L’Aquila 5 maggio: i cittadini hanno ripreso per un giorno il centro
storico colpito dal terremoto.
a
cura di Mario e Paola
Letture.
Dal
libro dei Salmi (122): Saluto alla città
Fui
ben lieto di sentirmi dire:
ce
ne andremo alla casa del Signore.
E
posano ormai i nostri piedi
Tra
le mura tue, Gerusalemme!
Gerusalemme,
la città ricostruita
Tutta
in se stessa compatta.
Ché ivi ascendono le tribù,
le tribù del Signore
-- legge d’Israele – per le laudi
Al nome del Signore.
Ivi
stanno i seggi di giustizia
Della casa di Davide.
Augurate a Gerusalemme pace!
Sian
prosperi (tutti) i tuoi devoti.
Sia
la pace sopra le tue mura,
prosperità
entro le tue dimore!
Per
i miei fratelli e i miei sodali,
per
te fo auguri di pace!
Per
la casa del Signore Dio nostro
Invoco
per te ogni bene.
La
civiltà descritta nell’antico e nel nuovo testamento relativa al popolo
d’Israele è una civiltà ancora prevalentemente nomade e contadina. Le città che
vengono evocate sono quelle dei grandi imperi confinanti con la Palestina, prima
quelli di Mesopotamia e dell’Egitto, e poi quello Romano. Quando le dodici
tribù vengono unificate sotto i primi re e in particolare sotto Davide, Sion
(Gerusalemme) diventa la città per eccellenza del popolo d’ Israele. Come
premessa al tema di oggi che è nuovamente quello di una città storica colpita
da un tremendo evento naturale quale il terremoto, e dei suoi abitanti, ci
sembrava bello questo salmo che nel suo saluto alla Gerusalemme la canta come
città di pace, di accoglienza e di prosperità.
E’ un augurio questo che dovrebbe accompagnare l’impegno di tutti a far
sì che anche L’Aquila sia prontamente ricostruita e torni ad ospitare i suoi
cittadini di ieri e quelli di domani.
L’Aquila, 5 maggio 2013.
Aderendo all’invito fatto durante la nostra
assemblea del 21 aprile dedicata ai contenuti del libro di Tomaso Montanari “Le pietre e il popolo”, abbiamo partecipato
assieme a Elio, Mariella e Giovanni alla manifestazione indetta a L’Aquila il 5 maggio scorso per
riproporre con forza l’inizio dei lavori di recupero e restauro del centro
storico danneggiato dal terremoto di quattro anni fa. Abbiamo pensato di
condividere le numerose foto scattate e i documenti prodotti con chi non è
potuto venire a questa bellissima esperienza di partecipazione popolare di
riappropriazione della città da parte dei cittadini.
Gli
antefatti
6 aprile 2009.
Le varie scosse sismiche succedutesi nell’arco di giorni determinano ferite gravissime al
centro storico dell’Aquila e a numerosi
centri minori dell’Abruzzo. Il centro storico, uno dei più grandi e antichi
d’Italia, già in gran parte rifatto a seguito del tremendo terremoto del 1705,
è stato quasi completamente evacuato e ridotto ad una zona dove gli edifici
provvisoriamente puntellati e imbracati con armature in ferro e in legno, sono
ormai da quattro anni interdetti ai cittadini che li abitavano.
Questi ultimi sono stati trasferiti per lo più in
numerosi nuovi aggregati costruiti ex novo e in tempi rapidissimi a qualche
chilometro di distanza dalla città, denominati eufemisticamente “new towns” . Si tratta di agglomerati di
cemento tutti uguali e senza minimamente la fisionomia della città, che sono
costati 833 milioni di euro.
La
manifestazione: breve sintesi dello svolgimento
e l’appello finale.
Su iniziativa di Tomaso Montanari, di altri
storici dell’arte e intellettuali come Salvatore Settis, di associazioni quali
Italia Nostra e Anisa ( Associazione Nazionale insegnanti di storia dell’arte ),
CUNSTA (Consulta universitaria di storia dell’Arte ), AAA/Italia (Associazione
nazionale e Archivi di architettura contemporanea), Comitato per la Bellezza, Eddyburg,
Patrimonio SOS, TQ, era stato indetto un grande raduno all’Aquila per il 7
ottobre 2012. Poiché in quello stesso
giorno è stato poi fissata l’inaugurazione ufficiale con intervento del Capo
dello Stato del nuovo auditorium realizzato su progetto di Renzo Piano proprio
nel parco posto in prossimità di Fonte Lucente, punto di ritrovo della
manifestazione, l’iniziativa è sta spostata al 5 maggio 2013..
La manifestazione si è articolata in due
momenti.
La
mattina dopo il ritrovo a Fonte Luminosa il corteo di mille persone intervenute
nonostante la pioggia è sfilato in silenzio nel centro storico attraverso la
zona rossa della città per l’occasione aperta ai manifestanti.
Nel
pomeriggio dopo un pranzo a sacco nella piazza del Duomo e in zone limitrofe,
si è tenuto un affollatissimo convegno nella Chiesa di San Giuseppe Artigiano (ex San Biagio
d’Amiterno).
Un
bel resoconto della giornata è contenuto in un articolo scritto da Salvatore
Settis per la Repubblica, che qui riportiamo.
L’Aquila è ancora in Italia? Il sindaco Cialente ha ammainato la
bandiera italiana dalla sua città in rovina e riconsegnato la fascia tricolore
al capo dello Stato per esprimere «preoccupazione, rammarico e mortificazione»
per l’abbandono in cui giace la città deserta, dove da ottobre, nonostante il
(buon) provvedimento Barca, non arriva un centesimo per la ricostruzione,
paralizzando i cantieri e consegnando i cittadini a una condizione di
«scoramento, sfiducia, rabbia, disperazione, povertà». «Lo Stato ci ha
abbandonati», scrive il sindaco; «nella nostra Costituzione si respira la
responsabilità istituzionale e democratica che si esprime nei diritti e nei
doveri delle istituzioni e dei cittadini. Questo spirito non lo vedo nel
comportamento dello Stato».
Domenica 5 maggio, più di mille storici dell’arte di ogni età (università, soprintendenze, licei...), auto-convocati per un’idea di Tomaso Montanari, si sono raccolti all’Aquila da tutta Italia per vedere con i propri occhi, e denunciare al Paese, il colpevole abbandono del centro storico a oltre quattro anni dal sisma. Echeggia, in questa presenza civile e nelle parole del sindaco, un aspro contrasto fra i principi della Costituzione e il comportamento dei governi.
In nessun luogo come all’Aquila è evidente il nesso fra le rovine materiali di un centro storico e la rovina morale e sociale che minaccia la nostra società.
Qui il degrado civile si rispecchia in un doppio disastro, il terremoto e la pessima gestione del dopo-terremoto, che ha privilegiato la costruzione delle cosiddette new towns abbandonando il centro storico, deportando gli abitanti non nelle ridenti città-giardino promesse da Berlusconi, ma in quartieri-ghetto privi di spazi per la vita sociale. Pensava già a questo il costruttore Piscicelli, quando la stessa notte del sisma se la rideva con un suo compare progettando cemento e affari?
E perché il deputato Pdl Stracquadanio dichiarò alla Camera che «L'Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile», se non per giustificare la deliberata distruzione del tessuto sociale?
Dobbiamo dimenticare queste infamie in nome di una umiliante “pacificazione” che ci costringa all’amnesia?
È di fronte agli eventi straordinari (come il sisma) che si mettono alla prova le regole del vivere civile: perciò abbandonare L’Aquila sarebbe il sinistro prologo della morte della tutela in Italia. Almeno due volte, in un’Italia assai meno prospera di questa, L’Aquila fu abbattuta da un terremoto, e prontamente ricostruita. Il suo centro storico, tra i più preziosi d’Italia, è il frutto di un atto di fondazione, l’aggregazione di comunità di cittadini che dai “99 castelli” del territorio confluirono nel Duecento in una sola città: un gesto di sinecismo, diremo con parola greca (synoikismos, “darsi una casa comune”).
La stessa parola che per i Greci descriveva l’origine di città come Rodi o Atene. Il sinecismo dell’Aquila è il massimo esempio medievale di un processo aggregativo di natura economica, etica e civile: le singole comunità mantennero il nucleo identitario d’origine nelle chiese e nei nomi dei quartieri, così contribuendo a definire l’idea italiana di città-comunità. Perciò svuotare il centro per disseminare gli aquilani nelle campagne è un gesto violento quanto il terremoto, capovolge il sinecismo nel suo rovescio, la deportazione.
Inutilmente la formula inglese new towns tenta di dare una patina colta a questa operazione brutale. Le New Towns furono un esperimento urbanistico iniziato nel1947 a Londra, per
controllarne la crescita. Furono accuratamente pianificate a partire dagli
spazi sociali, dai trasporti, da un calibrato rapporto città-campagna: l’esatto
opposto di quel che offrono le bugiarde new towns di Berlusconi, che hanno
devastato i suoli agricoli senza creare spazi per la vita sociale. E questo
all’Aquila, dove gli Statuti medievali prescrissero agli abitanti di realizzare
collettivamente, uti socii, gli spazi pubblici (la piazza, la fontana, la
chiesa), prima di insediarsi uti singuli nelle loro case!
Ma la scelta perversa di quel governo resiste alla prova degli anni, e le rovine della città si sommano a quelle della società, alla crescita dei disagi, della disoccupazione, delle malattie mentali. L’Aquila si allontana dall’Italia e dal mondo. Con gli aquilani, vien messa al bando dalla città la maestà della legge, la verità della Costituzione. I nostri centri storici «sono vita, non si possono perdere senza sentirsi mutilati, menomati nello spirito; le rovine sono come cicatrici dello spirito, dove rimane la cecità e l’amnesia, irrimediabile» (Calamandrei).
Perché non è stata fatta una legge speciale per L’Aquila? Perché non si possono dirottare su questa città-martire i soldi che bastano per acquistare un aereo militare, per costruire un chilometro di Tav? Le promesse di aiuto dei paesi del G8 hanno prodotto finora ben poco: ma perché non si può lanciare la ricostruzione dell’Aquila (necessaria comunque) all’insegna di un grande centro di ricerca e formazione specializzato in interventi in aree sismiche, dalla prevenzione al restauro? Un centro come questo avrebbe da subito un ruolo internazionale, contribuendo alla ricostruzione di quella che rischia di restare una Pompei del XXI secolo, ma senza trasformarla in un theme park, in una Disneyland che ne offenda la storia.
Il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, ha dato un gran bel segnale con la sua visita all’Aquila domenica; il nuovo governo vorrà, salvando questa città in ginocchio, riaffermare la priorità costituzionale della tutela? «Non c’è più tempo per aspettare domani», dicevano (anzi gridavano) decine di cartelli nelle mani degli studenti, domenica 5 maggio.
Domenica 5 maggio, più di mille storici dell’arte di ogni età (università, soprintendenze, licei...), auto-convocati per un’idea di Tomaso Montanari, si sono raccolti all’Aquila da tutta Italia per vedere con i propri occhi, e denunciare al Paese, il colpevole abbandono del centro storico a oltre quattro anni dal sisma. Echeggia, in questa presenza civile e nelle parole del sindaco, un aspro contrasto fra i principi della Costituzione e il comportamento dei governi.
In nessun luogo come all’Aquila è evidente il nesso fra le rovine materiali di un centro storico e la rovina morale e sociale che minaccia la nostra società.
Qui il degrado civile si rispecchia in un doppio disastro, il terremoto e la pessima gestione del dopo-terremoto, che ha privilegiato la costruzione delle cosiddette new towns abbandonando il centro storico, deportando gli abitanti non nelle ridenti città-giardino promesse da Berlusconi, ma in quartieri-ghetto privi di spazi per la vita sociale. Pensava già a questo il costruttore Piscicelli, quando la stessa notte del sisma se la rideva con un suo compare progettando cemento e affari?
E perché il deputato Pdl Stracquadanio dichiarò alla Camera che «L'Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile», se non per giustificare la deliberata distruzione del tessuto sociale?
Dobbiamo dimenticare queste infamie in nome di una umiliante “pacificazione” che ci costringa all’amnesia?
È di fronte agli eventi straordinari (come il sisma) che si mettono alla prova le regole del vivere civile: perciò abbandonare L’Aquila sarebbe il sinistro prologo della morte della tutela in Italia. Almeno due volte, in un’Italia assai meno prospera di questa, L’Aquila fu abbattuta da un terremoto, e prontamente ricostruita. Il suo centro storico, tra i più preziosi d’Italia, è il frutto di un atto di fondazione, l’aggregazione di comunità di cittadini che dai “99 castelli” del territorio confluirono nel Duecento in una sola città: un gesto di sinecismo, diremo con parola greca (synoikismos, “darsi una casa comune”).
La stessa parola che per i Greci descriveva l’origine di città come Rodi o Atene. Il sinecismo dell’Aquila è il massimo esempio medievale di un processo aggregativo di natura economica, etica e civile: le singole comunità mantennero il nucleo identitario d’origine nelle chiese e nei nomi dei quartieri, così contribuendo a definire l’idea italiana di città-comunità. Perciò svuotare il centro per disseminare gli aquilani nelle campagne è un gesto violento quanto il terremoto, capovolge il sinecismo nel suo rovescio, la deportazione.
Inutilmente la formula inglese new towns tenta di dare una patina colta a questa operazione brutale. Le New Towns furono un esperimento urbanistico iniziato nel
Ma la scelta perversa di quel governo resiste alla prova degli anni, e le rovine della città si sommano a quelle della società, alla crescita dei disagi, della disoccupazione, delle malattie mentali. L’Aquila si allontana dall’Italia e dal mondo. Con gli aquilani, vien messa al bando dalla città la maestà della legge, la verità della Costituzione. I nostri centri storici «sono vita, non si possono perdere senza sentirsi mutilati, menomati nello spirito; le rovine sono come cicatrici dello spirito, dove rimane la cecità e l’amnesia, irrimediabile» (Calamandrei).
Perché non è stata fatta una legge speciale per L’Aquila? Perché non si possono dirottare su questa città-martire i soldi che bastano per acquistare un aereo militare, per costruire un chilometro di Tav? Le promesse di aiuto dei paesi del G8 hanno prodotto finora ben poco: ma perché non si può lanciare la ricostruzione dell’Aquila (necessaria comunque) all’insegna di un grande centro di ricerca e formazione specializzato in interventi in aree sismiche, dalla prevenzione al restauro? Un centro come questo avrebbe da subito un ruolo internazionale, contribuendo alla ricostruzione di quella che rischia di restare una Pompei del XXI secolo, ma senza trasformarla in un theme park, in una Disneyland che ne offenda la storia.
Il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, ha dato un gran bel segnale con la sua visita all’Aquila domenica; il nuovo governo vorrà, salvando questa città in ginocchio, riaffermare la priorità costituzionale della tutela? «Non c’è più tempo per aspettare domani», dicevano (anzi gridavano) decine di cartelli nelle mani degli studenti, domenica 5 maggio.
( UN FUTURO PER L’AQUILA PREDA
DELL’INDIFFERENZA, di SALVATORE SETTIS,VENERDÌ, 10 MAGGIO
2013 LA REPUBBLICA – COMMENTI)
Appello
finale presentato a conclusione del suo intervento introduttivo al Convegno da
Tomaso Montanari:
«Ed è per questo che affermiamo
con forza che la ricostruzione della città di pietre non basta. Per questo la
nostra giornata è intitolata alla «ricostruzione civile».
Gli storici dell'arte sanno che
la città di pietre ha senso solo se è vissuta, giorno dopo giorno, dalla
comunità dei cittadini. E questo legame vitale all'Aquila è stato
volontariamente spezzato. Così, anche ammesso che, tra vent'anni, riusciamo ad
avere l'Aquila com'era e dov'era, avremo una generazione di aquilani che non è
cresciuta in una città, ma nelle cosiddette new town: cementificazioni del
territorio senza alcun progetto urbanistico, e anzi immaginate come somme di
luoghi privati. Senza spazio pubblico, senza arte, con un paesaggio violato.
Dunque, gli
storici dell'arte riuniti all'Aquila chiedono con forza:
1) Che il
restauro del centro monumentale dell'Aquila, inteso come un unico e
indivisibile bene culturale da proteggere, sia la prima urgenza della politica
nazionale del patrimonio culturale. Che il flusso del finanziamento sia
costante, e che l'andamento dei lavori sia pubblico, e totalmente trasparente.
Che questo processo riguardi anche tutti gli altri centri storici del cratere,
parti di un unico sistema ambientale, paesaggistico, urbanistico,
storico-artistico.
2) Che l'Aquila
risorga com'era e dov'era. Che non si ricorra a demolizioni, e non si ceda
all'assurda tentazione di improprie 'modernizzazioni' del tessuto urbano che
violino la Carta di Gubbio. Che il significato civile e sociale di ogni
monumento, del suo aspetto storico e della sua connessione con tutto
l'organismo urbano che lo accoglie sia considerato il primo, più importante,
inderogabile valore.
3) Che si
rinunci ad ogni progetto di trasformare l'Aquila in una sorta di Aquilaland,
cioè in un parco a tema che estremizzi quella perdita di nesso tra monumenti e
cittadini che consuma giorno per giorno città come Venezia e Firenze. Per
questo diciamo no ai progetti di realizzare parcheggi sotterranei, centri
commerciali, richiami turistici a spese del tessuto storico monumentale e
abitativo.
4) Che il
restauro del centro sia progressivamente accompagnato dal ritorno degli
abitanti. Non possiamo aspettare venti anni per far trasferire gli aquilani
dalle 'new town' nelle loro vere case: bisogna immaginare una
politica di incentivi che acceleri questo processo, e che faccia
progressivamente rivivere il centro. Per far questo, la ricostruzione deve
inserirsi in una pianificazione urbanistica governata dalla mano pubblica, e
non deviata da interessi privati. A questa pianificazione spetterà anche
decidere del futuro delle 'new town': alcune dovranno essere abbattute, per
ripristinare il paesaggio, altre potranno forse trovare un uso proficuo, ma
solo all'interno di un piano preciso.
Non c'è più
tempo: il momento di restituire l'Aquila e i suoi monumenti ai cittadini
aquilani e alla nazione italiana è ora».
Lettera di ringraziamento di Tomaso Montanari a chi
ha partecipato alla manifestazione
Cari
amici,
vi
ringrazio di aver partecipato così numerosi alla riunione degli storici
dell’arte all’Aquila.
È
stata una giornata per molti di noi indimenticabile. Sono sicuro che dopo aver
visto quella meravigliosa città senza i suoi cittadini, ferita a morte e
quasi senza soccorso da quattro anni, molti di noi guarderanno alla
‘nostra’ storia dell’arte con occhi diversi. Con gli occhi della Costituzione,
dei diritti della persona, dell’impegno civile, dell’educazione alla
cittadinanza.
Il
giorno dopo, il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente ha restituito la fascia
tricolore al presidente Napolitano, e ha ammainato il tricolore nel
centro dell’Aquila. Lo ha fatto perché «sono quattro anni che la
ricostruzione non parte; quattro anni che la Citta’, uno dei centri storici
piu’ importanti d’Italia, è deserta, distrutta». Nella lettera al Capo
dello Stato, il sindaco ha scritto: «Ieri, 5 maggio, mille storici dell’arte
Italiani, si sono incontrati a L’Aquila per denunciare lo stato di abbandono
del centro storico ed il fallimento della ricostruzione. Mi sono sentito
mortificato come Sindaco, mortificato di dover mostrare ancora le nostre piaghe».
A leggere i giornali del giorno dopo viene da dire, amaramente, che non è solo
la classe politica a disinteressarsi del futuro dell’Aquila: una città e una
comunità che non sembrano aver diritto ad un centesimo dello spazio dedicato al
discutibile passato di Giulio Andreotti.
Di
fronte a tutto questo, ripetiamo con forza:
•
l’Aquila è una tragedia italiana,
non un problema locale. Il centro monumentale dell’Aquila
appartiene alla Nazione: ora la Nazione deve essere al servizio dell’Aquila.
•
Non ci stancheremo di ripeterlo: il 5
maggio è stato solo l’inizio. Come hanno detto, con i loro cartelli, gli
studenti di storia dell’arte venuti da Napoli «non c’è più tempo per
aspettare domani»: il momento di restituire l’Aquila e i suoi monumenti ai
cittadini aquilani e alla nazione italiana è ora.
Col saluto più grato,
Tomaso Montanari
Riferimenti e documentazione.
Per chi volesse approfondire, può trovare altri
resoconti sulla manifestazione e soprattutto i video con gli interventi
integrali di Tomaso Montanari e Salvatore Settis al Convegno del pomeriggio collegandosi in
rete ai seguenti links:
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