LA
CHIESA CHE VORREI – DI DON PIERLUIGI DI PIAZZA (*)
da: Adistaonline.it di giovedì 15 maggio
2014 – Intervista di Luca Kocci
Quella
che sogna don Pierluigi Di Piazza è una Chiesa povera e senza potere, libera e
liberatrice, non clericale, femminile, democratica e pluralista. Per
delinearla, nel suo libro appena pubblicato da Laterza (Compagni di strada. In
cammino nella Chiesa della speranza, pp. 152, euro 12), ha scelto lo stile
narrativo, del racconto di viaggio, insieme ad alcuni compagni di strada, credenti,
non credenti e credenti in altre fedi – Margherita Hack, don Tonino Bello, don
Puglisi, mons. Romero, il Dalai Lama, don Gallo, Eluana e Beppino Englaro e
altri ancora –, che sono profeti e testimoni. Ciascuno “incarna” un valore,
evangelico e laico allo stesso tempo: Margherita Hack, per esempio, la laicità
ma anche l’etica dei non credenti.
«Sono convinto – spiega don Di Piazza –
della necessità di affermare e di praticare la laicità, la laicità autentica,
libera dal confessionalismo, dall’integralismo e dal laicismo, perché ci
possono essere forme di assolutismo in entrambe le posizioni, quindi di
dipendenza, di chiusura, di ostilità. Invece la vera laicità libera la fede
alla sua autenticità, come la vera fede favorisce e incoraggia la laicità. Mi
sento laico, credente sempre in ricerca e prete. Per questo mi sono trovato a
condividere l’etica dichiarata e vissuta da Margherita Hack sulla giustizia,
l’accoglienza, la pace, i diritti civili, il superamento di ogni forma di
discriminazione, esclusione e razzismo, l’attenzione e la premura per tutti gli
esseri viventi, animali, piante e i diversi organismi. Margherita Hack diceva,
in sintonia con me, che la fede è fede e che non si può dimostrare né che Dio
esiste né che non esiste. Il rispetto quindi deve essere reciproco fra persone
diverse per ispirazione ed itinerario, ma unite dal comune obiettivo di
contribuire ad un mondo più giusto ed umano».
Poi
c’è don Gallo, immagine di una Chiesa evangelica e schierata accanto agli
ultimi…
«Don Gallo mi fa pensare soprattutto
all’uomo di fede nel Dio di Gesù di Nazareth, al suo essere prete con
convinzione ostinata e con libertà sorprendente dentro la Chiesa. La memoria
viva del suo insegnamento è il suo essere stato e continuare ad essere un
riferimento di luce, di accoglienza, di confronto fra le persone più diverse:
credenti di diverse fedi religiose e non credenti, eterosessuali omosessuali,
transessuali, carcerati, prostitute, persone dipendenti dalle sostanze,
emarginate, discriminate, scartate. Ha saputo guardare la vita e le storie
delle persone dalla strada, dal marciapiede e per questo restare sempre
partigiano, come lo era stato nella lotta di Liberazione, cioè di parte,
schierato, come ha vissuto e ci ha proposto Gesù».
Un
capitolo è dedicato ad Eluana e Beppino Englaro, con cui hai condiviso un pezzo
di strada, anche perché la parte finale della loro storia si è svolta ad Udine…
«Ho ricordato Eluana e Beppino per la
necessità di liberare la storia delle persone dalle strumentalità del
moralismo, della politica, della religione, perché l’incontro vero con la
storia delle persone possa significare ascolto, rispetto, dialogo ricerca di
strade possibili per poter contribuire a vivere, soffrire e morire nel modo più
umano possibile».
E i
“principi non negoziabili”?
«Negli ultimi anni la Chiesa, una Chiesa
politica, e certa politica hanno fatto a gara a sostenersi nel dichiarare i
principi non negoziabili, espressione che pare scomparsa con l’arrivo di papa
Francesco, il quale ha affermato che l’espressione non gli piace, perché i
valori sono tali e basta. Inoltre è grossolana nei contenuti e nel linguaggio:
“non negoziabili” si riferisce ad una sorta di trattativa mercantile,
sconveniente se riferita alla vita delle persone. E ancora più grave se si pensa
che la Chiesa dovrebbe incontrare le persone con le loro storie diverse,
ascoltare, curare, accompagnare, esprimere condivisione e incoraggiamento. La
non negoziabilità annulla ogni possibilità di dialogo. Le questioni della
bioetica, dell’inizio e del fine vita chiedono informazione e formazione,
riferimenti etici profondi, rispetto della libertà delle persone, anche
nell’accettare o rifiutare le cure, nel decidere riguardo alla morte. E questo
non si pone contro Dio, ma si esprime alla sua presenza con una libertà
consapevole e serena, con la fiducia e l’affidamento della vita, non solo di
quella biologica, a lui, fonte e accoglienza della vita».
Fra i
tuoi “compagni di strada” c’è anche Tonino Bello...
«È stato un uomo e un vescovo, poeta e
profeta, in cammino con il suo popolo e al suo servizio. Si è liberato dal
potere clericale, maschilista e autoritario, dal compito di funzionario della
religione e per questo ha espresso il potere e la forza dei segni: nel
muoversi, nel vestire, nell’incontrare, nel condividere, nell’aprire le porte
del palazzo vescovile per accogliere, nel denunciare e nel proporre con forza e
nell’incontrare con tenerezza. Continua a comunicarci una profonda spiritualità
che anima l’audacia e la concretezza delle scelte, del linguaggio e dei gesti».
Che
vescovi vorresti per la Chiesa?
«Vescovi insieme profeti e pastori, perché
le due dimensioni non sono contrapposte ma complementari. La forza della
profezia dovrebbe guidare il pastore perché non diventi un funzionario di
un’istituzione religiosa, perché annunci con libertà e franchezza la Parola e
ne viva la coerente testimonianza; perché si senta in mezzo al popolo di Dio,
non al di sopra; perché esprima segni di semplicità, di sobrietà, rinunciando a
titoli onorifici, al palazzo vescovile, all’automobile di rappresentanza. Un
vescovo che incontri, ascolti, condivida esperienze e percorsi, un uomo
appassionato del Dio di Gesù di Nazareth e delle persone, delle loro storie,
accogliente, non preoccupato dell’organizzazione, ma della sensibilità del
cuore e dell’atteggiamento di vicinanza e di prossimità. Anche nella scelta dei
vescovi il criterio non dovrebbe essere quello di fedeltà all’istituzione
religiosa, ma di fedeltà al Vangelo, di coerenza nella vita, di segni leggibili
riguardo alla giustizia, all’accoglienza, alla pace, alla misericordia, alla
verità, alla salvaguardia del creato, di tutti gli esseri viventi».
Il
Concilio attraversa e permea ogni pagina del libro. Dopo 50 anni, a che punto
siamo?
«Lo spirito del Concilio ci sta davanti,
l’impegno per il suo compimento dovrebbe vederci coinvolti, soprattutto su due
dimensioni fondamentali: la Chiesa come popolo di Dio in cammino nella storia,
di cui papa, vescovi, preti, religiosi e religiose sono una piccola parte con
compiti specifici, non di superiorità e di distanza, ma di condivisione, di
servizio. E poi il rapporto fra Chiesa e mondo: non di superiorità, di
sospetto, di giudizio preventivo, bensì di attenzione, ascolto, apprendimento,
dialogo, e poi orientamento, indicazione, insegnamento sempre rispettoso, di
forte denuncia e giudizio su tutte quelle situazioni che opprimono, offendono e
umiliano la dignità delle persone».
L’ultimo
capitolo ha come titolo “Una Chiesa che non ha paura e che guarda al futuro”. I
gesti e le parole di Francesco sono di incoraggiamento? Quale Chiesa sogni?
«Certamente le parole e i gesti di
Francesco incoraggiano tanti preti insieme a tante persone che in questi anni
sono stati sospettati e criticati per il loro impegno nella società, per un rinnovamento
di fondo della Chiesa. Sta spostando il baricentro dalla dottrina alla
testimonianza, dall’istituzione alle relazioni, dalla preoccupazione
organizzativa all’atteggiamento interiore».
Quali
sono le prime riforme da fare?
«Innanzitutto la scelta di camminare con i
poveri e di presentarsi come Chiesa povera, essenziale, sobria. Poi la scelta
di una maggiore democrazia. Da parte di alcuni si dice che la Chiesa non è una
democrazia, in parte è vero perché dovrebbe essere una comunione, che però di fatto
dovrebbe partire dall’attuazione delle elementari forme di partecipazione e di
democrazia, per poi tendere all’ulteriorità della comunione. Infine la
realizzazione di una Chiesa pluralista che riconosce le diversità culturali e
simboliche delle diverse comunità sparse su tutta la Terra. Un pluralismo di
teologie e liturgie. E ancora una Chiesa che riprende in modo profondo e pacato
alla luce del Vangelo e con il contributo delle scienze umane le dimensioni
dell’affettività, dell’amore e della sessualità nelle loro diverse esperienze
ed espressioni. È questa la dimensione fondamentale della vita delle persone:
riguarda i rapporti donna-uomo, la famiglia, i separati, i divorziati;
l’omosessualità e la transessualità, la pedofilia; il celibato obbligatorio da
sciogliere per la credibilità del celibato stesso e per una Chiesa con preti
celibi, sposati e con donne prete. Sempre, continuamente e prima di tutto il
riferimento a Gesù di Nazareth e al suo Vangelo: da qui si parte e qui si
ritorna, altrimenti la Chiesa diventa un’istituzione fra le altre, con una
copertura esteriore di religiosità».
(*) – Don Piazza e un prete “di frontiera”,
fondatore del Centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano (Ud).
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