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domenica 5 febbraio 2012

La Palestina


Dopo aver visitato la Palestina
Materiale presentato alla assemblea della Comunità dell'Isolotto
domenica 5 febbraio 2012  da Fiorella Paola Piero Urbano     
               
Colonizzazione e occupazione 

Sin dagli inizi della colonizzazione sionista in Palestina nel 1880, lo scopo principale fu l’appropriazione ed espropriazione della terra, con l’obiettivo dichiarato di creare uno stato ebraico. La Palestina veniva dipinta come una “terra senza popolo” e gli ebrei di tutto il mondo furono incoraggiati a stabilirvisi come dei veri pionieri. Il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), istituito all’epoca del Quinto Congresso Sionista a Basilea nel 1901, fu il principale ente responsabile dell’acquisizione della terra, che sarebbe divenuta “proprietà inalienabile del popolo ebraico”. Le terre acquistate dai grandi feudatari – per la maggior parte proprietari terrieri assenteisti che risiedevano nelle città di Libano, Turchia o Siria – furono sistematicamente liberate dalla presenza dei contadini palestinesi, che le coltivavano per tradizione. Gli inglesi non smisero mai di incoraggiare l’immigrazione e la colonizzazione, attraverso l’invio di truppe per evacuare le terre acquistate dal JNF. Nel 1925 il JNF fu sostituito dal Fondo Nazionale per Israele, tuttora attivo. Quando, il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite votarono il loro piano di spartizione (risoluzione 181), le terre di proprietà “ebraica” rappresentavano soltanto il 7-8% della superficie complessiva della Palestina. Le Nazioni Unite approvarono la creazione di uno stato ebraico sul 56% del paese, lasciando il 43% alla maggioranza palestinese, mentre la regione di Gerusalemme (inclusa Betlemme) doveva diventare zona internazionale.

·      Confisca della terra nei territori del ‘48

       La popolazione palestinese dei territori del 1948 (l’attuale stato di Israele),    scampata ai trasferimenti, ha assistito ininterrottamente per oltre 50 anni alla sistematica confisca delle terre. Sebbene i palestinesi israeliani rappresentino il 20% dell’attuale popolazione dello stato di Israele, essi detengono non più del 3% dalla terra, mentre il 93% della superficie del paese è stato dichiarato “suolo demaniale”. Con la legge sulla Proprietà degli Assenti (1950), Israele ha dato una cornice “legale” alla confisca delle terre e delle proprietà dei rifugiati, che non hanno più potuto rientrarne in possesso. Analogamente, sono state introdotte nuove misure “di legge” sia militari che civili; tra queste il decreto sulla “sistemazione dei territori” si è rivelato uno degli strumenti più efficaci. Grazie ad esso, interi territori in precedenza sotto l’amministrazione comunale araba sono stati integrati nei nuovi confini delle municipalità ebraiche, che ne limitano l’edificabilità (attraverso il controllo dei permessi edilizi nell’ambito della pianificazione urbana) o li riservano a progetti di “interesse generale”. Inoltre enormi aree sono state dichiarate “zone militari”. Uno dei metodi di confisca più insidiosi consiste semplicemente nel non riconoscimento di decine di villaggi arabi che vengono privati della proprietà e dei sevizi fondamentali (acqua, elettricità, servizi sanitari ecc). La costante crescita delle colonie nei territori del ’48 provocò forti proteste, culminate nel 1976 nella “giornata della terra”  e riaccesesi dopo gli accordi di Oslo. A Nazareth, Umm al- Fahm e Tarshiha ( al confine libanese) centinaia di ettari di terra sono in costante pericolo. La confisca della terra e i provvedimenti restrittivi in materia di alloggi, d’altra parte, hanno favorito il conseguente sviluppo di costruzioni abusive. Tutte queste misure rientrano in un progetto politico noto come piano “Stella di Davide” il cui obiettivo è creare una maggioranza ebraica nelle regioni a prevalenza araba.  (Alta e Bassa Galilea, il Triangolo e il Negev); il piano cerca inoltre di spezzare la contiguità territoriale tra le zone di popolazione araba.  Per realizzare questo cambio demografico, il progetto della Trans-Israel Highway attualmente in preparazione favorirà la concentrazione della popolazione ebraica più a est rafforzando i legami fra le colonie al di là della Linea Verde, cioè nella Cisgiordania. Il costo sarà pagato dai palestinesi di Israele che vedranno un terzo delle loro terre confiscato per la realizzazione del progetto.

·      Nei territori occupati nel ‘67

       La colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati nel 1967 rispondeva alla strategia militare nonché agli interessi economici (controllo delle principali strade della Valle del Giordano e altrove; controllo degli acquedotti e del mercato palestinese e manodopera a basso costo) e ideologici (la realizzazione della grande Israele) dello stato. Queste azioni erano una prosecuzione delle politiche attuate nei territori del ’48. Dal 1967 al 1977 nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza si insediarono 35.000 coloni ebrei. I piani di colonizzazione e popolamento di nuove aree subirono una forte accelerazione durante il “processo di pace”. All’epoca della conferenza di Madrid nel 1991 nella Cisgiordania c’erano 75.000 coloni ebrei; all’epoca della firma degli accordi di Oslo nel 1993, 95.000; alla fine dei governi di Rabin e Peres nel 1996, 147.000. Per realizzare la politica di insediamento furono confiscati 29.496 ettari di terra. Nel 2001 in Cisgiordania vivevano 180.000 coloni, a Gerusalemme Est 190.000, a Gaza 5.000 e nelle alture del Golan occupate alla Siria 17.000. Nel gennaio 2000 c’erano 209 colonie israeliane (190 nella Cisgiordania e 19 nella Striscia di Gaza). In seguito alla firma degli accordi di Oslo furono create oltre 74 colonie e altre 27 dopo l’accordo di Wye Plantation nell’ottobre 1998. Sotto il governo Barak fu approvata la costruzione di 3.499 unità abitative nelle colonie, delle quali ne furono realizzate 2.270. Alla fine del 2006, nei 199 insediamenti della Cisgiordsania vivevano 526.894 coloni, il 43% dei quali in insediamenti attorno a Gerusalemme Est. I sussidi statali per gli acquirenti arrivarono fino a 17.000 $ e per i proprietari terrieri furono approvati sgravi fiscali fino a 10 anni. Dallo scoppio dell’Intifada di al-Aqsa è stato dato il via alla realizzazione di circa altre 15 colonie ebraiche. Dall’inizio dell’impresa di colonizzazione Israele avrebbe speso per gli insediamenti 80 bilioni di dollari,m finanziati in larga parte dal governo americano.

·      Le fasi della colonizzazione israeliana

     Il Piano Allon ha delineato la politica di costruzione delle colonie dal 1967 al 1977, mirando sia ad assicurare il controllo del maggior numero di territori possibile nella Cisgiordania attraverso la conquista di zone strategiche (la Valle del Giordano e le fonti montane) sia a limitare la crescita demografica di Gerusalemme Est. Dal 1978 il piano di colonizzazione cominciò ad abbattere la Linea Verde (la linea di armistizio del 1949) puntando al cuore della Cisgiordania; l’obiettivo era realizzare una contiguità territoriale in vista di una futura annessione della Cisgiordania e persino di Gaza. Il Piano “sette stelle” del 1991 lo confermò. La costruzione di sette colonie sulla Linea Verde (Modi’in Illit, Ofarim, Elkana, Sal’it, Rehan…) doveva effettivamente cancellare ogni concetto di confine tra Israele e la Cisgiordania. Oggi, nei pressi della Linea Verde si sono sviluppate 21 colonie abitate da oltre 72.000 coloni. Il Piano comprende anche Gerusalemme. Durante gli accordi di Oslo, Israele intensificò il processo di colonizzazione attorno alle zone palestinesi autonome a ritmi senza precedenti. Isolata da Gerusalemme e dalla Striscia di Gaza, la Cisgiordania è tagliata da blocchi di colonie e da una rete di arterie principali sotto il controllo israeliano e accessibile ai soli israeliani. La crescita geografica e demografica di ogni località, città o villaggio palestinese, autonomo, semiautonomo o non autonomo viene pertanto soffocata.

·      Sviluppi recenti

      Nel 2002, mentre l’esercito israeliano tornava a invadere le principali città della Cisgiordania, il governo israeliano dava inizio alla realizzazione di un nuovo e potenzialmente più minaccioso progetto: la costruzione del Muro di Separazione. Una volta completato, il Muro taglierà la maggior parte della Cisgiordania, annettendo di fatto altri territori palestinesi e allo stesso tempo isolando Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania e riducendo ulteriormente la libertà di movimento dei palestinesi nei territori occupati. Nell’agosto 2005, il primo ministro israeliano Ariel Sharon ordinò un disimpegno parziale dalla Striscia di Gaza. Sebbene al resto del mondo fosse stato presentato come tale, ad oggi il disimpegno israeliano non è completo: Israele mantiene il controllo dello spazio aereo, delle acque territoriali e di tutti i confini, ridotti a tre, tranne di quello egiziano a Rafah, dove fu creata una missione dell’Unione Europea di Assistenza alle Frontiere (EUBAM). In realtà, anche Rafah resta sotto il controllo israeliano, visto che per raggiungere il loro posto di lavoro gli osservatori dell’EUBAM hanno bisogno del consenso di Israele, mentre videocamere istallate al confine consentono a Israele di monitorare a distanza ogni movimento. In ogni caso, dall’estate 2006, la frontiera di Rafah restò aperta soltanto il 19% del tempo, giacchè in seguito alla cattura di uno dei suoi soldati l’esercito israeliano condusse una operazione su larga scala. Dal giugno 2007 la frontiera venne definitivamente chiusa, portando alla drammatica, sebbene temporanea, rottura del confine con l’Egitto agli inizi del 2008. Le elezioni parlamentari e presidenziali del gennaio 2006 videro la vittoria di Hamas. Era la prima volta che Hamas si candidava e, sebbene ci si aspettasse che il partito conquistasse un considerevole numero di seggi, la sua schiacciante vittoria (74 seggi su 132) colse tutti di sorpresa. Falliti i tentativi di formare un governo di coalizione con Fatah, il 29 marzo 2006 Hamas presentò il suo governo sotto la guida  del primo ministro Ismail Haniyeh. Il nuovo governo fu subito boicottato sia da Israele che dagli Stati Uniti e dall’ Europa, che consideravano Hamas un’organizzazione terroristica. Europa e Stati Uniti congelarono ogni aiuto finanziario al governo e Israele trattenne le tasse dovute all’Autorità Palestinese. In seguito alla cattura di tre soldati israeliani, uno nella Striscia di Gaza e due al confine con il Libano, nell’estate 2006 il primo ministro israeliano Ehud Olmart autorizzò due devastanti operazioni militari su larga scala: l’invasione di Gaza e una nuova guerra nel Libano. Sebbene il conflitto dovesse essere diretto solo contro Hezbollah, esso causò gravi perdite tra i civili e danni alle infrastrutture fino a Beirut. La guerra durò 34 giorni, causando la morte di oltre 1000 civili libanesi e quasi 1 milione di profughi. Nella Striscia di Gaza il bilancio di vittime fra i civili fu di oltre 200, mentre la distruzione della centrale elettrica provocò una grave carenza di elettricità e di acqua. L’8 febbraio 2007 Hamas a Fatah acconsentirono a formare un governo di unità nazionale, sulla base dell’accordo della Mecca con l’intermediazione dell’Arabia Saudita. Tuttavia le tensioni fra le due fazioni non cessarono, culminando in un confronto armato nel giugno 2007. Il conflitto terminò a metà giugno, con Hamas che imponeva il controllo sulla Striscia di Gaza. In risposta, Israele rafforzava ulteriormente la sua presa di ferro sul piccolo pezzo di terra, imprigionando virtualmente 1,5 milioni di palestinesi ed esacerbando una situazione umanitaria già gravissima, acuitasi nel 2008 quando, con deliberati atti di punizione collettiva, Israele cominciò ad imporre tagli sempre più frequenti alla fornitura di energia elettrica e di benzina. Poco dopo la presa di controllo di Hamas sulla Striscia di Gaza, il presidente palestinese Mahmoud Abbas dichiarò la formazione di un nuovo governo nella Cisgiordania. Nell’autunno 2007 Abbas incontrò dei rappresentanti israeliani ad Annapolis negli Stati Uniti per discutere un potenziale ‘accordo di pace’. La conferenza di Annapolis, sotto l’egida del governo statunitense, mirava a raggiungere un accordo prima della fine del mandato del presidente George Bush. Ma con la costruzione della colonie che continuava spedita a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania e del Muro di separazione, questa ambizione sembrò drammaticamente lontana dal potersi realizzare. A ciò va aggiunto che nel dicembre 2008, poco prima dell’insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente Obama ed alla vigilia delle elezioni in Israele, l’esercito israeliano attaccò brutalmente la Striscia di Gaza.

 L’operazione “Piombo Fuso” ha portato la popolazione di Gaza allo stremo delle forze, rendendo sempre più drammatica la crisi umanitaria. Per 23 giorni, Gaza è stata attaccata senza pause da terra, cielo e mare con migliaia di tonnellate di munizioni, tra cui proiettili da 155 mm al fosforo bianco, uranio impoverito e DIME (un particolare tipo di esplosivo). Le principali organizzazioni sui diritti umani hanno dichiarato che l’uso israeliano di artiglieria pesante nelle zone residenziali di Gaza viola le norme internazionali e può essere considerato un attacco indiscriminato sui civili. Secondo Goldstone, ispettore delle Nazioni Unite, Israele ha compiuto “ crimini di guerra e forse anche crimini contro l’umanità” . L’esercito israeliano ha ucciso circa 1350 palestinesi, un terzo dei quali minori, secondo quanto riporta il Ministero Palestinese della Salute. Più di 5000 persone sono state ferite o menomate. Tra gli israeliani sono morte 13 persone, di cui 10 soldati. Ci sono state esecuzioni sommarie di civili, sono state bombardate ambulanze, ospedali, scuole e strutture delle Nazioni Unite dove i civili avevano trovato riparo. Sono state distrutte infrastrutture civili come case private, stazioni di polizia, edifici governativi, il parlamento, fattorie , fabbriche, luoghi di culto. Anche il porto e le barche da pesca sono state colpite. Gli stessi leader israeliani hanno dichiarato che l’invasione era stata pianificata da oltre 8 mesi e l’ordinanza deliberata nel giugno 2008. Il Congresso degli Stati Uniti d’America aveva approvato nel settembre 2008 la spedizione di circa 1000 bombe anti bunker ad alta precisione in Israele, queste armi sono state usate dall’esercito israeliano per bombardare Gaza. Chiusa da tutti i lati, anche verso il mare, la popolazione di Gaza non aveva nessuna via di scampo (come non l’ha tuttora), era in trappola, traumatizzata e terrorizzata, senza acqua corrente e elettricità per tutta la durata dell’attacco. La situazione umanitaria, già critica dopo 3 anni di embargo, è ulteriormente peggiorata e centinaia di migliaia di abitanti sono stati sfollati, divenendo paradossalmente profughi due volte. Più di 40.000 persone sono tuttora senza casa e non è quantificabile il numero di persone, con una percentuale elevatissima di bambini, che hanno subito gravi traumi psicologici  dopo l’attacco.

Al suo ritorno da una visita alla Striscia di Gaza, il Sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’ONU, John Holmes, ha dichiarato: “La distruzione che ho visto è devastante, sia in termini umani che materiali. L’entità delle perdite umane e dei feriti nella popolazione civile è destinato ad avere un impatto duraturo sul benessere mentale e fisico dei palestinesi di Gaza”. Ma, malgrado queste affermazioni, e l’affermazione di Goldstone,  a due anni dall’attacco a Gaza le condizioni di vita sono ancora disumane. L’embargo continua e non permette che la popolazione possa usufruire dei beni di prima necessità. Viene da chiedersi cosa deve ancora accadere perché il mondo “civile e democratico” faccia qualcosa per impedire tutto ciò.
                   La resistenza   palestinese
     La nakva  (catastrofe) 1948

  Il 1948 fu per i palestinesi l’anno della catastrofe, l’anno della distruzione del paese e dell’esilio. Gli stati della coalizione araba si astennero da qualsiasi coinvolgimento militare fino al giorno successivo alla dichiarazione dello stato di Israele. Solo allora intervennero e soltanto nelle regioni non ancora sotto il controllo sionista: fu l’inizio della prima guerra arabo-israeliana (maggio 1948 – gennaio 1949). Tuttavia, il conflitto rimase fondamentalmente impari in termini di uomini mobilitati (meno di 14.000 dalla parte araba), equipaggiamenti e strategia. Col proposito di spianare la strada al progetto sionista, la banda Stern, guidata da Yitzhak Shamir (leader del partito del Likud negli anni ’80 e più volte primo ministro tra il 1983 e il 1992), con l’obiettivo di superare ogni ostacolo sul cammino del progetto sionista rivendicò l’assassinio del mediatore delle Nazioni Unite in Palestina, il conte Bernadotte, ucciso io 17 settembre 1948 per aver espresso forti obiezioni alla politica di etnocidio sionista. All’epoca degli accordi per l’armistizio con l’Egitto nel febbraio 1949, Israele controllava il 78% della Palestina storica, la restante parte fu annessa da re Abdullah alla Transgiordania e nota come la Cisgiordania, mentre la striscia di terra a sud di Gaza (la striscia di Gaza) fu posta sotto il controllo militare egiziano.
Nel corso degli anni ’50 le espulsioni e i massacri continuarono: nel febbraio 1951 furono espulsi gli abitanti di 13 piccoli villaggi a Wadi Ara (a sud della Galilea) e nell’aprile dello stesso anno quelli della cittadina di al-Majdal. Nell’ottobre del 1953, 53 palestinesi furono uccisi nei bombardamenti del villaggio di Qibya, nel distretto di Qalqilya. Nel 1956 i palestinesi sostennero ardentemente il presidente egiziano Nasser e la nazionalizzazione del Canale di Suez. L’aggressione tripartita (anglo-franco-israeliana) contro l’Egitto consentì a Israele di occupare la striscia di Gaza e parte del Sini. Il 3 novembre 1956 le forze israeliane massacrarono più di 273 civili palestinesi nel campo profughi di Khan Younis e il 12 novembre dello stesso anno oltre 100 civili palestinesi furono massacrati nel campo profughi di Rafah. All’epoca era in atto una sanguinosa repressione contro i palestinesi del ’48 che avevano abbracciato la causa nazionalista araba (il massacro di 49 palestinesi nel villaggio di Kufr Qassem, vicino a Tel Aviv, nell’ottobre 1956). A partire dal 1949 piccole frange della resistenza condussero operazioni militari contro Israele, il cui esercito intensificò gli attacchi ai villaggi di confine e a Gaza. Nel 1959 un gruppo di combattenti progettò di riunire tutti i militanti in un’unica organizzazione che si sarebbe fatta portatrice della lotta per la libertà; essi speravano di spingere gli stati arabi all’azione e di incoraggiare una lotta armata sul modello delle guerre di liberazione algerina e vietnamita. Questi uomini che portavano i nomi di Yasser Arafat, Khalil al- Wazir, Salah Khalaf e Yusef en-Najjar, fondarono il movimento clandestino Fatah. La sua ala militare, al-Assifa (la tempesta), condusse la sua prima operazione il 1 gennaio 1965. In quegli stessi anni anche il Movimento Nazionalista Arabo (ANM) intraprese la strada della lotta armata. Le organizzazioni militari si dettero nomi come “gli eroi del ritorno” o “organizzazione per la vendetta”. Dopo la sconfitta araba del 1967 la sezione palestinese dell’ANM inaugurò il Fronte Popolare per al Liberazione della Palestina (FPLP).

  • La Naksa (tragedia) – 1967

      Nel giugno 1967 Israele sferrò un attacco a sorpresa contro Egitto, Giordania e Siria e occupò la Cisgiordania, Gaza, il Sinai e le alture del Golan, dando inizio a un nuovo conflitto. Più di 300.000 palestinesi, un terzo dei quali già rifugiati nel ’48, furono esiliati. Su Gaza e la Cisgiordania si abbattè una brutale repressione. In risposta a questa nuova occupazione, il 29 novembre 1967 l’ONU approvò la risoluzione 242, un documento vago che non stabiliva né da quali territori Israele si dovesse ritirare né fissava una scadenza per il ritiro e che implicitamente riconosceva come confini le linee di armistizio della guerra del ’48 (in contraddizione totale con la risoluzione 181). I gruppi di resistenza palestinesi diedero avvio alla guerra di liberazione, rifiutando in massa la risoluzione 242 che”. ignora i diritti nazionali del popolo palestinese. Non accenna all’esistenza di questo popolo” (comitato centrale di Fatah). A costo di gravi perdite, il 21 marzo 1968 il movimento di resistenza palestinese respinse un attacco israeliano al campo profughi di Karameh, nella parte orientale della Valle del Giordano. Questa vittoria produsse un forte effetto psicologico: il mito dell’imbattibilità israeliana era crollato. I gruppi  di resistenza condivisero la linea adottata dall’OLP (creata nel 1964 su in iniziativa di Nasser) e nel 1969 elessero Yasser Arafat presidente. Movimenti di resistenza si svilupparono in Giordania, Siria e Libano mentre la comunità internazionale continuava ad ignorare le sorti del popolo palestinese. Così le organizzazioni palestinesi portarono la lotta sulla scena internazionale con tre obiettivi: ricordare al mondo l’esistenza del popolo palestinese attraverso azioni spettacolari (dirottamento di aerei e cattura di ostaggi), radunare forze progressiste e minacciare gli interessi di Israele. La repressione di questi movimenti giunse all’apice in Giordania nel 1970. Re Hussein di Giordania utilizzò il piano di “pace” americano, che imponeva il cessate il fuoco, per uccidere migliaia di palestinesi. Poi nel 1971 attaccò le ultime roccaforti della guerriglia palestinese sulle montagne di Ajloun. Sconfitto, il movimento di resistenza si trasferì in Libano, ultimo fronte rimasto al di fuori della Palestina.

·      La guerra civile libanese e l’invasione israeliana
“Crocifissero una donna viva. Vidi il suo corpo,
le braccia tese, coperte di mosche,
specie alle estremità delle mani,
sui dieci buchi di sangue scuro coagulato :
le avevano tagliato le falangi, i polpastrelli.
E’ da questo che deriva il loro nome, mi chiesi?”
  • Jean Genet, Prigioniero d’amore

      Nel 1975 scoppiò la guerra civile libanese, provocata in larga parte da Israele e Stati Uniti. Nel 1976 i campi profughi palestinesi nei dintorni di Beirut furono assediati e sistematicamente bombardati; molti furono interamente distrutti dai falangisti e dalle forze israeliane comandate dal ministro della Difesa Shimon Peres. Il 15 marzo 1978 gli israeliani invasero il sud del paese, nella speranza di infliggere il colpo di grazia alla resistenza palestinese in Libano. Nello stesso tempo, ignorando le rivendicazioni del fronte arabo unito, nel settembre  1978 il presidente egiziano Sadat firmava con Israele e Stati Uniti gli accordi di Camp David, che autorizzavano Israele a concentrare tutte le sue forze militari al confine settentrionale. Così, nel giugno 1982, Israele invadeva il Libano, ancora una volta con l’obiettivo di ”epurare” Beirut  dall’OLP e dal movimento nazionale libanese, collocando nel contempo un alleato a capo dello stato. L’assedio che seguì fu tremendo: vennero sganciate bombe a frammentazione su campagne e città e in alcuni campi profughi venne interamente distrutto oltre il 70% delle case. Secondo le stime, la guerra costò la vita a circa 40.000 persone fra libanesi e palestinesi.
Nell’agosto 1982 le grandi potenze evacuarono dal Libano un gruppo di combattenti dell’OLP, i cui leader ripararono in Tunisia, dove stabilirono il loro quartier generale. Il 15 settembre, dopo l’abbandono di Beirut da parte delle Nazioni Unite, l’esercito israeliano entrava a Beirut per “ristabilire la pace”. Tra il 16 e il 18 settembre l’orrore giunse la culmine nei campi di Sabra e Shatila, dove oltre 3.000 rifugiati palestinesi disarmati furono massacrati dalle milizie libanesi sotto la direzione e supervisione dell’esercito israeliano, che controllava tutte le uscite.
I campi del Libano meridionale rimasero sotto il controllo delle milizie israeliane e libanesi fino al 1985, quando l’esercito si ritirò più a sud. Contemporaneamente si inaspriva il conflitto fra le diverse fazioni arabe, che culminò nel 1987, quando diversi campi profughi furono distrutti.

·      Intifada   Di fronte all’occupazione e alle sue implicazioni (repressione, deportazioni, confisca delle terre, insediamenti, umiliazioni ecc) i palestinesi dei territori occupati ricominciarono la lotta. Il 9 dicembre 1987 scoppiò la prima ” Intifada” (rivolta), alla quale aderì l’intera comunità palestinese rispondendo agli ordini del Comando Unificato dell’Intifada o agli appelli del Movimento di Resistenza Islamico, Hamas, fondato il 14 dicembre 1988. La lotta contro l’occupazione israeliana prevedeva una politica di scontro diretto con soldati e coloni israeliani, azioni di disobbedienza civile (rifiuto di pagare tasse o multe, scioperi, boicottaggio dei prodotti israeliani, ecc.) e una riorganizzazione della società attraverso Comitati Popolari di solidarietà e di mutua assistenza, responsabili principalmente dell’approvvigionamento di derrate alimentari, istruzione e sanità.

A questa “sovversione”, il ministro della Difesa del governo israeliano Rabin (futuro primo ministro), Shamir e Ariel Sharon del Likud, Shimon Peres del partito Laburista risposero con una politica detta di “forza, potere e percosse” ovvero la politica delle “ossa rotte”. Venne dichiarato la stato d’assedio, dando campo libero alle forze occupanti a Gaza e nella Cisgiordania di imporre la legge militare con la forza e venne inasprito il coprifuoco. Decine di migliaia di palestinesi furono picchiati, arrestati e torturati, tra questi anche donne e bambini; la case dei militanti furono demolite. Circa 1.400 civili palestinesi furono uccisi e molti mutilati a vita. Molte scuole e università, cliniche ed ospedali furono chiusi. Nel 1990-91 la repressione israeliana nei territori occupati venne raddoppiata e fu imposto dappertutto il coprifuoco più lungo dall’inizio dell’Intifada.

·      Negoziati israelo – palestinesi

      Nell’ottobre del 1991 la conferenza di Madrid confermò il primato dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina come corpo istituzionale rappresentante del popolo palestinese. Dei negoziati segreti condotti a Oslo portarono alla firma di un accordo siglato a Washington il 13 settembre 1993. La Dichiarazione di Principi dell’accordo all’articolo IV affermava che ”le parti (Israele e Autorità Nazionale Palestinese) considerano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza un’unica entità territoriale, da preservare come tale durante tutto il periodo ad interim”. Esso prevedeva la costituzione di un consiglio palestinese che avrebbe gestito la transizione verso l’autonomia (per un periodo ad interim di 5 anni), il trasferimento di poteri in materia di istruzione e sanità, la creazione di una forza di polizia palestinese e il ritiro dell’esercito israeliano dalla Cisgiordania e da Gaza; nel terzo anno si sarebbe dato avvio ai negoziati sui profughi, le colonie, Gerusalemme e i confini. Nel luglio del 1994 Arafat entrava a Gaza e Gerico, le prime città autonome. Tuttavia dal 1993 l’integrità territoriale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza piuttosto che rafforzata è stata progressivamente svuotata. Infatti il 28 settembre 1995 gli accordi di Oslo II divisero la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in tre aree amministrative ben distinte:

Area A : rappresenta approssimativamente il 3% della Cisgiordania e il 60% della Striscia di Gaza. Qui l’Autorità Palestinese( AP) esercita piena sovranità. L’area A comprende un territorio con 8 città (Ramallah, Nablus, Jenin, Tulkarem, Qalqilya, Gerico, Betlemme e parte di Hebron) e qualche cittadina.
Area B : quest’area, il 27% della Cisgiordania, include zone rurali (la maggior parte dei villaggi e delle cittadine); gli affari civili sono gestiti dall’AP, mentre le autorità militari israeliane esercitano un controllo di sicurezza sul territorio.
Area C : Quest’area corrisponde al 70% della Cisgiordania e al 40% della Striscia di Gaza. Qui l’AP non ha nessuna autorità. Questa zona include aree scarsamente popolate (fatta eccezione per Hebron e per i quartieri nei sobborghi di Gerusalemme), le periferie di cittadine e villaggi, aree disabitate, zone industriali come le cave, le aree degli insediamenti israeliani e la rete autostradale.

Questa divisione ha prodotto un modello “a macchia di leopardo” di circa 227 enclaves palestinesi, che di fatto separano la Striscia di Gaza dalla Cisgiordania e impediscono la libera circolazione di merci e persone fra le città dell’Area A autonoma, esposte dunque in ogni momento a blocchi israeliani. Da quando nel 1980 Israele ha annesso unilateralmente la città di Gerusalemme, la popolazione palestinese lì residente è soggetta alla legge civile israeliana, sebbene questa condizione non le conferisca la cittadinanza o diritti di alcun tipo.
Malgrado il ritiro dell’esercito israeliano dalle principali città della Cisgiordania e da Gaza, la costruzione accelerata di nuove colonie sia in Cisgiordania che a Gerusalemme portò allo sconforto la popolazione palestinese che, dopo il massacro di 29 persone presso la Tomba dei Patriarchi a Hebron nel 1994, rafforzò la sua opposizione.
Nel 1995, un estremista israeliano uccise il primo ministro Rabin. Nel 1996 Shimon Peres per guadagnare consensi elettorali ordinò l’assassinio di Yahya Ayyash, comandante delle Brigate Ezzedin al-Qassam (l’ala militare di Hamas). Il Movimento di Resistenza Islamica reagì con una serie di attacchi  descritti come “la risposta a cinquant’anni di terrore e crimini sionisti perpetrati contro la popolazione civile palestinese”. Shimon Peres, criticato duramente dai suoi concittadini, inviò truppe nel Libano meridionale, che bombardarono un campo dell’ONU dove rimasero uccisi più di 100 civili, in prevalenza donne e bambini che lì avevano trovato rifugio.

·      L’Intifada di al-Aqsa

       La provocatoria visita di Ariel Sharon al Monte del Tempio alla Moschea di al-Aqsa il 27 settembre 2000, scatenò una nuova rivolta contro l’occupazione israeliana. Il primo ministro Ehud Barak ordinò immediatamente una dura repressione dei dimostranti, tra i quali c’erano anche palestinesi cittadini israeliani; decine di palestinesi di ogni età rimasero uccisi o feriti. Così chiamata in riferimento alla “visita” di Sharon e al bagno di sangue che ne seguì, l’Intifada di al-Aqsa, ben al di là della provocazione di Sharon, fu espressione del rifiuto palestinese degli accordi di Camp David II, che avevano tentato di imporre una soluzione politica ignorando i diritti fondamentali dei palestinesi e immaginando un futuro “Stato di Palestina” sotto forma di mero protettorato. Nel corso dei colloqui Barak impose ’le linee rosse’ già tracciate dai suoi predecessori (Rabin, Peres e Netanyahu) dalla firma degli accordi di Oslo: non sarebbe stata applicata nessuna risoluzione ONU, né il diritto di ritorno dei rifugiati alle loro città o villaggi di origine (Risoluzione 194) né la creazione di uno stato palestinese sui confini antecedenti al 1967 (Risoluzione 242); lo stato palestinese indipendente non avrebbe esercitato alcuna sovranità all’interno dei suoi stessi confini. Lo scoglio principale rimaneva Gerusalemme, che doveva assumere lo statuto di città aperta, unita, sotto la sovranità israeliana. La rivolta di al-Aqsa fu anche la risposta a 8 anni di “processo di pace” , che avevano significato altrettanti anni di colonizzazione, attraverso i quali Israele aveva affermato de facto la sua sovranità sui territori palestinesi occupati dal 1967. Negli 8 anni successivi ad Oslo la politica di Governo di Israele si concentrò non solo sull’espansione delle colonie a Gerusalemme Est, nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, ma anche sulla frammentazione dei territori palestinesi in enclave isolate, con conseguenti limitazioni alla libertà di movimento degli abitanti, sull’isolamento di Gerusalemme, la creazione di un’economia di dipendenza, umiliazioni quotidiane e altri abusi dei diritti umani fondamentali. Visti gli sviluppi di Oslo, i membri dell’AP che avevano condotto le trattative furono aspramente criticati per la loro strategia. I palestinesi guardavano inoltre con crescente preoccupazione all’ambiguo atteggiamento della comunità internazionale, specialmente delle Nazioni Unite, che non erano intervenute sulla base delle loro stesse risoluzioni né prima né dopo gli accordi di Oslo. Le loro aspettative di giustizia erano state tradite: il ruolo del diritto internazionale sembrava ridursi all’innocua affermazione di “sostenere il processo di Pace in Medio Oriente”
 di Abdelrahman Al Ahmar -
All’età di 16 anni, varcando le porte d’acciaio delle prigioni militari israeliane, non avrei mai potuto ritornare alla mia vita precedente. L’avamposto di Levinger, la violenza dei suoi coloni, avevano cambiato in modo permanente la mia vita.
http://ww2.informarexresistere.fr/wp-content/uploads/2012/01/xPalestina_bambino_soldato_FrancescoPongiluppi.jpg.pagespeed.ic_.7n4z0Mi_Jw.jpgLa prima volta che venni attaccato da un colono israeliano avevo 14 anni. Stavo andando a scuola quando un uomo armato, con addosso un copricapo e che se ne stava a fianco di alcuni soldati israeliani, mi strappò lo zaino dalla schiena e lo gettò nel fango.
Ciò non avvenne lo scorso mese, né capitò vicino a un nuovo avamposto a Nablus. Questo successe 30 anni fa, sulla strada principale verso Betlemme, vicino al campo profughi di Deheisheh, dove abitavo.
Questo colono non era semplicemente una persona disadattata e delusa. Era, appresi più tardi, il padre del progetto religioso d’insediamento – il rabbino Moshe Levinger.
In quei giorni, i coloni e i bus della Egged nelle loro vie da e per i nascenti insediamenti nell’area, passavano direttamente attraverso il campo. I loro veicoli erano spesso gli obiettivi del lancio di molte pietre: chi tra noi voleva che israeliani armati utilizzassero le nostre strade?
Levinger voleva dimostrare a noi chi era il capo. In un primo momento fermava la sua auto, ci inseguiva e tentava di attaccarci. Urlava ai soldati che presidiavano la strada di arrestare e colpire i bambini. I soldati allora sparavano gas lacrimogeni e giocavano con noi al gatto e al topo nei vicoli del campo.
Incoraggiato dal supporto dell’esercito, Levinger e i suoi seguaci ‘pionieri’ entravano nel campo e aprivano il fuoco a caso. Ne conseguivano scontri. I soldati allora accorrevano e arrestavano, mentre Levinger e i suoi amici ritornavano alle loro auto per guidare fino a casa, nei loro insediamenti.
La violenza divenne un fatto quotidiano. Questo rappresenta cosa era la vita per me e i miei amici durante quegli anni.
Per Levinger e il suo movimento nazionalista, tutto ciò costituiva un ostacolo ai loro spostamenti da e per Gerusalemme. Per placare questi campioni di Sion, le forze di difesa israeliane alla fine eressero attorno a Deheisheh una recinzione alta 9 metri e sormontata da filo spinato.
Le migliaia di residenti del campo ora avevano una singola via di accesso e di uscita, presidiata da soldati, così che sembrava di vivere in una prigione. Un coprifuoco dopo le sette di sera venne imposto per anni.
I coloni avevano vinto: si erano impossessati dell’unica via di accesso a Deheisheh e della parte sud del West Bank, e avevano messo noi arabi in gabbia. Prendendo atto della sua invincibilità, il padre del movimento dei coloni – non una frangia radicale della estrema destra, ma lo stesso Levinger – creò allora un ‘avamposto’, un nuovo insediamento, lungo la strada di fronte il campo. Lo fece con un casa mobile, dove issò una bandiera israeliana, dichiarando questo come il primo insediamento vicino alla tomba di Rachele.
Protetto dai soldati delle forze di difesa israeliana, invitava i suoi amici pionieri e dava feste fino a tarda notte, mentre noi rimanevamo sotto il coprifuoco. Come nel caso di Hebron oggigiorno, i soldati mettevano Deheisheh sotto coprifuoco diurno quando l’insediamento veniva visitato da delegazioni di coloni affini alle loro idee. Ogni giorno portava un nuovo incubo – scontri, coprifuochi, gas lacrimogeni, chiusura delle scuole. Le nostre case venivano colpite di notte e vedevamo i nostri amici, le nostre madri e le nostre sorelle attaccate.
Con il supporto dell’esercito israeliano, quest’uomo, l’amato rabbino del movimento religioso dei coloni, stava distruggendo le nostre vite. Non vedevamo nessun segnale di fine a tutto ciò, soltanto più israeliani in procinto di spostarsi nei nostri quartieri e rendere le nostre vite un inferno.
E così un gruppo di noi ragazzi – in sei, tra i 13 e i 16 anni – si organizzò e combatté nell’unico modo in cui sapeva farlo: con pietre e con poche improvvisate bottiglie riempite di cherosene e uno stoppino fissato all’interno. Le lanciavamo verso l’avamposto e ai soldati che stavano permettendo di distruggerci la nostra infanzia.
Nessuno fu ferito. E a metà di una fredda notte d’inverno, soltanto pochi giorni dopo che c’eravamo organizzati, un poliziotto in borghese dei servizi segreti israeliani, scortato da un grande contingente dell’esercito, rastrellò le nostre case, ci prese tutti quanti per sottoporci a interrogatori e torture e arrestarci.
Lea Tsemel, il nostro avvocato israeliano, dichiarò di fronte al giudice militare che “erano solo ragazzi”. Il giudice rispose con una sentenza che ci condannava tutti e sei dai quattro ai sei anni di prigione per attività terroristiche.
Mia madre svenne in tribunale: il suo figlio primogenito, per il quale lei aveva aspettato per anni, le veniva portato via per sempre. Sì, per sempre, perché a 16 anni, varcando le porte di acciaio delle prigioni israeliane, non sarei mai più potuto ritornare alla mia vita precedente.
L’avamposto di Levinger, la sua violenza da colono, cambiarono in modo permanente la mia vita. I miei amici ed io eravamo adesso ”terroristi” e per i successivi 20 anni, saremmo stati presi dalle porte girevoli degli interrogatori israeliani e delle detenzioni amministrative.
Alla fine, l’avamposto di Levinger è stato smantellato dall’esercito, che aveva deciso che era troppo difficile da proteggere a causa dei lanci di pietre dei bambini di Deheisheh.
Adesso ho 44 anni – come gli anni dell’occupazione israeliana – sono sposato e ho 4 figli. Sto finendo il mio tirocinio così che potrò diventare avvocato. Ed ancora le azioni dei pionieri di Levinger – non di una frangia particolare, ma atti del movimento tradizionale dei coloni – mi spaventano.
Ovunque io possa muovermi, ci sono delle restrizioni e il mio nome è ancora “nel computer”. Sono una minaccia alla sicurezza se voglio assistere alla nascita di mio figlio all’ospedale di Gerusalemme, e mi viene rifiutato il visto per poter andar a far visita alla mia anziana suocera a New York, perché, secondo le autorità statunitensi, “potenzialmente potrei intraprendere azioni terroristiche”.
Mi sarei dovuto comportare in modo differente all’epoca? Suppongo che se un colono israeliano dovesse strapparmi lo zaino dalla schiena e buttarlo per terra oggi, probabilmente scriverei un reclamo.
La violenza da entrambe le parti è una parte importante del problema, non la soluzione. Il progetto degli insediamenti, nella sua stessa essenza e non in una delle sue frange, era e rimane marcio e intrinsecamente violento.
Noi palestinesi abbiamo lottato a lungo per interrompere questo progetto, che viola i più elementari diritti del diritto internazionale, e per questo siamo stati etichettati come terroristi.
Oggi la società israeliana potrebbe pagare il prezzo a livello esistenziale del progetto degli insediamenti, ma noi palestinesi lo abbiamo pagato con i nostri corpi, le nostre vite e il nostro futuro.
*Abdelrahman Al Ahmar proviene dal campo profughi di Deheisheh. Oggi è il vice sindaco eletto del comune di Doha, vicino a Betlemme e Deheisheh.
Traduzione a cura di Domenico Tucci – AssoPace-Palestina http://www.osservatorioiraq.it/palestina-ecco-come-sono-diventato-un-terrorista Tratto da: Palestina: ecco come sono diventato un “terrorista” | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/01/10/palestina-ecco-come-sono-diventato-un-terrorista/#ixzz1kZt25pG9 - Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 
Traduzione a cura di Domenico Tucci – AssoPace-Palestina
 *Pubblicato su Haaretz il 23 dicembre 2011.


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