PIL sono decresciuti dello 0,1% medio annuo. Da un controllo dei loro calcoli sono emerse però omissioni incredibili, eliminate le quali il risultato ottenuto è che anche i paesi con un debito pubblico superiore al 90% hanno avuto storicamente una crescita del 2,2% e non la decrescita dello 0,1%. E’ difficile pensare a semplici errori quando nel conteggio di Reinhart e Rogoff si sono esclusi Australia, Canada e Nuova Zelanda che nello stesso periodo di tempo registravano un elevato debito ed un elevato tasso di crescita; lasciati fuori dal calcolo arbitrariamente alcuni anni ed infine sui dati è stato applicato un peso diverso, per cui paesi con forte debito pubblico ed alta crescita hanno visto ridotta la loro influenza nella media generale. Si tratta, quindi, di un calcolo arrangiato per ottenere risultati conformi alla ideologia dell’austerità espansiva.
Nondimeno su questo indirizzo è basata la struttura dell’attuale Unione Europea, in particolare l’area dell’Euro, come pure vi si ispirano gli indirizzi della Commissione Europea e l’esercizio della politica monetaria da parte della Banca Centrale Europea (BCE). In relazione a quest’ultima basta ricordare la lettera di Trichet e Draghi dell’agosto del 2011 al nostro governo, nella quale si è tracciato un vero e proprio programma di politica economico-sociale incardinato sull’attacco (le cosiddette “riforme”) alle pensioni, al lavoro (“riforma” Fornero), alla spesa sociale e fatto proprio dal governo Monti.

                                  
                                                   L’Europa dell’Euro

A questo punto si impone un breve accenno alle truffe su cui sono basate le strutture economiche europee. Una prima truffa consiste nel trasferimento di sovranità effettiva a istituzioni tecnocratico-burocratiche, come la BCE e la Commissione che non rispondono ai cittadini europei del loro operato. Stanno, infatti, imponendo ai paesi in maggiori difficoltà economiche una politica di austerità nonostante i suoi risultati dimostrino l’effetto decrescita che essa provoca, rendendo così sempre più difficile il rimborso del loro debito pubblico.
Per sostenere questo indirizzo, Draghi, presidente della BCE, a marzo di quest’anno ha presentato ai capi di Stato e di governo europei due grafici con i quali ha inteso provare che nei paesi con forte deficit pubblico, e quindi col debito tendente a crescere, come sono i paesi mediterranei, i salari sono aumentati al disopra della produttività del lavoro. In quelli virtuosi, invece, c’è stata corrispondenza fra i due dati. In altre parole, la causa delle difficoltà in cui si trovano le economie in recessione ricade sui lavoratori, e non sulla struttura ed i meccanismi dell’Unione Europea e dell’Euro. Uno studioso di politica macro-economica, Andrew Watt, ha denunciato la truffa perpetrata da Draghi nei suoi conteggi, consistente nel fatto che i salari sono conteggiati al loro valore nominale, cioè senza decurtare l’inflazione, mentre la produttività è calcolata in termini reali, cioè depurata dell’inflazione. Si tratta cioè dell’errore elementare di mettere a confronto dati disomogenei. Scrive Watt: «o un punto chiave della politica dell’Unione europea ignora il corretto uso di fondamentali concetti economici, oppure, intenzionalmente, li utilizza con l’introduzione di un errore, per costringere i politici a seguire una politica certamente coerente con le loro preferenze ideologiche, ma in contrasto con la stabilità ed il recupero della zona Euro…»
Ma oltre a questa fedeltà ideologica a politiche economiche neoliberiste, occorre considerare anche gli elementi strutturali dell’Unione europea e dell’Euro. Per i nostri paesi l’Euro è moneta straniera, è una moneta senza Stato con Stati senza moneta. Con la perdita della sovranità monetaria la competizione economica si gioca allora tutta con l’attacco ai salari. Non a caso si cita spesso la Germania in cui la riforma del lavoro e dello Stato sociale del 2003 (“riforma” Hartz) ha ridotto drasticamente il salario, con quello relativo (differenza fra salario reale e produttività del lavoro) ai minimi storici e la conseguente necessità di collocare all’estero una quota altissima della propria produzione.
Il perno del sistema è l’art. 123 del Trattato di Lisbona (ex 105 e segg. di quello di Maastricht). Esso consegna l’emissione di moneta alla BCE, facendole divieto di finanziare le istituzioni politiche (Stati, Regioni, Land, Dipartimenti, Province, Comuni ecc.) mentre la liquidità monetaria deve essere indirizzata solo verso le istituzioni finanziarie private (banche, istituti finanziari vari ecc.). Avendo la moneta una funzione pubblica, il principio su cui sono costruite l’’UE e l’Euro innalza in tal modo gli interessi privati del capitale finanziario al rango di interessi collettivi della società, cui tutti gli altri devono subordinarsi. Ciò significa la morte della democrazia sostanziale, dato che non sono più le istituzioni politiche il luogo di definizione degli obiettivi comuni.
Sul piano sociale si riversano conseguenze devastanti, in quanto gli Stati vengono ad assumere una configurazione privatistica, nel senso che devono finanziare il loro debito pubblico rivolgendosi ai mercati finanziari e, quindi, sottostare alle loro condizioni come un privato qualsiasi. Non a caso l’area dell’Euro, che complessivamente è la più virtuosa del mondo per quel che riguarda il deficit di bilancio pubblico ed il debito pubblico, è quella dove si è scatenata la speculazione finanziaria sui titoli di Stato, imponendo interessi altissimi, in quanto la BCE finanzia a tassi agevolati le banche private che poi esigono dagli Stati più in difficoltà una remunerazione ben più alta, facendo in tal modo crescere il loro indebitamento.
Per chiudere occorre esaminare la truffa racchiusa nel patto di stabilità. Il suo principio costitutivo è che tutto ciò che è pubblico è male, mentre tutto ciò che privato è bene. Così si impongono parametri al debito pubblico, mentre si trascura del tutto il livello del debito privato. Pertanto se ne ricava che i paesi che rispettano i parametri del patto hanno l’economia stabile e sicura (indipendentemente dal loro debito privato), giacché i problemi provengono solo ed esclusivamente dal debito pubblico e quindi dall’eccesso di spesa pubblica.
Prima di tutto è da notare che i due parametri da non superare del 3% di deficit pubblico sul PIL e del 60% del debito pubblico sul PIL, non hanno nessuna motivazione economica. Sono i dati della situazione tedesca ai primi anni ’90 che vennero accolti per paura, soprattutto francese ed inglese, che, dopo l’unificazione, la Germania si sganciasse dai legami europei. Il PIL nominale tedesco era il 5%, col debito pubblico al 60% e quindi per mantenere quel livello, dato quel tasso di crescita, basta non fare oltrepassare al deficit la soglia del 3% (5% del 60%). I parametri sono nati così.
Il Trattato di Lisbona li ripropone, anche con maggiore severità, insieme all’Euro. Esso è stato presentato al nostro parlamento nell’autunno del 2008, che lo ha approvato senza approfondimento di nessun genere. Si è trattato di un’approvazione truffaldina, ideologica, in quanto l’esperienza, in particolare di quel periodo, invalidava il patto di stabilità ed il principio fondativo dell’Unione Europea per il quale i problemi economici sorgono nella sfera pubblica. Infatti, nel settembre del 2008 è crollato il sistema finanziario privato salvato proprio dalla mano pubblica. Cioè la crisi è esplosa per l’eccesso di speculazioni finanziarie e debiti privati, non a causa della spesa pubblica o dei salari già allora fortemente ridotti. Non solo, ma in Europa i paesi che sono crollati per primi sono stati l’Irlanda che aveva un attivo di bilancio del 2,5%, un debito pubblico del 25% del Pil e una spesa pubblica del 27% del Pil contro una media europea del 47%; e la Spagna con un attivo di bilancio dell’1%, e un debito pubblico de 36% del Pil. Insomma sono crollati subito gli unici due paesi che rispettavano il patto di stabilità, che evidentemente non stabilizza niente. Nonostante ciò il nostro parlamento, all’unanimità o quasi, ha approvato istituzioni di cui l’esperienza ha dimostrato tutta la debolezza, senza alcun approfondimento e riflessione critica, senza coinvolgimento democratico dei cittadini, come invece la situazione avrebbe richiesto e tuttora richiederebbe.

Conclusione

Il capitalismo è colpito dalla contraddizione fra l’istanza accumulativa e realizzativa.

A sua volta nell’UE entrano in conflitto l’austerità che ci si illude possa servire a rimborsare i debiti, mentre aggrava le posizioni debitorie, e il rilancio della crescita che richiede interventi pubblici più sostenuti, visto che da solo il mercato capitalistico non è in grado di superare le proprie difficoltà. Infine abbiamo la contraddizione monetaria di una moneta senza Stato e di Stati senza moneta.

Rimane comunque un interrogativo di fondo. A che cosa deve tendere la politica economica e sociale? A rimettere in moto il processo capitalistico secondo le sue attuali coordinate strutturali, oppure a rilanciare un progetto di nuova regolazione sociale del sistema, dopo la fine di quella keynesiana dei “Trenta gloriosi”? Ma questo capitalismo dà segni di disponibilità per un nuovo compromesso sociale?
Le risposte non sono facili data la complessità della situazione. Comunque un primo passo per affrontare e superare i problemi è quello di impostarli correttamente, tornando prima di tutto a praticare l’analisi critica dei processi capitalistici e delle condizioni della società attuale, per passare poi ad elaborare un progetto di intervento pubblico perché l’economia sia democraticamente regolamentata, in modo da essere condotta a svolgere la sua funzione propria di servizio per il benessere dei cittadini.


Roberto Bartoli














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