“A che punto siamo arrivati! L’economia della truffa”
Sintesi della relazione tenuta al “Giardino
dei ciliegi” il 31 maggio 2013
La riflessione su questo tema è stata suggerita da alcune
truffe “ideologiche” di esponenti di spicco della classe dirigente mondiale ed
europea, smascherate dall’analisi critica di alcuni economisti, come si dirà
più avanti. Questi episodi hanno richiamato l’attualità di un libro scritto nel
2004, a 96 anni, dall’economista americano John K. Galbraith, dal titolo “L’economia
della truffa”. In esso si denuncia il carattere ideologico della teoria
economica dominante, messa al servizio dei grandi interessi capitalistici.
Galbraith sottolinea il fatto che in economia l’inganno ed il falso sono
accettati sia da chi li compie, sia da chi li subisce, in quanto endemici al
nostro tessuto sociale. In tal modo la realtà viene mistificata e si distorce a
piacimento la verità dando vita a miti e leggende: la speculazione come forma
d’ingegno, l’economia di libero mercato come sistema di massima efficienza per
risolvere i problemi del mondo, la guerra come strumento di democrazia.
Ciò che caratterizza in particolare l’ideologia economica
è l’abbandono della categoria “capitalismo” sostituita da quella di “mercato”
che riduce il processo economico a puro e semplice meccanismo di scambio, la
cui efficienza sarebbe assicurata dalla libera concorrenza a vantaggio del
“consumatore sovrano” che otterrebbe le merci ai prezzi più bassi possibili. Si
nasconde in tal modo la realtà del dominio attuale praticato da veri e propri
poteri oligopolistici e/o monopolistici, giacché sono le grandi imprese e non
il mercato impersonale a manovrare i prezzi per realizzare il massimo profitto.
Il meccanismo economico è ridotto così alla fase della circolazione della
ricchezza, trascurando la premessa fondamentale della produzione, la cui natura
capitalistica è attestata dal rapporto sociale conflittuale fra capitale e
lavoro.
Categoria indispensabile per comprendere la realtà
attuale è perciò quella di “capitalismo”, che è la forma storico-sociale
assunta nel mondo moderno dalla funzione economica, presente in tutte le
società come attività organizzata di base per produrre le risorse necessarie al
mantenimento della vita individuale e collettiva. Occorre allora partire dalla
strutturale legge del meccanismo capitalistico che assegna al sistema economico
della produzione e della distribuzione della ricchezza, non l’obiettivo della
soddisfazione dei bisogni umani, che dovrebbero essere definiti autonomamente
dalla società che si vuole democratica, bensì quello della soddisfazione del
bisogno di valorizzazione ed accumulazione del capitale. Di conseguenza gli è
necessaria l’egemonia culturale come strumento di potere per controllare la
vita sociale, imporre il modo di consumo funzionale ai suoi interessi, mettere
al proprio servizio l’agire politico dei governi e dei parlamenti. Sotto il
profilo dei rapporti di produzione, lo sfruttamento del lavoro è decisivo per
ottenere la massima redditività del capitale. Quindi il conflitto di classe fra
capitale e lavoro è oggettivamente strutturale, come mostra il recente libro di
Gallino, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”. “Dopo”, perché è
scomparsa la lotta di classe dal basso, agita e diretta dal mondo del lavoro e
dalle sue rappresentanze sindacali e politiche, in quanto il soggetto
lavorativo ne è stato espropriato ed il conflitto sociale è oggi praticato e
governato dall’alto, dal capitale stesso. Basta ricordare la recente vicenda
Fiat , col duro attacco di Marchionne ai diritti del lavoro ed ai salari.
L’origine dell’attuale fase
storica del capitalismo
Nel secondo dopoguerra fino ad oggi, possiamo suddividere
l’andamento dell’economia capitalistica in tre fasi: quella del keynesismo
sociale, quella neoliberista e quella della crisi in corso.
Il periodo 1945-anni ‘70
Superata con la guerra la crisi degli anni ’30, per
evitare di ricadere in quella depressione e per far crescere l’economia, il
capitalismo si è affidato alla politica, se non altro sotto la minaccia
sovietica come alternativa al sistema occidentale.
Possiamo sintetizzare in alcuni punti le caratteristiche
fondamentali di questa fase: concezione politica dell’economia, regolazione
sociale del capitalismo, compromesso capitale/lavoro col conflitto distributivo
mediato politicamente ed orientato verso la classe lavoratrice.
E’ stata l’epoca in cui è nato lo Stato sociale, con
fondamentali diritti, con al primo posto quello al lavoro, a cui si aggiungono
il diritto alla salute, all’istruzione per tutti e via dicendo. Il diritto al
lavoro è chiaramente enunciato nella Carta delle Nazioni Unite al cap.IX, nella
Dichiarazione dei diritti dell’uomo artt. 22/23, e nella nostra Costituzione ,
art. 4, 35/6, con l’aggiunta che l’attività economica pubblica e privata deve
avere fini sociali, art.41.
La politica dei governi, di ispirazione keynesiana, è
stata la politica della domanda. Poiché il meccanismo economico capitalistico,
nella sua autonomia, non è capace di esprimere una domanda all’altezza della
produzione possibile, generando disoccupazione, allora per garantire il diritto
al lavoro col pieno impiego deve intervenire la spesa pubblica e la politica
fiscale di distribuzione del reddito dall’alto verso il basso, in modo da
creare la domanda in grado di consumare l’intero reddito prodotto al livello
della piena occupazione. C’è anche da tenere presente che nell’economia
capitalistica pura, non corretta, non sono riconosciuti bisogni e diritti
sociali, essendo l’unico diritto ammesso e riconosciuto quello al profitto
della proprietà privata del capitale.
La crisi degli anni ’70 ed
il trionfo del “neoliberismo”
L’economia capitalistica governata politicamente
dall’impostazione keynesiana, con gli anni ’70 entrava in una crisi profonda,
caratterizzata dalla stagflazione. Per usare una previsione del 1942 di
Kalecki contro Keynes, il segno del momento è stato manifestato dallo “sciopero
del capitale”. In altre parole, gli investimenti privati si riducevano in
misura consistente, riappariva quindi la disoccupazione, accompagnata da alta
inflazione attribuita all’eccesso di spesa pubblica. In questo periodo prendeva
gradatamente forza una profonda rivoluzione nella sfera culturale e nelle
politiche economico-sociali.
Si passava dalla precedente concezione politica
dell’economia ad una concezione economica della politica. Ciò ha
determinato l’accettazione del capitalismo come ordine economico-sociale naturale,
insorpassabile, senza alternative, con la rinuncia all’analisi critica circa la
sua natura. E’ stato il momento in cui sono fiorite le teorie della fine della
storia (Fukuiama). Da allora, la categoria teorica dominante non è stata più
“capitalismo” ma “mercato”. Il problema economico su cui prosperano ancora
le teorie “neoclassiche” è diventato quello dell’equilibrio di mercato, col
consumatore come soggetto centrale. Il rapporto di produzione
capitale/lavoro è stato sostituito ideologicamente da quello
produttore-venditore e consumatore. Su tutti i piani, anche nell’etica sociale,
è penetrato in misura sempre più pervasiva il più estremo individualismo, come
traduzione pratica dell’individualismo metodologico della teoria economica
“ortodossa”.
Sul piano dell’azione politica sono stati acriticamente
accettati e praticati i precetti del neoliberismo. Si accusavano, e si accusano
tuttora, le politiche economiche keynesiane di essere le responsabili della
crisi in quanto, con l’eccesso di consumo del reddito prodotto, impediscono la
formazione del risparmio necessario agli investimenti e quindi al rilancio
degli stessi ed al riassorbimento della disoccupazione. Dalla politica della
domanda si passava così alla politica dell’offerta, in cui è privilegiato
il momento accumulativo, con la riduzione dei salari e dei diritti dei
lavoratori, con l’aumento della produttività del lavoro, con l’introduzione di
una sua sempre maggiore flessibilità. Il principio è che il taglio del costo
della mano d’opera consente alle imprese di competere con successo su un
mercato mondiale sempre più aperto e quindi di realizzare i profitti che
permetteranno successivamente di allargare la base produttiva, tornando così ad
assumere i lavoratori disoccupati.
Lo Stato è il problema non la soluzione (Reagan).
Deve perciò ritirarsi dall’agire direttamente nella sfera economica, ma
sostenerla dall’esterno con le privatizzazioni, le liberalizzazioni, la
deregolamentazione, la libertà di movimento dei capitali, in modo da affidare
al mercato capitalistico la quota più alta possibile di risorse disponibili in
quanto il suo meccanismo garantisce il massimo rendimento al loro impiego.
Perciò dalla fiscalità precedente basata sulla distribuzione del reddito
dall’alto verso il basso, si è passati ad una fiscalità invertita dal basso
verso l’alto, con la riduzione delle aliquote massime, dato che sono i
ricchi che risparmiano ed investono. Le banche centrali, infine, divorziavano
dai governi (non obbligatoriamente però. Solo in Italia, Ciampi ha tradotto
quella facoltà in obbligo rigido), nel senso di non finanziare più i loro
deficit ed il conseguente debito pubblico, ma consegnando gli Stati ai mercati
finanziari che la libertà di movimento dei capitali e la deregolamentazione
hanno reso sempre più potenti.
Gli effetti sociali. Con questa controrivoluzione
sociale, è finita l’epoca dei diritti sociali, gradatamente ridotti e
svuotati di contenuto. Con la riduzione dei salari (diretti, indiretti e
differiti) e le “riforme del mercato del lavoro” aumentava la disuguaglianza
sociale con una ripartizione del reddito che ha spaccato la società fra una
èlite privilegiata ed una massa sempre più consistente di cittadini a basso
reddito, verso la quale continua tuttora a precipitare anche il ceto medio. Lo
stesso diritto al lavoro è stato di fatto cancellato, in base al principio che è
il mercato capitalistico che crea i posti di lavoro necessari alle imprese. Pertanto
il lavoro deve recuperare la sua figura di puro fattore della produzione, da
combinare con gli altri (materie prime e macchinari) nel processo produttivo,
in modo da essere reso occupabile (è il senso della riforma Fornero),
eliminando le tutele sindacali e legali che lo rendono rigido e non rispondente
alle necessità imprenditoriali.
Il messaggio è chiaro: i lavoratori, nel loro
interesse, devono rinunciare a diritti e salari oggi – perché altrimenti la
disoccupazione aumenta ed i salari scenderanno ulteriormente - in modo da
rilanciare in futuro produzione, occupazione e recupero salariale.
Ma cosa ci dice il riscontro empirico di questa dottrina?
Ci dice che si tratta di una grossa truffa, purtroppo subita
passivamente dalle sue vittime e dalle organizzazioni sindacali e politiche che
le dovrebbero difendere. Alcuni grafici ce ne forniscono la prova.
Il primo mostra l’andamento del tasso di profitto e degli
investimenti industriali in America del Nord, Europa e Giappone, dalla fine
degli anni ’60 in poi. Vediamo che fino al decennio ’80 i profitti diminuiscono
e con essi gli investimenti. Dal 1983/4/5, risulta invece che i profitti
riprendono a crescere rapidamente e consistentemente, come effetto
dell’attacco al lavoro di cui si è detto, mentre il tasso degli investimenti
produttivi continua a scendere. Per quel che riguarda i salari, dal ’73 al
2007 si riduce la loro quota sul reddito nazionale: Francia –12,07, Germania –
15,90, Italia – 7,34, Giappone – 5,06, Spagna – 4,26, Regno Unito – 15,73, Usa
– 10,30, altri 12 paesi europei – 11,37.
In sostanza, i profitti non sono stati indirizzati
verso il settore produttivo e quindi a ricreare posti di lavoro, ma erano
dirottati verso quello finanziario delle rendite e dei facili ed immediati
guadagni, come dimostra un grafico sull’andamento della borsa di New York
dal 1900 al 2008. Vi si nota che con gli anni ’80 la curva prende a salire
vertiginosamente, ben al di sopra della crescita del PIL (durante la presidenza
Clinton l’indice borsistico aumentava del 201% contro il 17% del PIL) mentre
nei periodi precedenti l’indice grafico dei corsi si muoveva sulla linea
orizzontale, pur con oscillazioni. Insomma la deflazione salariale è servita ad
alimentare l’inflazione finanziaria, sostenuta anche dalla liquidità delle
banche centrali, prevalentemente ora rivolta non al sostegno dell’economia
“reale” ma a quello della finanza, come settore preminente dell’accumulazione
capitalistica.
Che si tratti di una truffa ce lo dicono anche le
teorie di due economisti “ortodossi”. Friedman sostiene che perché non ci sia
inflazione è necessario un tasso di disoccupazione, il NAIRU (Not acceleration
inflation rate of unemployment). L’altro è Blanchard, capo economista del FMI.
Ci viene detto che nell’economia contemporanea il salario reale di equilibrio è
quello offerto dalle imprese. Perché i lavoratori lo accettino, è necessario
indebolire la loro capacità di resistenza e per questo occorre mantenere un
certo livello di disoccupazione (tasso naturale di equilibrio di disoccupazione).
In breve il messaggio chiaramente espresso afferma che il sistema capitalistico
funziona solo se c’è disoccupazione. Conclusione: l’invito ai lavoratori
a ridurre i salari e a rinunciare ai loro diritti per riavere in futuro
occupazione e recupero salariale è dimostrato essere una grossa truffa,
purtroppo subita senza reazione.
La crisi iniziata nel
2007/8 ed ancora in corso
Questa crisi non solo conferma le truffe precedentemente
richiamate, ma ne aggiunge di nuove, scientemente programmate.
La crisi ha avuto il suo momento tragico nel settembre
2008, quando il sistema capitalistico crollava. L’economista Usa Stiglitz ha
dichiarato: “il settembre nero è stato per l’economia di mercato capitalista
l’equivalente della caduta del muro di Berlino per i regimi comunisti”. Il
crollo però non è avvenuto. Perché? Perché lo Stato che era il problema,
dagli stessi che lo dichiaravano tale veniva invocato per la salvezza del
sistema. Una volta realizzata, allo Stato è stato richiesto di ritirarsi e
lasciare di nuovo i meccanismi del mercato a sé stessi. Comunque il salvataggio
c’è stato ed è consistito nel convertire le passività dei privati in debito
pubblico, senza però che i governi scambiassero questo intervento con
una nuova disciplina politica dell’economia capitalistica, come invece è
avvenuto con la crisi del ’30. Anzi il problema politicamente assunto è oggi
quello della copertura di questi debiti pubblici enormemente aumentati. In
altre parole, si sono socializzate le perdite private per garantire il
mantenimento dei profitti.
Di conseguenza si è messa in atto un’altra grossa
truffa a danno dei cittadini e dei lavoratori in specie, con la quale la
necessità di ridurre il debito pubblico è stata ed è usata come occasione per
un’ulteriore diminuzione della spesa sociale, ulteriori privatizzazioni e
riduzioni dei servizi pubblici, in breve per portare a compimento la
demolizione dello Stato sociale e dei diritti del mondo del lavoro, come già
nel 2008 suggeriva al governo di allora l’economista bocconiani Giavazzi.
Per sostenere questo indirizzo fino dal 2002 Blanchard,
capo economista del Fondo Monetario Internazionale, e Giavazzi, docente alla
Bocconi, hanno lanciato la teoria della austerità espansiva. Vi si
sostiene che lo sviluppo economico e la crescita della ricchezza richiedono una
politica di drastico calo della spesa pubblica, quasi esclusivamente sociale. A
confermare questa teoria due economisti, Reinhart e Rogoff, hanno presentato i
risultati di una loro ricerca empirica riguardante l’arco di tempo 1946-2009,
in base alla quale i paesi con un debito pubblico superiore al 90% del PIL sono
decresciuti dello 0,1% medio annuo. Da un controllo dei loro calcoli sono
emerse però omissioni incredibili, eliminate le quali il risultato ottenuto è
che anche i paesi con un debito pubblico superiore al 90% hanno avuto
storicamente una crescita del 2,2% e non la decrescita dello 0,1%. E’
difficile pensare a semplici errori quando nel conteggio di Reinhart e
Rogoff si sono esclusi Australia, Canada e Nuova Zelanda che nello stesso
periodo di tempo registravano un elevato debito ed un elevato tasso di
crescita; lasciati fuori dal calcolo arbitrariamente alcuni anni ed infine sui
dati è stato applicato un peso diverso, per cui paesi con forte debito pubblico
ed alta crescita hanno visto ridotta la loro influenza nella media generale. Si
tratta, quindi, di un calcolo arrangiato per ottenere risultati conformi
alla ideologia dell’austerità espansiva.
Nondimeno su questo indirizzo è basata la struttura
dell’attuale Unione Europea, in particolare l’area dell’Euro, come
pure vi si ispirano gli indirizzi della Commissione Europea e l’esercizio della
politica monetaria da parte della Banca Centrale Europea (BCE). In relazione a
quest’ultima basta ricordare la lettera di Trichet e Draghi dell’agosto del
2011 al nostro governo, nella quale si è tracciato un vero e proprio programma
di politica economico-sociale incardinato sull’attacco (le cosiddette
“riforme”) alle pensioni, al lavoro (“riforma” Fornero), alla spesa sociale e
fatto proprio dal governo Monti.
L’Europa dell’Euro
A questo punto si impone un breve accenno alle truffe su
cui sono basate le strutture economiche europee. Una prima truffa consiste nel trasferimento
di sovranità effettiva a istituzioni tecnocratico-burocratiche, come la BCE
e la Commissione che non rispondono ai cittadini europei del loro operato.
Stanno, infatti, imponendo ai paesi in maggiori difficoltà economiche una politica
di austerità nonostante i suoi risultati dimostrino l’effetto decrescita
che essa provoca, rendendo così sempre più difficile il rimborso del loro
debito pubblico.
Per sostenere questo indirizzo, Draghi, presidente della
BCE, a marzo di quest’anno ha presentato ai capi di Stato e di governo europei
due grafici con i quali ha inteso provare che nei paesi con forte deficit
pubblico, e quindi col debito tendente a crescere, come sono i paesi
mediterranei, i salari sono aumentati al disopra della produttività del lavoro.
In quelli virtuosi, invece, c’è stata corrispondenza fra i due dati. In altre
parole, la causa delle difficoltà in cui si trovano le economie in recessione
ricade sui lavoratori, e non sulla struttura ed i meccanismi dell’Unione
Europea e dell’Euro. Uno studioso di politica macro-economica, Andrew Watt, ha
denunciato la truffa perpetrata da Draghi nei suoi conteggi, consistente
nel fatto che i salari sono conteggiati al loro valore nominale, cioè
senza decurtare l’inflazione, mentre la produttività è calcolata in termini
reali, cioè depurata dell’inflazione. Si tratta cioè dell’errore
elementare di mettere a confronto dati disomogenei. Scrive Watt: «o un
punto chiave della politica dell’Unione europea ignora il corretto uso di
fondamentali concetti economici, oppure, intenzionalmente, li utilizza con
l’introduzione di un errore, per costringere i politici a seguire una politica
certamente coerente con le loro preferenze ideologiche, ma in contrasto con la
stabilità ed il recupero della zona Euro…»
Ma oltre a questa fedeltà ideologica a politiche
economiche neoliberiste, occorre considerare anche gli elementi strutturali
dell’Unione europea e dell’Euro. Per i nostri paesi l’Euro è moneta
straniera, è una moneta senza Stato con Stati senza moneta. Con la
perdita della sovranità monetaria la competizione economica si gioca allora
tutta con l’attacco ai salari. Non a caso si cita spesso la Germania in cui
la riforma del lavoro e dello Stato sociale del 2003 (“riforma” Hartz) ha
ridotto drasticamente il salario, con quello relativo (differenza fra salario
reale e produttività del lavoro) ai minimi storici e la conseguente necessità
di collocare all’estero una quota altissima della propria produzione.
Il perno del sistema è l’art. 123 del Trattato di Lisbona
(ex 105 e segg. di quello di Maastricht). Esso consegna l’emissione di moneta
alla BCE, facendole divieto di finanziare le istituzioni politiche (Stati,
Regioni, Land, Dipartimenti, Province, Comuni ecc.) mentre la liquidità
monetaria deve essere indirizzata solo verso le istituzioni finanziarie private
(banche, istituti finanziari vari ecc.). Avendo la moneta una funzione
pubblica, il principio su cui sono costruite l’’UE e l’Euro innalza in
tal modo gli interessi privati del capitale finanziario al rango di
interessi collettivi della società, cui tutti gli altri devono subordinarsi.
Ciò significa la morte della democrazia sostanziale, dato che non sono più le
istituzioni politiche il luogo di definizione degli obiettivi comuni.
Sul piano sociale si riversano conseguenze devastanti, in
quanto gli Stati vengono ad assumere una configurazione privatistica, nel
senso che devono finanziare il loro debito pubblico rivolgendosi ai mercati
finanziari e, quindi, sottostare alle loro condizioni come un privato
qualsiasi. Non a caso l’area dell’Euro, che complessivamente è la più
virtuosa del mondo per quel che riguarda il deficit di bilancio pubblico ed il
debito pubblico, è quella dove si è scatenata la speculazione finanziaria sui
titoli di Stato, imponendo interessi altissimi, in quanto la BCE finanzia a
tassi agevolati le banche private che poi esigono dagli Stati più in difficoltà
una remunerazione ben più alta, facendo in tal modo crescere il loro
indebitamento.
Per chiudere occorre esaminare la truffa racchiusa nel
patto di stabilità. Il suo principio costitutivo è che tutto ciò che è pubblico
è male, mentre tutto ciò che privato è bene. Così si impongono parametri al
debito pubblico, mentre si trascura del tutto il livello del debito privato.
Pertanto se ne ricava che i paesi che rispettano i parametri del patto hanno
l’economia stabile e sicura (indipendentemente dal loro debito privato),
giacché i problemi provengono solo ed esclusivamente dal debito pubblico e
quindi dall’eccesso di spesa pubblica.
Prima di tutto è da notare che i due parametri da non
superare del 3% di deficit pubblico sul PIL e del 60% del debito pubblico sul
PIL, non hanno nessuna motivazione economica. Sono i dati della situazione
tedesca ai primi anni ’90 che vennero accolti per paura, soprattutto francese
ed inglese, che, dopo l’unificazione, la Germania si sganciasse dai legami
europei. Il PIL nominale tedesco era il 5%, col debito pubblico al 60% e quindi
per mantenere quel livello, dato quel tasso di crescita, basta non fare
oltrepassare al deficit la soglia del 3% (5% del 60%). I parametri sono nati
così.
Il Trattato di Lisbona li ripropone, anche con maggiore
severità, insieme all’Euro. Esso è stato presentato al nostro parlamento
nell’autunno del 2008, che lo ha approvato senza approfondimento di nessun
genere. Si è trattato di un’approvazione truffaldina, ideologica, in quanto
l’esperienza, in particolare di quel periodo, invalidava il patto di stabilità
ed il principio fondativo dell’Unione Europea per il quale i problemi economici
sorgono nella sfera pubblica. Infatti, nel settembre del 2008 è crollato il
sistema finanziario privato salvato proprio dalla mano pubblica. Cioè la crisi
è esplosa per l’eccesso di speculazioni finanziarie e debiti privati, non a
causa della spesa pubblica o dei salari già allora fortemente ridotti. Non
solo, ma in Europa i paesi che sono crollati per primi sono stati l’Irlanda che
aveva un attivo di bilancio del 2,5%, un debito pubblico del 25% del Pil e una
spesa pubblica del 27% del Pil contro una media europea del 47%; e la Spagna
con un attivo di bilancio dell’1%, e un debito pubblico de 36% del Pil. Insomma
sono crollati subito gli unici due paesi che rispettavano il patto di
stabilità, che evidentemente non stabilizza niente. Nonostante ciò il nostro
parlamento, all’unanimità o quasi, ha approvato istituzioni di cui l’esperienza
ha dimostrato tutta la debolezza, senza alcun approfondimento e riflessione
critica, senza coinvolgimento democratico dei cittadini, come invece la
situazione avrebbe richiesto e tuttora richiederebbe.
Conclusione
Il
capitalismo è colpito dalla contraddizione fra l’istanza accumulativa e
realizzativa.
A sua volta nell’UE entrano in conflitto l’austerità che ci si illude possa servire a rimborsare i debiti, mentre aggrava le posizioni debitorie, e il rilancio della crescita che richiede interventi pubblici più sostenuti, visto che da solo il mercato capitalistico non è in grado di superare le proprie difficoltà. Infine abbiamo la contraddizione monetaria di una moneta senza Stato e di Stati senza moneta.
Rimane comunque un interrogativo di fondo. A che cosa deve tendere la
politica economica e sociale? A rimettere in moto il processo capitalistico
secondo le sue attuali coordinate strutturali, oppure a rilanciare un progetto
di nuova regolazione sociale del sistema, dopo la fine di quella keynesiana dei
“Trenta gloriosi”? Ma questo capitalismo dà segni di disponibilità per un nuovo
compromesso sociale?
Le risposte non sono facili data la complessità della situazione.
Comunque un primo passo per affrontare e superare i problemi è quello di
impostarli correttamente, tornando prima di tutto a praticare l’analisi critica
dei processi capitalistici e delle condizioni della società attuale, per
passare poi ad elaborare un progetto di intervento pubblico perché l’economia sia
democraticamente regolamentata, in modo da essere condotta a svolgere la sua
funzione propria di servizio per il benessere dei cittadini.
Roberto Bartoli
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