Comunità dell’Isolotto - Firenze, domenica
11 maggio 2014
essere
adulti credibili
non ci sarà chiesto se siamo
stati credenti ma se siamo stati credibili
riflessioni del gruppo genitori
Letture
dal
Vangelo di Luca
I suoi genitori erano soliti andare a Gerusalemme per la festa di
Pasqua. Ora quando [Gesù] ebbe dodici anni salirono a Gerusalemme, ma trascorsi
i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, Gesù rimase a
Gerusalemme all’insaputa dei genitori. Essi credendolo nella carovana, fecero
una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i
conoscenti; e non avendolo trovato tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li
ascoltava e faceva loro delle domande. E tutti quelli che lo ascoltavano erano
stupiti per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo [i genitori] restarono stupiti e sua madre gli disse:
«Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti
cercavamo».
Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo
occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero le sue parole.
Poi tornò con loro a Nazareth ….. Sua madre conservava tutte queste
cose in cuor suo.
Abbiamo scelto questo brano perché
vi abbiamo trovato delle curiose analogie tra le relazioni che intercorrono tra
Maria e Giuseppe e il loro figlio e quanto vediamo oggi nelle relazioni tra il
mondo degli adulti e quello dei ragazzi.
In questo episodio nessuno fa una
bella figura: né Maria e Giuseppe che smarriscono il figlio e se ne accorgono
solo dopo una giornata di cammino, né Gesù che non mostra il minimo rispetto
verso i suoi genitori e che alla domanda preoccupata della madre risponde piuttosto
sgarbatamente. Più che una “sacra famiglia”, una famiglia con le sue difficoltà,
come tante, come tutte.
E possiamo dunque interpretare il
brano come la fisiologica difficoltà di relazione tra genitori e figli
adolescenti che riguarda tutte le generazioni, più o meno da sempre.
Sappiamo che come in molti altri
episodi anche in questo non si racconta un fatto storico della biografia di
Gesù; poiché i racconti del Vangelo erano scritti con altri intenti
comunicativi: in questo brano sembra si volesse mostrare che il popolo di
Israele, anche nelle persone più vicine, i suoi familiari, sia rimasto
sconcertato di fronte ai modi, ai gesti, ai messaggi di Gesù: non era il Messia
che si aspettavano.
Ma noi, al di là di questa
interpretazione, possiamo anche leggere in questo brano la difficoltà dei
genitori e in genere del mondo degli adulti di accorgersi, di comprendere, di
accompagnare gli orizzonti nuovi, gli interessi sconcertanti dei bambini, dei
ragazzi, dei giovani. Maria e Giuseppe pensano, anzi danno per scontato, che
Gesù segua le loro orme (vita a Nazareth, lavoro sicuro da falegname, rispetto
rigoroso della Legge, ecc) e quindi non capiscono cosa sia successo, non
capiscono cosa lo interessi, non sanno nemmeno dove cercarlo tanto che quando
tornano a Gerusalemme ci mettono tre giorni per ritrovarlo (evidentemente lo
hanno cercato ovunque meno che nel posto in cui era, perché non sapevano cosa
lo interessasse). E rimangono stupiti dalle sue parole, dai suoi comportamenti.
Semplicemente non lo capiscono.
C’è una curiosa analogia con il
tempo di oggi: forse anche oggi il mondo degli adulti – spaventato da troppe
cose – si ritrova preoccupato e spesso incapace di accompagnare nel mondo i
propri ragazzi, con la necessaria credibilità e con la altrettanto necessaria
capacità di aprirsi a nuovi orizzonti, di avere fiducia nel futuro.
dal libro
del Deuteronomio e dal libro “I dieci comandamenti nel XXI secolo’
Onora tuo padre e tua madre, perché come il Signore tuo Dio ti ha
comandato,
perché la tua vita sia lunga e tu sia felice nel paese che il Signore
tuo Dio ti dà
Nel suo libro “I dieci
comandamenti nel XXI secolo” il filosofo spagnolo Antonio Savater commenta che
“credo che qualunque persona perbene tenda ad amare spontaneamente i propri
genitori, nello stesso modo in cui i genitori amano i figli.
Onorare i genitori è una buona
idea, ma può dare luogo a fraintendimenti: spesso i genitori credono che essere
rispettati significhi che la loro autorità debba essere indiscutibile, che
bisogni obbedire loro in modo cieco e soddisfare qualunque capriccio. A volte
arrivano ad esigere che dai figli che realizzino nella vita quello che
avrebbero desiderato e non hanno potuto ottenere, fino a trasformarli in una
sorta di prolungamento dei propri desideri e dei propri sogni.
La presunta subordinazione dei
figli costituisce la contropartita alla responsabilità dei genitori, al loro
rappresentare in qualche modo l’autorità; non bisogna però confondere questa
parola con autoritarismo o tirannia: autorità deriva dal latino auctor [1]
che significa “colui che fa crescere, che aiuta a crescere”, quindi
esattamente il contrario della tirannia, dato che l’interesse del tiranno è di
mantenere in uno stato di infanzia perpetua coloro i quali vuole sottomettere.
La vera libertà è quella che mette a disposizione del figlio gli strumenti per
conquistarla.
Lettura
da “Gli sdraiati” di Michele Serra
Il recente libro di
Michele Serra Gli
sdraiati racconta la riflessione di un padre, ma
potremmo dire un genitore, alle prese con il figlio adolescente, che
dorme
quando è giorno, che esce di notte, che sta perennemente connesso all’iPhone,
che vive stravaccato sul divano, ‘senza l’ombra di una concertazione con gli
altri abitanti della casa’.
Questo padre esprime
lo smarrimento che gli adulti provano nei confronti dei modelli politici,
culturali e quindi anche educativi e relazionali, ed oscilla tra senso di
impotenza e speranza.
[…] Dicono che avresti avuto bisogno di un Genitore[2]. Un vero Genitore. Che avresti avuto bisogno del suo ordine ben strutturato, ben codificato, così da poterlo fare tuo oppure confutarlo e combatterlo, e combattendolo diventare uomo. Non c’è argomento che mi metta più in difficoltà. Del Genitore non ho che alcune attitudini. Per esempio quella, non trascurabile di mantenerti con il mio lavoro e la mia fatica. […] Ma riconosco che di tutte le altre tradizionali attitudini del Genitore – stabilire regole, rimproverare, punire, disciplinare – non sono un convincente interprete. Le volte che tento di riportare un ordine, sottolineare regole, sento di avere il tono incerto dell’improvvisatore, non il tono autorevole di chi è sicuro del proprio ruolo. Sento di sembrare uno che si è scordato all’improvviso, costretto dall’emergenza, che avrebbe avuto il compito di governare. E non lo ha fatto. E simula, come il più ipocrita o il più inetto dei politici, di avere un programma di governo affastellando alla rinfusa mozziconi di regole, minacce improbabili, ricatti sentimentali, con la voce che oscilla dal borbottio lugubre all’acuto nevrastenico. Nel corso di questi concitati, e per fortuna rari, comizi domestici, dubito di almeno della metà delle cose che dico. Già mentre le pronuncio sento che appartengono a un armamentario retorico vetusto, rimediato appiccicando i cocci di vecchi codici infranti, spazzati via da rivoluzioni sociali o resi ridicoli dalla loro stessa prosopopea.
[….]
In certe cupe riflessioni serali,
mentre tu eri sparito nel tuo altrove e io rinchiuso nella mia impotenza, ho
temuto di avere abdicato, come padre, e di averlo fatto per comodità, per
pigrizia. Ma al tempo stesso valutavo l’insincerità che mi sarebbe stata
necessaria per fingermi depositario di un ordine vero, articolato in regole
ferree e punizioni esemplari. Tra simulare un’autorità ben strutturata ma
finta, ed esercitarne una gracile e fluttuante, però autentica, che cosa è
peggio? Dimmi chi preferisci ritrovarti di fronte: uno che parla una lingua
chiara ma non è la sua? oppure uno che parla proprio la sua ma non si capisce
che accidenti sta dicendo? Nella furibonda disputa – l’ennesima- del mio
parlamento interiore, dai banchi della destra si levano accuse cocenti contro
l’imbelle rinuncia della sinistra a esercitare l’autorità. Ma anche quando
sospetto che la destra abbia ragione, me ne rimango ostinatamente seduto sui
banchi della sinistra. E lo sai perché? Perché non posso fare altro. Se non
esercito il potere non è solamente per pigrizia (conta anche quella ma non è
determinante). E’ soprattutto perché al potere, così come si è strutturato
prima di te e di me, io non riesco più a credere. E dunque non posso,
imbrogliando me stesso, imbrogliare anche te.
Lettura
da ‘L’autorità perduta’ di Paolo Crepet
…
L’idea
di dover infrangere il sogno delle giovani generazioni ha instillato in molti
genitori un profondo senso di inadeguatezza: come se garantire maggiore
prosperità fosse soltanto compito loro, come se i figli non dovessero
contribuire al miglioramento delle condizioni future.
Quando si afferma enfaticamente che “per la
prima volta nella storia dell’umanità i figli hanno davanti a sé una
prospettiva peggiore di quella che avevano avuto i loro padri” si afferma una
grande sciocchezza.
E’ la tipica affermazione di chi valuta tutto
attraverso il denaro, di chi misura le prospettive di una generazione
esclusivamente sul piano economico. Questa frase presuppone che la storia
dell’umanità abbia sempre seguito una linea retta e progressiva, senza
contraddizioni, sobbalzi, improvvise retromarce; chi potrebbe sostenere una
simile ingenuità?
Credo che l’attuale crisi economica possa
essere molto utile a chi deve educare. I periodi di vacche grasse sono
terribili da questo punto di vista: portare a pensare che non vi sia più nulla
da migliorare, che tutto sia ormai garantito, che l’impegno e l’invettiva
fossero necessari solo un tempo, quando servivano a spezzare le catene che
tenevano l’umanità legata ai ceppi del suo passato miserabile. In questo modo
ci si addormenta e si diventa vulnerabili a ogni cambiamento di vento.
[…] Molti ragazzi e ragazze sono stati
cresciuti pensando che non debba esistere una necessità – che viene spesso
giudicata come sinonimo di sventura – ma solo diritti acquisiti per nascita :
si è andata formando una sorta di “casta giovanile” che tutto pretende, quasi
che l’esistenza sia un gigantesco distributore di merendine e che ogni
desiderio corrisponda a un tasto sul display, una volta spinto il quale si
debba solo attendere che l’oggetto bramato scivoli fra le mani delicate.
… Ho dedicato molti anni allo studio delle
famiglie, osservandole dall’interno, ascoltandone le preoccupazioni, cercando
strategie di uscita da errori educativi tanto involontari quanto evidenti.
Durante questo lungo percorso ho potuto
scoprire quanti ruoli i genitori cerchino di interpretare pur di non affrontare
il loro compito primario : educare.
In questi decenni di cascame educativo ho
incontrato genitori che si dedicano a fare i camerieri, i tassisti, i cuochi, i
tutor, i bancomat, gli insegnanti. Da anni cerco di spiegare una cosa semplice
ma non comprensibile a chiunque: per agire correttamente sul piano educativo è
necessario che i padri e le madri facciano molto meno di ciò che fanno. Il
segreto dell’educare oggi risiede infatti nella capacità di sottrarre, non in
quella di aggiungere. I genitori non devono essere camerieri, autisti, tutor e
finanziatori : solo e semplicemente genitori, ovvero sovrintendenti alla educazione. Devono stare sopra, non alla pari,
occuparsi delle grandi questioni (serenità, felicità, sensibilità, complicità),
non dei dettagli. In altre parole devono togliere al loro mestiere, rendendolo
più semplice, meno barocco e carico di obblighi non richiesti e spesso dannosi.
Se si smettesse di dare la sveglia i figli, di accompagnarli, di fare i compiti
al loro posto, di gestire le loro attività, si risparmierebbero tempo ed
energie che potrebbero essere utilizzate nella sovrintendenza autorevole a cui
mi richiamo.
Cinque consigli per i genitori :
- Credete nei vostri figli, soprattutto
quando meno se lo meritano.
- Se avete una buona opinione dei vostri
figli, non aiutateli. Se la caveranno da soli.
- Pretendere di educare oberati dai sensi di
colpa è come voler spegnere un incendio con una tanica di benzina.
- Inorgoglite il loro talento, insuperbite la
loro volontà : vi ringrazieranno quando sarete vecchi.
- Investire sui figli non significa dare loro
denaro, ma metterli nelle condizioni di seguire le loro passioni.
‘La congiura contro i
giovani’ di Stefano Laffi
La Credibilità: (Il bambino/giovane
ndr) Noterà di frequente che gli adulti
non dicono quello che pensano e non fanno quello che dicono, perciò farà fatica
a reggere i loro discorsi. E fra questi, i più disonesti saranno quelli su di
lui e sulla sua età, perché tenderanno a generalizzare episodi di cronaca, far
finta che i ragazzi siano tutti uguali, saranno pieni di definizioni ed
etichette, soprattutto parranno inutili rispetto a quello che gli serve, e un
po' sospetti nel fare il gioco di chi li pronuncia, cioè il loro reddito.
Noterà soprattutto che nel mondo non c'è corrispondenza fra la gravità dei
problemi che lo circondano e la distribuzione delle energie per risolverli,
altrimenti non sarebbe lui il problema: essere informati sarà penoso e lo
porterà al disincanto sull'umanità, perché avrà notizia di nuove meraviglie
della tecnologia e insieme della distruzione del pianeta, infiniti dibattiti
politici e insieme inutilità della diplomazia e cronicità delle guerre,
progressi della medicina che non toccano le epidemie in corso per malattie
curabili.
Intervista a Stefano
Laffi, ricercatore
sociale ed esperto in culture giovanili, consumi e dipendenze, autore de La congiura contro i giovani (Feltrinelli)
a cura di Silvana Mazzocchi su la Repubblica.it
Giovani
in crisi, di chi sono le responsabilità?
"Quando
si parla di "giovani in crisi" credo sia importante intendere non un
presunto collasso di motivazione e di fiducia dei ragazzi
rispetto alle sfide che li attendono, ma la mancanza di opportunità e di
possibilità, che si manifesta nel non trovare esperienze, lavoro, soldi, casa,
ma più in generale nel non aver voce, non poter incidere in nulla della realtà
che li circonda. La crisi è di cittadinanza, è il non aver diritti davvero
esigibili, è crescere sapendo di non poter incidere sul proprio mondo. Tutto lo
spazio che li circonda è saturo, è impermeabile ad esigenze di gioco ed
espressività, è popolato e normato da adulti, non ha vuoti nei quali agire: le
città non li prevedono, parlano a bambini e ragazzi solo in termini di divieti
e regole, il paradosso è che solo le affissioni pubblicitarie li evocano per
sedurli, tocca entrare in un bar per esistere, ma come consumatori, o in
consultorio adolescenti, come utenti. L'esilio di bambini, ragazzi e giovani
dall'arena delle discussioni, delle decisioni e delle azioni pubbliche parla in
ultima analisi della "crisi degli adulti", ecco di chi sono le
responsabilità: non si vuole più cambiare e non si vogliono cedere le rendite
di posizione, ci si illude di poter fare come ieri perché è l'unico modo che si
conosce, se non è la paura a guidare gli adulti quando sentono la loro
inadeguatezza agli strumenti di oggi. Il fatto è che questa sarà comunque
un'epoca di cambiamenti - tutto sta mutando, come leggiamo e scriviamo,
come nasce un'amicizia e un amore, come studiamo e come viaggiamo - di cui gli
interpreti migliori sono proprio quelli che si vorrebbe escludere".
Quali
sono le cause che hanno portato i giovani alla situazione di oggi?
"Non
credo ci sia un muro alla fine di una corsa sfrenata, non penso che non trovar
lavoro o credito in banca sia per un ragazzo una bruciante sorpresa, perché c'è
nato e cresciuto nella mancanza di riconoscimento. Ci sono generazioni adulte
che non vogliono cedere potere e privilegi e si nutrono di questo immobilismo,
per questo nel libro parto dalla nascita, mostrando un meticoloso processo di
annichilimento del potenziale di cambiamento che i più giovani avrebbero.
Pensiamo alla "normalizzazione" dell'infanzia, a come sin dalla
nascita si sia circondati da attese e norme di riferimento, fatte prima di
parametri medico-clinici, e poi di progressi evolutivi per inorgoglire i
genitori, e poi di performance scolastiche o di desideri indotti dal mercato
fin dai due anni di vita. Così addestrati a rispondere alla norma e ad altro da
sé, si potrà mai credere nel proprio contributo? È un esempio banale, ma se la
scuola usa solo "domande illegittime" (ovvero quelle in cui chi
domanda conosce la risposta e chi risponde sa di dover indovinare quella
giusta) potranno mai i ragazzi pensarsi ed esercitarsi come portatori di pensiero
originale? Più tardi comincia invece la "patologizzazione"
dell'adolescenza, che è sempre pensata come problematica, a rischio,
trasgressiva, e la sua fame di esperienze e prove viene vista con sospetto, se
non inibita letteralmente, al contrario dei loro corpi, rubati dal mercato, per
farne oggetto di consumo. Si arriva così all'ultimo atto,
"l'umiliazione" dei giovani, nei colloqui di lavoro, nella
considerazione di quello che hanno studiato, nella gratuità di tutto quello che
dovrebbero fare, nelle mansioni loro affidate, negli abusi di potere che devono
subire. Cinismo, disincanto, ritiro sociale, spaesamento, tristezza: possiamo
davvero sorprenderci se compaiono a 15 o 20 anni, cioè alla fine di questa
carriera?"
C'è
una via d'uscita? "Non
solo c'è ma è obbligatoria, è urgente, e la buona notizia è che libera tutti.
Certo, dobbiamo accettare una condizione, quella di esser disposti al
cambiamento. Ma partiamo dalla constatazione che la maggior parte delle nostre
istituzioni non funzionano, sono in affanno, disorientate: vale per le
famiglie, dove i genitori si separano e non sanno come star dietro ai figli,
vale per le aziende che sono in crisi, vale per l'istruzione e la formazione
che non sanno quali competenze formare e sono superate dagli allievi rispetto
al digitale, vale per la politica al minimo storico di fiducia... A furia di
escludere i più giovani da tutte le istituzioni ci troviamo oggi intrappolati
in routine quotidiane che non funzionano, sono lente, burocratiche, irreali nei
tempi e nelle richieste. Bene, in ogni epoca di cambiamento si sa che avviene
un ribaltamento dei saperi, la tradizione perde la forza di guida, sono i più
giovani i nostri pionieri, saranno loro a guidarci. Certo, senza un'esperienza
di riconoscimento sociale sin dall'infanzia non sarà facile ribaltare i ruoli,
ma loro nell'incertezza ci sono nati e usano le strategie cognitive più adatte,
che dobbiamo imparare da loro: muoversi per tentativi senza certezza sulle
mete, valorizzare gli errori perché ricchi di informazioni, moltiplicare i
campi di esperienza perché utili a misurare le nostre capacità, scambiarsi
saperi e scoperte in modo orizzontale perché non serve chiuderli a chiave,
prendere e partire, muoversi insieme per sostenersi e favorire l'apprendimento,
superare i confini disciplinari perché la realtà è una e non segmentata... La
via di uscita è questa, cambiare insieme questa società e affidarci a loro per
scoprire e sperimentare. In alcune aziende c'è già il reverse mentoring e in
fondo nel volontariato è normale che un ragazzo insegni a un cinquantenne
appena arrivato. Forse ci siamo dimenticati che le più grandi invenzioni del
'900 sono state fatte da scienziati che avevano fra i 20 e i 30 anni". (20 gennaio 2014)
Si veda anche la presentazione di Stefano
Laffi su youtube all’indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=Ctvuh3e70Kw
Riflessione su giovani e web.
Le incomprensioni fra adulti e ragazzi
La vita dei giovani nel mondo dei
social network è per noi adulti come un viaggio da esploratori in una terra
sconosciuta. Genitori di adolescenti, insegnanti, psicologi mancano di quella
conoscenza di prima mano, diretta, quasi spontanea dei giovani nei confronti
dei nuovi mezzi di comunicazione e questo spesso genera negli adulti
pregiudizi, paure e diffidenza. Capita a noi genitori di confrontarci e
raccontarci le nostre esperienze ed
emerge ad esempio il timore che i social network utilizzati dai nostri figli (Facebook, twitter) o chat come whatsApp, amplifichino in maniera esagerata gli scambi
di relazioni e troppo velocemente diffondano malumori o opinioni che possono
danneggiare qualche ragazzo preso di mira proprio perché il mezzo raggiunge
immediatamente molte persone insieme.
Danah Boyd è una ricercatrice
americana, docente alla New York University e responsabile di un progetto
Microsoft. Ha scritto un libro, frutto di un lavoro durato otto anni, durante i
quali ha intervistato migliaia di ragazzi, li ha frequentati individualmente o
in gruppi, ed ha seguito le “tracce” che lasciano su Facebook. Una prima scoperta
della ricercatrice è che i ragazzi di oggi “devono” socializzare usando i
social network per mancanza di altri spazi di ritrovo coi loro coetanei. Scrive
la Boyd “Molti adolescenti hanno meno libertà di muoversi, meno tempo libero e
più regole dei loro genitori o nonni. La pressione scolastica è aumentata. Non
si usa più passare ore di tempo libero a spasso con gli amici dopo la scuola.
Ogni generazione di adolescenti ha uno spazio differente che decide come lo
spazio “cool” per frequentare gli amici e oggi quello spazio si chiama Facebook
o Twitter o altro. Gli adulti non lo capiscono perché interpretano questi
fenomeni deformandoli alla luce delle proprie ossessioni, fobie, nostalgie e
ricostruzione distorte del passato.” E ancora “Molti genitori si sono
reinventati la propria infanzia, ricordandola come un luogo molto migliore, più
ricco, più facile e più sicuro di quanto fosse in realtà”. Il bullismo o la
pedofilia esistevano senza Internet, probabilmente più feroci perché meno
smascherati e sanzionati dai valori dominanti.
La storia si ripete: altre vie di
comunicazione del passato furono accolte con diffidenza, pregiudizi e sospetti.
Quando era considerato pericoloso per le donne leggere romanzi o quando negli
anni Cinquanta il rock&roll fu bollato come un’istigazione alla violenza e
alla delinquenza minorile..
Un aspetto fondamentale da tenere
presente per capire la differenza tra noi adulti e loro ragazzi è che noi siamo
degli “immigrati digitali”, e come degli immigrati in terra straniera ne scopriamo
faticosamente le regole e ci muoviamo con timore e sospetto. Loro sono dei
“nativi digitali”, per loro questo è un universo noto, sono cresciuti dentro le
sue regole.
Ma cosa vuol dire ‘essere
autorevoli’?
I ragazzi per crescere hanno
bisogno di persone autorevoli. A volte abbiamo l’impressione che non ce ne
siano molte in circolazione, a volte incontrandole ci si allarga il cuore e il
volto si distende in un sorriso. Noi stessi a volte lo siamo, a volte meno.
Allora ci/vi chiediamo: ma cosa vuol dire essere autorevoli?
Premessa: Mentre l'autorità deriva da un ruolo o da un grado che qualcuno
detiene e che gli altri riconoscono per obbligo, l'autorevolezza è basata sull’apprezzamento
di capacità e comportamenti che la persona autorevole sa mettere in atto: non
deriva dunque da imposizioni ma dal riconoscimento che del valore della
persona. Ecco alcuni elementi
dell’autorevolezza:
1. La persona autorevole fa corrispondere le
proprie parole ai fatti: le persone autorevoli, tendenzialmente, non sprecano
le parole, non parlano a vuoto e quando dicono qualcosa cercano di far
corrispondere le parole ai fatti. Per
esempio un insegnante che per farsi ascoltare fa appello continuamente a
conseguenze che poi non arrivano mai perde rapidamente credibilità e l’autorevolezza;
un padre che promette ogni volta che la domenica accompagnerà il figlio a
giocare ai giardini e poi per una ragione o per un’altra (anche ottime ragioni)
non lo fa, perde autorevolezza: il ragazzo crescerà con minore capacità di
ascoltare e di farsi ascoltare.
2.
La persona autorevole ‘sa di cosa parla’, ‘sa
come fare’: le persone autorevoli hanno conoscenze ed esperienze;
sanno di cosa parlano e, se necessario, sanno cosa fare. Sanno dire e mostrare,
con semplicità, sicurezza e senza presunzione, le loro conoscenze. Esprimono
passione per le cose che sanno e voglia di continuare ad imparare. Ad esempio: un nonno che nella vigna
racconta ai nipoti come e quando si decide che è tempo di cominciare la
vendemmia, come lo si decideva un tempo e come lo si fa oggi con strumenti
moderni, come la si coglie ecc.. è persona autorevole che esprime competenze e
passione.
3.
La persona autorevole, quando necessario, sa prendere
posizioni scomode per ottenere rispetto per sé e per altri: quando si
trovano di fronte a situazioni nelle quali non sono d’accordo, specie in quelle
nelle quali si verificano mancanze di rispetto verso loro stessi o verso
persone più deboli le persone autorevoli sanno prendere posizione ferme,
differenziandosi se necessario dalla massa, per pretendere, rispetto di sé
stessi e/o delle persone più deboli.
4.
Le persone autorevoli sanno quando dire ‘bravo”:
sanno dare il giusto riconoscimento alle persone quando queste hanno fatto
delle buone cose, hanno avuto delle buone idee o dei comportamenti intelligenti,
sensibili o coraggiosi. Dire dei “bravo” a ragion veduta
aumenta l’autostima di chi riceve questo riconoscimento e accresce
l’autorevolezza di chi esprime questo riconoscimento; al contrario dire dei
"bravo" a caso, per distrazione, calcolo o opportunismo, toglie valore
alle parole e mina l’autorevolezza. Non dire dei “bravo” quando è necessario è
una mancanza di rispetto, che rende distanti di una distanza che toglie
autorevolezza. Ad esempio: un allenatore che per distrazione non si accorge che
un suo allievo ha superato un ostacolo e non gliene dà il giusto riconoscimento
commette un errore che presto o tardi lo allontana da quell’allievo ma anche
dagli allievi.
5.
Le persone
autorevoli non scappano di fronte alle difficoltà: le persone autorevoli di
fronte alle difficoltà non si tirano indietro ma le affrontano al meglio delle
loro capacità; se non ne hanno la forza sono capaci di chiedere aiuto. L'autorevolezza è quindi correlata al
coraggio, alla capacità di saper mantenere la calma, di saper contare sulle
proprie risorse, di saper attivare e contare su risorse di altri. Il capitano
di una nave quando in una situazione d’emergenza, mantiene la calma, attinge
alle sue competenze tecniche, impartisce le istruzioni necessarie per la
sicurezza di tutti, chiede aiuto a chi è preposto, sostiene tutti a partire da
chi è in maggiore difficoltà, si dimostra autorevole.
6.
La persona autorevole vede, si accorge, delle difficoltà
degli altri (anche di quelle non esplicite) e interviene fornendo con tatto e misura,
il sostegno o l’aiuto più adeguato, senza dire nulla per non
mettere in imbarazzo la persona in difficoltà, senza vantarsi del proprio gesto.
7.
Essere equilibrati nei giudizi e nelle
reazioni: le persone autorevoli sono persone che riescono a valutare
le situazioni e a farvi fronte in modo equilibrato, senza reazioni
sproporzionate, focalizzando l’attenzione alle questioni e non alle persone; al
contrario ‘essere deboli con i forti e forti con i deboli’, ‘gestire le
situazione con due pesi e due misure a seconda delle persone che coinvolgono’
non è una modalità che caratterizza le persone autorevoli.
Preghiera eucaristica
Vogliamo coltivare le
relazioni positive
e tutti gli aspetti
che producono
serenità e benessere,
senso di
responsabilità e libertà.
Vogliamo coltivare
l’intreccio tra le generazioni
perché è fonte di
sapienza, di equilibrio, di felicità.
Vogliamo coltivare la
consapevolezza
che i figli e le
figlie non ci appartengono,
non sono fatti per
rispondere alle nostre aspettative,
ma sono frecce che
vanno verso la vita che è loro davanti.
Vogliamo affermare che
siamo responsabili di tutti i piccoli,
di tutti i figli, e
non solo dei “nostri”,
perché pensiamo di
essere legati
da una umanità e
fratellanza universale.
Vogliamo credere nelle
capacità positive
dei bambini, dei
ragazzi e di tutti i giovani,
ed aiutarli a crescere
imparando
ad essere per loro
esempi credibili.
Vogliamo sviluppare e
far crescere in noi stessi credibilità,
perché i nostri figli
crescano in libertà e senso di responsabilità.
Vogliamo non farci
sopraffare dallo smarrimento di questo tempo
e mostrare a noi
stessi e ai nostri figli che è possibile coltivare speranza,
che la vita ha senso e
che vale la pena di essere vissuta.
Ci sembra che questo
sia anche il messaggio contenuto
nel Vangelo e nella
testimonianza del cammino di Gesù
il quale la sera prima
di essere ucciso
dai sacerdoti e dai
potenti del tempo,
mentre sedeva a tavola
con i suoi amici e le sue amiche,
prese del pane, lo
spezzò, lo distribuì loro dicendo:
“prendete e mangiatene
tutti questo è il mio corpo”.
Poi preso un
bicchiere, rese grazie,
lo diede loro e tutti
ne bevvero, e disse loro:
”questo è il mio
sangue che viene sparso per tutti i popoli”.
Questo pane e questo vino,
queste riflessioni e queste emozioni,
questa comunità che li offre e li fa propri
divengano segni di liberazione dalle paure e dalle
ottusità
e si trasformino in segni di vita, di speranza
di una cultura nuova nel segno del rispetto,
della fiducia reciproca e delle relazioni positive
tra tutti le generazioni, tra tutte le persone
tra tutti i popoli.
Parlaci
dei figli
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della brama che
la Vita ha di sé.
Essi non provengono da voi, ma per tramite
vostro,
e benché stiano con voi non vi
appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i
vostri pensieri,
perché essi hanno i propri pensieri.
Potete alloggiare i loro corpi ma non le
loro anime,
perché le loro anime abitano nella casa
del domani,
che voi non potete visitare, neppure in
sogno.
Potete sforzarvi d’essere simili a loro,
ma non cercate di renderli simili a voi.
Perché la vita non procede a ritroso e
non perde tempo con ieri.
Voi siete gli archi dai quali i vostri
figli sono lanciati come frecce viventi.
L’arciere vede il bersaglio sul sentiero
dell’infinito,
e con la sua forza vi tende affinché le
sue frecce vadano rapide e lontane.
Fatevi tendere con gioia dalla mano
dell’arciere;
perché se egli ama la freccia che vola,
ama ugualmente l’arco che sta saldo.
dal libro “Il
profeta” di Gibran Kahlil
Father And Son
di Cat Stevens
|
Padre e figlio
|
Father:
|
Padre:
|
[1]
Conformemente ai valori di augeo ("produrre", "accrescere",
"integrare", "ampliare", "rafforzare",
"completare"), l'auctor, nella tradizione latina, è chi possiede
capacità d'iniziativa, promuove un atto, perfeziona e garantisce, integrandola
e rafforzandola, la insufficiente volontà o personalità di un altro.
[2] Il
testo di Serra parla di ‘padre’, ma per la nostra riflessione possiamo
utilizzare la parola ‘genitore’.
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