Dopo aver visitato la Palestina
Materiale presentato alla assemblea della Comunità dell'Isolotto
domenica 5 febbraio 2012 da Fiorella Paola Piero Urbano
Colonizzazione e
occupazione
Sin dagli inizi della
colonizzazione sionista in Palestina nel 1880, lo scopo principale fu
l’appropriazione ed espropriazione della terra, con l’obiettivo dichiarato di
creare uno stato ebraico. La Palestina veniva dipinta come una “terra senza
popolo” e gli ebrei di tutto il mondo furono incoraggiati a stabilirvisi come
dei veri pionieri. Il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), istituito all’epoca del
Quinto Congresso Sionista a Basilea nel 1901, fu il principale ente
responsabile dell’acquisizione della terra, che sarebbe divenuta “proprietà
inalienabile del popolo ebraico”. Le terre acquistate dai grandi feudatari –
per la maggior parte proprietari terrieri assenteisti che risiedevano nelle
città di Libano, Turchia o Siria – furono sistematicamente liberate dalla
presenza dei contadini palestinesi, che le coltivavano per tradizione. Gli
inglesi non smisero mai di incoraggiare l’immigrazione e la colonizzazione,
attraverso l’invio di truppe per evacuare le terre acquistate dal JNF. Nel 1925
il JNF fu sostituito dal Fondo Nazionale per Israele, tuttora attivo. Quando,
il 29 novembre 1947, le Nazioni Unite votarono il loro piano di spartizione
(risoluzione 181), le terre di proprietà “ebraica” rappresentavano soltanto il
7-8% della superficie complessiva della Palestina. Le Nazioni Unite approvarono
la creazione di uno stato ebraico sul 56% del paese, lasciando il 43% alla
maggioranza palestinese, mentre la regione di Gerusalemme (inclusa Betlemme)
doveva diventare zona internazionale.
· Confisca della
terra nei territori del ‘48
La popolazione palestinese dei territori
del 1948 (l’attuale stato di Israele), scampata ai trasferimenti, ha assistito
ininterrottamente per oltre 50 anni alla sistematica confisca delle terre.
Sebbene i palestinesi israeliani rappresentino il 20% dell’attuale popolazione
dello stato di Israele, essi detengono
non più del 3% dalla terra, mentre il 93% della superficie del paese è
stato dichiarato “suolo demaniale”. Con la legge sulla Proprietà degli Assenti
(1950), Israele ha dato una cornice “legale” alla confisca delle terre e delle
proprietà dei rifugiati, che non hanno più potuto rientrarne in possesso.
Analogamente, sono state introdotte nuove misure “di legge” sia militari che
civili; tra queste il decreto sulla “sistemazione dei territori” si è rivelato
uno degli strumenti più efficaci. Grazie ad esso, interi territori in
precedenza sotto l’amministrazione comunale araba sono stati integrati nei
nuovi confini delle municipalità ebraiche, che ne limitano l’edificabilità
(attraverso il controllo dei permessi edilizi nell’ambito della pianificazione
urbana) o li riservano a progetti di “interesse generale”. Inoltre enormi aree
sono state dichiarate “zone militari”. Uno dei metodi di confisca più insidiosi
consiste semplicemente nel non riconoscimento di decine di villaggi arabi che
vengono privati della proprietà e dei sevizi fondamentali (acqua, elettricità,
servizi sanitari ecc). La costante crescita delle colonie nei territori del ’48
provocò forti proteste, culminate nel 1976 nella “giornata della terra” e riaccesesi dopo gli accordi di Oslo. A
Nazareth, Umm al- Fahm e Tarshiha ( al confine libanese) centinaia di ettari di
terra sono in costante pericolo. La confisca della terra e i provvedimenti
restrittivi in materia di alloggi, d’altra parte, hanno favorito il conseguente
sviluppo di costruzioni abusive. Tutte queste misure rientrano in un progetto
politico noto come piano “Stella di Davide” il
cui obiettivo è creare una maggioranza
ebraica nelle regioni a prevalenza araba. (Alta e Bassa Galilea, il Triangolo e il
Negev); il piano cerca inoltre di spezzare la contiguità territoriale tra le
zone di popolazione araba. Per
realizzare questo cambio demografico, il progetto della Trans-Israel Highway
attualmente in preparazione favorirà la concentrazione della popolazione
ebraica più a est rafforzando i legami fra le colonie al di là della Linea
Verde, cioè nella Cisgiordania. Il costo sarà pagato dai palestinesi di Israele
che vedranno un terzo delle loro terre confiscato per la realizzazione del
progetto.
· Nei territori
occupati nel ‘67
La colonizzazione israeliana nei
territori palestinesi occupati nel 1967 rispondeva alla strategia militare
nonché agli interessi economici (controllo delle principali strade della Valle
del Giordano e altrove; controllo degli acquedotti e del mercato palestinese e
manodopera a basso costo) e ideologici (la realizzazione della grande Israele)
dello stato. Queste azioni erano una prosecuzione delle politiche attuate nei
territori del ’48. Dal 1967 al 1977 nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza
si insediarono 35.000 coloni ebrei. I piani di colonizzazione e popolamento di
nuove aree subirono una forte accelerazione durante il “processo di pace”.
All’epoca della conferenza di Madrid nel 1991 nella Cisgiordania c’erano 75.000
coloni ebrei; all’epoca della firma degli accordi di Oslo nel 1993, 95.000;
alla fine dei governi di Rabin e Peres nel 1996, 147.000. Per realizzare la
politica di insediamento furono confiscati 29.496 ettari di terra. Nel 2001 in
Cisgiordania vivevano 180.000 coloni, a Gerusalemme Est 190.000, a Gaza 5.000 e
nelle alture del Golan occupate alla Siria 17.000. Nel gennaio 2000 c’erano 209
colonie israeliane (190 nella Cisgiordania e 19 nella Striscia di Gaza). In
seguito alla firma degli accordi di Oslo furono create oltre 74 colonie e altre
27 dopo l’accordo di Wye Plantation nell’ottobre 1998. Sotto il governo Barak
fu approvata la costruzione di 3.499 unità abitative nelle colonie, delle quali
ne furono realizzate 2.270. Alla fine del 2006, nei 199 insediamenti della
Cisgiordsania vivevano 526.894 coloni, il 43% dei quali in insediamenti attorno
a Gerusalemme Est. I sussidi statali per gli acquirenti arrivarono fino a 17.000
$ e per i proprietari terrieri furono approvati sgravi fiscali fino a 10 anni.
Dallo scoppio dell’Intifada di al-Aqsa è stato dato il via alla realizzazione
di circa altre 15 colonie ebraiche. Dall’inizio dell’impresa di colonizzazione
Israele avrebbe speso per gli insediamenti 80 bilioni di dollari,m finanziati
in larga parte dal governo americano.
· Le fasi della
colonizzazione israeliana
Il
Piano Allon ha delineato la politica di costruzione delle colonie dal 1967 al
1977, mirando sia ad assicurare il controllo del maggior numero di territori
possibile nella Cisgiordania attraverso la conquista di zone strategiche (la
Valle del Giordano e le fonti montane) sia a limitare la crescita demografica
di Gerusalemme Est. Dal 1978 il piano di colonizzazione cominciò ad abbattere la
Linea Verde (la linea di armistizio del 1949) puntando al cuore della
Cisgiordania; l’obiettivo era realizzare una contiguità territoriale in vista
di una futura annessione della Cisgiordania e persino di Gaza. Il Piano “sette
stelle” del 1991 lo confermò. La costruzione di sette colonie sulla Linea Verde
(Modi’in Illit, Ofarim, Elkana, Sal’it, Rehan…) doveva effettivamente
cancellare ogni concetto di confine tra Israele e la Cisgiordania. Oggi, nei
pressi della Linea Verde si sono sviluppate 21 colonie abitate da oltre 72.000
coloni. Il Piano comprende anche Gerusalemme. Durante gli accordi di Oslo,
Israele intensificò il processo di colonizzazione attorno alle zone palestinesi
autonome a ritmi senza precedenti. Isolata da Gerusalemme e dalla Striscia di
Gaza, la Cisgiordania è tagliata da blocchi di colonie e da una rete di arterie
principali sotto il controllo israeliano e accessibile ai soli israeliani. La
crescita geografica e demografica di ogni località, città o villaggio palestinese,
autonomo, semiautonomo o non autonomo viene pertanto soffocata.
· Sviluppi recenti
Nel
2002, mentre l’esercito israeliano tornava a invadere le principali città della
Cisgiordania, il governo israeliano dava inizio alla realizzazione di un nuovo
e potenzialmente più minaccioso progetto: la costruzione del Muro di
Separazione. Una volta completato, il Muro taglierà la maggior parte della
Cisgiordania, annettendo di fatto altri territori palestinesi e allo stesso
tempo isolando Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania e riducendo
ulteriormente la libertà di movimento dei palestinesi nei territori occupati.
Nell’agosto 2005, il primo ministro israeliano Ariel Sharon ordinò un
disimpegno parziale dalla Striscia di Gaza. Sebbene al resto del mondo fosse
stato presentato come tale, ad oggi il disimpegno israeliano non è completo:
Israele mantiene il controllo dello spazio aereo, delle acque territoriali e di
tutti i confini, ridotti a tre, tranne di quello egiziano a Rafah, dove fu
creata una missione dell’Unione Europea di Assistenza alle Frontiere (EUBAM).
In realtà, anche Rafah resta sotto il controllo israeliano, visto che per
raggiungere il loro posto di lavoro gli osservatori dell’EUBAM hanno bisogno
del consenso di Israele, mentre videocamere istallate al confine consentono a
Israele di monitorare a distanza ogni movimento. In ogni caso, dall’estate
2006, la frontiera di Rafah restò aperta soltanto il 19% del tempo, giacchè in
seguito alla cattura di uno dei suoi soldati l’esercito israeliano condusse una
operazione su larga scala. Dal giugno 2007 la frontiera venne definitivamente
chiusa, portando alla drammatica, sebbene temporanea, rottura del confine con
l’Egitto agli inizi del 2008. Le elezioni parlamentari e presidenziali del gennaio
2006 videro la vittoria di Hamas. Era la prima volta che Hamas si candidava e,
sebbene ci si aspettasse che il partito conquistasse un considerevole numero di
seggi, la sua schiacciante vittoria (74 seggi su 132) colse tutti di sorpresa.
Falliti i tentativi di formare un governo di coalizione con Fatah, il 29 marzo
2006 Hamas presentò il suo governo sotto la guida del primo ministro Ismail Haniyeh. Il nuovo
governo fu subito boicottato sia da Israele che dagli Stati Uniti e dall’
Europa, che consideravano Hamas un’organizzazione terroristica. Europa e Stati
Uniti congelarono ogni aiuto finanziario al governo e Israele trattenne le
tasse dovute all’Autorità Palestinese. In seguito alla cattura di tre soldati
israeliani, uno nella Striscia di Gaza e due al confine con il Libano,
nell’estate 2006 il primo ministro israeliano Ehud Olmart autorizzò due
devastanti operazioni militari su larga scala: l’invasione di Gaza e una nuova
guerra nel Libano. Sebbene il conflitto dovesse essere diretto solo contro Hezbollah,
esso causò gravi perdite tra i civili e danni alle infrastrutture fino a
Beirut. La guerra durò 34 giorni, causando la morte di oltre 1000 civili
libanesi e quasi 1 milione di profughi. Nella Striscia di Gaza il bilancio di
vittime fra i civili fu di oltre 200, mentre la distruzione della centrale
elettrica provocò una grave carenza di elettricità e di acqua. L’8 febbraio
2007 Hamas a Fatah acconsentirono a formare un governo di unità nazionale,
sulla base dell’accordo della Mecca con l’intermediazione dell’Arabia Saudita.
Tuttavia le tensioni fra le due fazioni non cessarono, culminando in un
confronto armato nel giugno 2007. Il conflitto terminò a metà giugno, con Hamas
che imponeva il controllo sulla Striscia di Gaza. In risposta, Israele
rafforzava ulteriormente la sua presa di ferro sul piccolo pezzo di terra,
imprigionando virtualmente 1,5 milioni di palestinesi ed esacerbando una
situazione umanitaria già gravissima, acuitasi nel 2008 quando, con deliberati
atti di punizione collettiva, Israele cominciò ad imporre tagli sempre più
frequenti alla fornitura di energia elettrica e di benzina. Poco dopo la presa
di controllo di Hamas sulla Striscia di Gaza, il presidente palestinese Mahmoud
Abbas dichiarò la formazione di un nuovo governo nella Cisgiordania.
Nell’autunno 2007 Abbas incontrò dei rappresentanti israeliani ad Annapolis
negli Stati Uniti per discutere un potenziale ‘accordo di pace’. La conferenza
di Annapolis, sotto l’egida del governo statunitense, mirava a raggiungere un
accordo prima della fine del mandato del presidente George Bush. Ma con la
costruzione della colonie che continuava spedita a Gerusalemme Est e nella
Cisgiordania e del Muro di separazione, questa ambizione sembrò drammaticamente
lontana dal potersi realizzare. A ciò va aggiunto che nel dicembre 2008, poco
prima dell’insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente Obama ed alla
vigilia delle elezioni in Israele, l’esercito israeliano attaccò brutalmente la
Striscia di Gaza.
L’operazione “Piombo Fuso” ha portato la popolazione di Gaza allo stremo delle
forze, rendendo sempre più drammatica la crisi umanitaria. Per 23 giorni, Gaza
è stata attaccata senza pause da terra, cielo e mare con migliaia di tonnellate
di munizioni, tra cui proiettili da 155 mm al fosforo bianco, uranio impoverito
e DIME (un particolare tipo di esplosivo). Le principali organizzazioni sui
diritti umani hanno dichiarato che l’uso israeliano di artiglieria pesante
nelle zone residenziali di Gaza viola le norme internazionali e può essere
considerato un attacco indiscriminato sui civili. Secondo Goldstone, ispettore
delle Nazioni Unite, Israele ha compiuto “
crimini di guerra e forse anche crimini contro l’umanità” . L’esercito
israeliano ha ucciso circa 1350 palestinesi, un terzo dei quali minori, secondo
quanto riporta il Ministero Palestinese della Salute. Più di 5000 persone sono
state ferite o menomate. Tra gli israeliani sono morte 13 persone, di cui 10
soldati. Ci sono state esecuzioni sommarie di civili, sono state bombardate
ambulanze, ospedali, scuole e strutture delle Nazioni Unite dove i civili
avevano trovato riparo. Sono state distrutte infrastrutture civili come case
private, stazioni di polizia, edifici governativi, il parlamento, fattorie ,
fabbriche, luoghi di culto. Anche il porto e le barche da pesca sono state
colpite. Gli stessi leader israeliani hanno dichiarato che l’invasione era
stata pianificata da oltre 8 mesi e l’ordinanza deliberata nel giugno 2008. Il
Congresso degli Stati Uniti d’America aveva approvato nel settembre 2008 la
spedizione di circa 1000 bombe anti bunker ad alta precisione in Israele,
queste armi sono state usate dall’esercito israeliano per bombardare Gaza.
Chiusa da tutti i lati, anche verso il mare, la popolazione di Gaza non aveva
nessuna via di scampo (come non l’ha tuttora), era in trappola, traumatizzata e
terrorizzata, senza acqua corrente e elettricità per tutta la durata
dell’attacco. La situazione umanitaria, già critica dopo 3 anni di embargo, è
ulteriormente peggiorata e centinaia di migliaia di abitanti sono stati
sfollati, divenendo paradossalmente profughi due volte. Più di 40.000 persone
sono tuttora senza casa e non è quantificabile il numero di persone, con una
percentuale elevatissima di bambini, che hanno subito gravi traumi
psicologici dopo l’attacco.
Al
suo ritorno da una visita alla Striscia di Gaza, il Sottosegretario generale
per gli affari umanitari dell’ONU, John Holmes, ha dichiarato: “La distruzione che ho visto è devastante,
sia in termini umani che materiali. L’entità delle perdite umane e dei feriti
nella popolazione civile è destinato ad avere un impatto duraturo sul benessere
mentale e fisico dei palestinesi di Gaza”. Ma, malgrado queste
affermazioni, e l’affermazione di Goldstone, a due anni dall’attacco a Gaza le condizioni di
vita sono ancora disumane. L’embargo continua e non permette che la popolazione
possa usufruire dei beni di prima necessità. Viene da chiedersi cosa deve
ancora accadere perché il mondo “civile e democratico” faccia qualcosa per
impedire tutto ciò.
La nakva (catastrofe) 1948
Il 1948 fu per i palestinesi l’anno della catastrofe, l’anno della
distruzione del paese e dell’esilio. Gli stati della coalizione araba si
astennero da qualsiasi coinvolgimento militare fino al giorno successivo alla
dichiarazione dello stato di Israele. Solo allora intervennero e soltanto nelle
regioni non ancora sotto il controllo sionista: fu l’inizio della prima guerra
arabo-israeliana (maggio 1948 – gennaio 1949). Tuttavia, il conflitto rimase
fondamentalmente impari in termini di uomini mobilitati (meno di 14.000 dalla
parte araba), equipaggiamenti e strategia. Col proposito di spianare la strada
al progetto sionista, la banda Stern, guidata da Yitzhak Shamir (leader del
partito del Likud negli anni ’80 e più volte primo ministro tra il 1983 e il
1992), con l’obiettivo di superare ogni ostacolo sul cammino del progetto
sionista rivendicò l’assassinio del mediatore delle Nazioni Unite in Palestina,
il conte Bernadotte, ucciso io 17 settembre 1948 per aver espresso forti
obiezioni alla politica di etnocidio sionista. All’epoca degli accordi per
l’armistizio con l’Egitto nel febbraio 1949, Israele controllava il 78% della
Palestina storica, la restante parte fu annessa da re Abdullah alla
Transgiordania e nota come la Cisgiordania, mentre la striscia di terra a sud
di Gaza (la striscia di Gaza) fu posta sotto il controllo militare egiziano.
Nel corso degli anni ’50 le
espulsioni e i massacri continuarono: nel febbraio 1951 furono espulsi gli
abitanti di 13 piccoli villaggi a Wadi Ara (a sud della Galilea) e nell’aprile
dello stesso anno quelli della cittadina di al-Majdal. Nell’ottobre del 1953,
53 palestinesi furono uccisi nei bombardamenti del villaggio di Qibya, nel
distretto di Qalqilya. Nel 1956 i palestinesi sostennero ardentemente il
presidente egiziano Nasser e la nazionalizzazione del Canale di Suez.
L’aggressione tripartita (anglo-franco-israeliana) contro l’Egitto consentì a
Israele di occupare la striscia di Gaza e parte del Sini. Il 3 novembre 1956 le
forze israeliane massacrarono più di 273 civili palestinesi nel campo profughi
di Khan Younis e il 12 novembre dello stesso anno oltre 100 civili palestinesi
furono massacrati nel campo profughi di Rafah. All’epoca era in atto una
sanguinosa repressione contro i palestinesi del ’48 che avevano abbracciato la
causa nazionalista araba (il massacro di 49 palestinesi nel villaggio di Kufr
Qassem, vicino a Tel Aviv, nell’ottobre 1956). A partire dal 1949 piccole
frange della resistenza condussero operazioni militari contro Israele, il cui
esercito intensificò gli attacchi ai villaggi di confine e a Gaza. Nel 1959 un
gruppo di combattenti progettò di riunire tutti i militanti in un’unica
organizzazione che si sarebbe fatta portatrice della lotta per la libertà; essi
speravano di spingere gli stati arabi all’azione e di incoraggiare una lotta
armata sul modello delle guerre di liberazione algerina e vietnamita. Questi
uomini che portavano i nomi di Yasser Arafat, Khalil al- Wazir, Salah Khalaf e
Yusef en-Najjar, fondarono il movimento clandestino Fatah. La sua ala militare,
al-Assifa (la tempesta), condusse la sua prima operazione il 1 gennaio 1965. In
quegli stessi anni anche il Movimento Nazionalista Arabo (ANM) intraprese la strada
della lotta armata. Le organizzazioni militari si dettero nomi come “gli eroi
del ritorno” o “organizzazione per la vendetta”. Dopo la sconfitta araba del
1967 la sezione palestinese dell’ANM inaugurò il Fronte Popolare per al
Liberazione della Palestina (FPLP).
- La Naksa (tragedia) – 1967
Nel giugno 1967 Israele sferrò un attacco
a sorpresa contro Egitto, Giordania e Siria e occupò la Cisgiordania, Gaza, il
Sinai e le alture del Golan, dando inizio a un nuovo conflitto. Più di 300.000
palestinesi, un terzo dei quali già rifugiati nel ’48, furono esiliati. Su Gaza
e la Cisgiordania si abbattè una brutale repressione. In risposta a questa
nuova occupazione, il 29 novembre 1967 l’ONU approvò la risoluzione 242, un
documento vago che non stabiliva né da quali territori Israele si dovesse
ritirare né fissava una scadenza per il ritiro e che implicitamente riconosceva
come confini le linee di armistizio della guerra del ’48 (in contraddizione
totale con la risoluzione 181). I gruppi di resistenza palestinesi diedero
avvio alla guerra di liberazione, rifiutando in massa la risoluzione 242 che”. ignora i diritti nazionali del popolo
palestinese. Non accenna all’esistenza di questo popolo” (comitato centrale
di Fatah). A costo di gravi perdite, il 21 marzo 1968 il movimento di
resistenza palestinese respinse un attacco israeliano al campo profughi di
Karameh, nella parte orientale della Valle del Giordano. Questa vittoria
produsse un forte effetto psicologico: il mito dell’imbattibilità israeliana
era crollato. I gruppi di resistenza
condivisero la linea adottata dall’OLP (creata nel 1964 su in iniziativa di
Nasser) e nel 1969 elessero Yasser Arafat presidente. Movimenti di resistenza
si svilupparono in Giordania, Siria e Libano mentre la comunità internazionale
continuava ad ignorare le sorti del popolo palestinese. Così le organizzazioni
palestinesi portarono la lotta sulla scena internazionale con tre obiettivi:
ricordare al mondo l’esistenza del popolo palestinese attraverso azioni
spettacolari (dirottamento di aerei e cattura di ostaggi), radunare forze
progressiste e minacciare gli interessi di Israele. La repressione di questi
movimenti giunse all’apice in Giordania nel 1970. Re Hussein di Giordania
utilizzò il piano di “pace” americano, che imponeva il cessate il fuoco, per
uccidere migliaia di palestinesi. Poi nel 1971 attaccò le ultime roccaforti
della guerriglia palestinese sulle montagne di Ajloun. Sconfitto, il movimento
di resistenza si trasferì in Libano, ultimo fronte rimasto al di fuori della Palestina.
· La guerra
civile libanese e l’invasione israeliana
“Crocifissero una donna viva. Vidi il
suo corpo,
le braccia tese, coperte di mosche,
specie alle estremità delle mani,
sui dieci buchi di sangue scuro
coagulato :
le avevano tagliato le falangi, i
polpastrelli.
E’ da questo che deriva il loro nome, mi
chiesi?”
- Jean Genet,
Prigioniero d’amore
Nel 1975 scoppiò la guerra civile
libanese, provocata in larga parte da Israele e Stati Uniti. Nel 1976 i campi
profughi palestinesi nei dintorni di Beirut furono assediati e sistematicamente
bombardati; molti furono interamente distrutti dai falangisti e dalle forze
israeliane comandate dal ministro della Difesa Shimon Peres. Il 15 marzo 1978
gli israeliani invasero il sud del paese, nella speranza di infliggere il colpo
di grazia alla resistenza palestinese in Libano. Nello stesso tempo, ignorando
le rivendicazioni del fronte arabo unito, nel settembre 1978 il presidente egiziano Sadat firmava con
Israele e Stati Uniti gli accordi di Camp David, che autorizzavano Israele a
concentrare tutte le sue forze militari al confine settentrionale. Così, nel
giugno 1982, Israele invadeva il Libano, ancora una volta con l’obiettivo di ”epurare”
Beirut dall’OLP e dal movimento nazionale
libanese, collocando nel contempo un alleato a capo dello stato. L’assedio che
seguì fu tremendo: vennero sganciate bombe a frammentazione su campagne e città
e in alcuni campi profughi venne interamente distrutto oltre il 70% delle case.
Secondo le stime, la guerra costò la vita a circa 40.000 persone fra libanesi e
palestinesi.
Nell’agosto 1982 le grandi
potenze evacuarono dal Libano un gruppo di combattenti dell’OLP, i cui leader
ripararono in Tunisia, dove stabilirono il loro quartier generale. Il 15
settembre, dopo l’abbandono di Beirut da parte delle Nazioni Unite, l’esercito
israeliano entrava a Beirut per “ristabilire la pace”. Tra il 16 e il 18
settembre l’orrore giunse la culmine nei campi di Sabra e Shatila, dove oltre
3.000 rifugiati palestinesi disarmati furono massacrati dalle milizie libanesi
sotto la direzione e supervisione dell’esercito israeliano, che controllava
tutte le uscite.
I campi del Libano meridionale
rimasero sotto il controllo delle milizie israeliane e libanesi fino al 1985,
quando l’esercito si ritirò più a sud. Contemporaneamente si inaspriva il
conflitto fra le diverse fazioni arabe, che culminò nel 1987, quando diversi
campi profughi furono distrutti.
· Intifada Di fronte all’occupazione e alle sue
implicazioni (repressione, deportazioni, confisca delle terre, insediamenti,
umiliazioni ecc) i palestinesi dei territori occupati ricominciarono la lotta.
Il 9 dicembre 1987 scoppiò la prima ” Intifada” (rivolta), alla quale aderì
l’intera comunità palestinese rispondendo agli ordini del Comando Unificato
dell’Intifada o agli appelli del Movimento di Resistenza Islamico, Hamas,
fondato il 14 dicembre 1988. La lotta contro l’occupazione israeliana prevedeva
una politica di scontro diretto con soldati e coloni israeliani, azioni di
disobbedienza civile (rifiuto di pagare tasse o multe, scioperi, boicottaggio
dei prodotti israeliani, ecc.) e una riorganizzazione della società attraverso
Comitati Popolari di solidarietà e di mutua assistenza, responsabili
principalmente dell’approvvigionamento di derrate alimentari, istruzione e
sanità.
A questa “sovversione”, il
ministro della Difesa del governo israeliano Rabin (futuro primo ministro),
Shamir e Ariel Sharon del Likud, Shimon Peres del partito Laburista risposero
con una politica detta di “forza, potere e percosse” ovvero la politica
delle “ossa rotte”. Venne dichiarato la stato d’assedio, dando campo libero
alle forze occupanti a Gaza e nella Cisgiordania di imporre la legge militare
con la forza e venne inasprito il coprifuoco. Decine di migliaia di palestinesi
furono picchiati, arrestati e torturati, tra questi anche donne e bambini; la
case dei militanti furono demolite. Circa 1.400 civili palestinesi furono
uccisi e molti mutilati a vita. Molte scuole e università, cliniche ed ospedali
furono chiusi. Nel 1990-91 la repressione israeliana nei territori occupati
venne raddoppiata e fu imposto dappertutto il coprifuoco più lungo dall’inizio
dell’Intifada.
· Negoziati
israelo – palestinesi
Nell’ottobre del 1991 la conferenza di
Madrid confermò il primato dell’Organizzazione per la Liberazione della
Palestina come corpo istituzionale rappresentante del popolo palestinese. Dei
negoziati segreti condotti a Oslo portarono alla firma di un accordo siglato a
Washington il 13 settembre 1993. La Dichiarazione di Principi dell’accordo
all’articolo IV affermava che ”le parti (Israele e Autorità Nazionale
Palestinese) considerano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza un’unica entità
territoriale, da preservare come tale durante tutto il periodo ad interim”. Esso
prevedeva la costituzione di un consiglio palestinese che avrebbe gestito la
transizione verso l’autonomia (per un periodo ad interim di 5 anni), il
trasferimento di poteri in materia di istruzione e sanità, la creazione di una
forza di polizia palestinese e il ritiro dell’esercito israeliano dalla
Cisgiordania e da Gaza; nel terzo anno si sarebbe dato avvio ai negoziati sui
profughi, le colonie, Gerusalemme e i confini. Nel luglio del 1994 Arafat
entrava a Gaza e Gerico, le prime città autonome. Tuttavia dal 1993 l’integrità
territoriale della Cisgiordania e della Striscia di Gaza piuttosto che
rafforzata è stata progressivamente svuotata. Infatti il 28 settembre 1995 gli
accordi di Oslo II divisero la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in tre aree
amministrative ben distinte:
Area A : rappresenta approssimativamente
il 3% della Cisgiordania e il 60% della Striscia di Gaza. Qui l’Autorità
Palestinese( AP) esercita piena sovranità. L’area A comprende un territorio con
8 città (Ramallah, Nablus, Jenin, Tulkarem, Qalqilya, Gerico, Betlemme e parte
di Hebron) e qualche cittadina.
Area B : quest’area, il 27%
della Cisgiordania, include zone rurali (la maggior parte dei villaggi e delle
cittadine); gli affari civili sono gestiti dall’AP, mentre le autorità militari
israeliane esercitano un controllo di sicurezza sul territorio.
Area C : Quest’area
corrisponde al 70% della Cisgiordania e al 40% della Striscia di Gaza. Qui l’AP
non ha nessuna autorità. Questa zona include aree scarsamente popolate (fatta
eccezione per Hebron e per i quartieri nei sobborghi di Gerusalemme), le
periferie di cittadine e villaggi, aree disabitate, zone industriali come le
cave, le aree degli insediamenti israeliani e la rete autostradale.
Questa divisione ha prodotto un
modello “a macchia di leopardo” di circa 227 enclaves palestinesi, che di fatto
separano la Striscia di Gaza dalla Cisgiordania e impediscono la libera
circolazione di merci e persone fra le città dell’Area A autonoma, esposte
dunque in ogni momento a blocchi israeliani. Da quando nel 1980 Israele ha annesso
unilateralmente la città di Gerusalemme, la popolazione palestinese lì
residente è soggetta alla legge civile israeliana, sebbene questa condizione
non le conferisca la cittadinanza o diritti di alcun tipo.
Malgrado il ritiro dell’esercito
israeliano dalle principali città della Cisgiordania e da Gaza, la costruzione
accelerata di nuove colonie sia in Cisgiordania che a Gerusalemme portò allo
sconforto la popolazione palestinese che, dopo il massacro di 29 persone presso
la Tomba dei Patriarchi a Hebron nel 1994, rafforzò la sua opposizione.
Nel 1995, un estremista
israeliano uccise il primo ministro Rabin. Nel 1996 Shimon Peres per guadagnare
consensi elettorali ordinò l’assassinio di Yahya Ayyash, comandante delle
Brigate Ezzedin al-Qassam (l’ala militare di Hamas). Il Movimento di Resistenza
Islamica reagì con una serie di attacchi
descritti come “la risposta a cinquant’anni di terrore e crimini
sionisti perpetrati contro la popolazione civile palestinese”. Shimon Peres,
criticato duramente dai suoi concittadini, inviò truppe nel Libano meridionale,
che bombardarono un campo dell’ONU dove rimasero uccisi più di 100 civili, in
prevalenza donne e bambini che lì avevano trovato rifugio.
· L’Intifada
di al-Aqsa
La provocatoria visita di Ariel Sharon
al Monte del Tempio alla Moschea di al-Aqsa il 27 settembre 2000, scatenò una
nuova rivolta contro l’occupazione israeliana. Il primo ministro Ehud Barak
ordinò immediatamente una dura repressione dei dimostranti, tra i quali c’erano
anche palestinesi cittadini israeliani; decine di palestinesi di ogni età
rimasero uccisi o feriti. Così chiamata in riferimento alla “visita” di Sharon
e al bagno di sangue che ne seguì, l’Intifada di al-Aqsa, ben al di là della
provocazione di Sharon, fu espressione del rifiuto palestinese degli accordi di
Camp David II, che avevano tentato di imporre una soluzione politica ignorando
i diritti fondamentali dei palestinesi e immaginando un futuro “Stato di
Palestina” sotto forma di mero protettorato. Nel corso dei colloqui Barak
impose ’le linee rosse’ già tracciate dai suoi predecessori (Rabin, Peres e
Netanyahu) dalla firma degli accordi di Oslo: non sarebbe stata applicata
nessuna risoluzione ONU, né il diritto di ritorno dei rifugiati alle loro città
o villaggi di origine (Risoluzione 194) né la creazione di uno stato
palestinese sui confini antecedenti al 1967 (Risoluzione 242); lo stato
palestinese indipendente non avrebbe esercitato alcuna sovranità all’interno dei
suoi stessi confini. Lo scoglio principale rimaneva Gerusalemme, che doveva
assumere lo statuto di città aperta, unita, sotto la sovranità israeliana. La
rivolta di al-Aqsa fu anche la risposta a 8 anni di “processo di pace” , che
avevano significato altrettanti anni di colonizzazione, attraverso i quali
Israele aveva affermato de facto la
sua sovranità sui territori palestinesi occupati dal 1967. Negli 8 anni
successivi ad Oslo la politica di Governo di Israele si concentrò non solo
sull’espansione delle colonie a Gerusalemme Est, nella Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza, ma anche sulla frammentazione dei territori palestinesi in
enclave isolate, con conseguenti limitazioni alla libertà di movimento degli
abitanti, sull’isolamento di Gerusalemme, la creazione di un’economia di dipendenza,
umiliazioni quotidiane e altri abusi dei diritti umani fondamentali. Visti gli
sviluppi di Oslo, i membri dell’AP che avevano condotto le trattative furono
aspramente criticati per la loro strategia. I palestinesi guardavano inoltre
con crescente preoccupazione all’ambiguo atteggiamento della comunità
internazionale, specialmente delle Nazioni Unite, che non erano intervenute
sulla base delle loro stesse risoluzioni né prima né dopo gli accordi di Oslo.
Le loro aspettative di giustizia erano state tradite: il ruolo del diritto
internazionale sembrava ridursi all’innocua affermazione di “sostenere il
processo di Pace in Medio Oriente”
All’età di 16 anni, varcando
le porte d’acciaio delle prigioni militari israeliane, non avrei mai potuto
ritornare alla mia vita precedente. L’avamposto di Levinger, la violenza dei
suoi coloni, avevano cambiato in modo permanente la mia vita.
La prima volta che venni attaccato da un colono
israeliano avevo 14 anni. Stavo andando a scuola quando un uomo armato, con
addosso un copricapo e che se ne stava a fianco di alcuni soldati israeliani,
mi strappò lo zaino dalla schiena e lo gettò nel fango.
Ciò non avvenne lo scorso mese, né capitò vicino a un
nuovo avamposto a Nablus. Questo successe 30 anni fa, sulla strada principale
verso Betlemme, vicino al campo profughi di Deheisheh, dove abitavo.
Questo colono non era semplicemente una persona disadattata e delusa. Era,
appresi più tardi, il padre del progetto religioso d’insediamento – il rabbino
Moshe Levinger.
In quei giorni, i coloni e i bus della Egged nelle loro vie da e per i
nascenti insediamenti nell’area, passavano direttamente attraverso il campo. I
loro veicoli erano spesso gli obiettivi del lancio di molte pietre: chi tra noi
voleva che israeliani armati utilizzassero le nostre strade?
Levinger voleva dimostrare a noi chi era il capo. In un primo momento
fermava la sua auto, ci inseguiva e tentava di attaccarci. Urlava ai soldati
che presidiavano la strada di arrestare e colpire i bambini. I soldati allora
sparavano gas lacrimogeni e giocavano con noi al gatto e al topo nei vicoli del
campo.
Incoraggiato dal supporto dell’esercito, Levinger e i suoi seguaci
‘pionieri’ entravano nel campo e aprivano il fuoco a caso. Ne conseguivano
scontri. I soldati allora accorrevano e arrestavano, mentre Levinger e i suoi
amici ritornavano alle loro auto per guidare fino a casa, nei loro
insediamenti.
La violenza divenne un fatto quotidiano. Questo
rappresenta cosa era la vita per me e i miei amici durante quegli anni.
Per Levinger e il suo movimento nazionalista, tutto ciò costituiva un
ostacolo ai loro spostamenti da e per Gerusalemme. Per placare questi campioni
di Sion, le forze di difesa israeliane alla fine eressero attorno a Deheisheh
una recinzione alta 9 metri e sormontata da filo spinato.
Le migliaia di residenti del campo ora avevano una singola via di accesso e
di uscita, presidiata da soldati, così che sembrava di vivere in una prigione.
Un coprifuoco dopo le sette di sera venne imposto per anni.
I coloni avevano vinto: si erano impossessati
dell’unica via di accesso a Deheisheh e della parte sud del West Bank, e
avevano messo noi arabi in gabbia. Prendendo atto della sua invincibilità, il padre del movimento dei coloni –
non una frangia radicale della estrema destra, ma lo stesso Levinger – creò
allora un ‘avamposto’, un nuovo insediamento, lungo la strada di fronte il
campo. Lo fece con un casa mobile, dove issò una bandiera israeliana,
dichiarando questo come il primo insediamento vicino alla tomba di Rachele.
Protetto dai soldati delle forze di difesa israeliana, invitava i suoi
amici pionieri e dava feste fino a tarda notte, mentre noi rimanevamo sotto il
coprifuoco. Come nel caso di Hebron oggigiorno, i soldati mettevano Deheisheh
sotto coprifuoco diurno quando l’insediamento veniva visitato da delegazioni di
coloni affini alle loro idee. Ogni giorno portava un nuovo incubo – scontri,
coprifuochi, gas lacrimogeni, chiusura delle scuole. Le nostre case venivano colpite
di notte e vedevamo i nostri amici, le nostre madri e le nostre sorelle
attaccate.
Con il supporto dell’esercito israeliano, quest’uomo, l’amato rabbino del
movimento religioso dei coloni, stava distruggendo le nostre vite. Non vedevamo
nessun segnale di fine a tutto ciò, soltanto più israeliani in procinto di
spostarsi nei nostri quartieri e rendere le nostre vite un inferno.
E così un gruppo di noi ragazzi – in sei, tra i 13 e i 16 anni – si
organizzò e combatté nell’unico modo in cui sapeva farlo: con pietre e con
poche improvvisate bottiglie riempite di cherosene e uno stoppino fissato
all’interno. Le lanciavamo verso l’avamposto e ai soldati che stavano
permettendo di distruggerci la nostra infanzia.
Nessuno fu ferito. E a metà di una fredda notte d’inverno, soltanto pochi
giorni dopo che c’eravamo organizzati, un poliziotto in borghese dei servizi
segreti israeliani, scortato da un grande contingente dell’esercito, rastrellò
le nostre case, ci prese tutti quanti per sottoporci a interrogatori e torture
e arrestarci.
Lea Tsemel, il nostro avvocato israeliano, dichiarò di fronte al giudice
militare che “erano solo ragazzi”. Il giudice rispose con una sentenza che ci
condannava tutti e sei dai quattro ai sei anni di prigione per attività
terroristiche.
Mia madre svenne in tribunale: il suo figlio
primogenito, per il quale lei aveva aspettato per anni, le veniva portato via
per sempre. Sì, per sempre, perché a 16 anni, varcando le porte di acciaio
delle prigioni israeliane, non sarei mai più potuto ritornare alla mia vita
precedente.
L’avamposto di Levinger, la sua violenza da colono, cambiarono in modo
permanente la mia vita. I miei amici ed io eravamo adesso ”terroristi” e per i
successivi 20 anni, saremmo stati presi dalle porte girevoli degli interrogatori
israeliani e delle detenzioni amministrative.
Alla fine, l’avamposto di Levinger è stato smantellato dall’esercito, che
aveva deciso che era troppo difficile da proteggere a causa dei lanci di pietre
dei bambini di Deheisheh.
Adesso ho 44 anni – come gli anni dell’occupazione
israeliana – sono sposato e ho 4 figli. Sto finendo il mio tirocinio così che
potrò diventare avvocato. Ed ancora le azioni dei pionieri di Levinger – non di
una frangia particolare, ma atti del movimento tradizionale dei coloni – mi
spaventano.
Ovunque io possa muovermi, ci sono delle restrizioni e il mio nome è ancora
“nel computer”. Sono una minaccia alla sicurezza se voglio assistere alla
nascita di mio figlio all’ospedale di Gerusalemme, e mi viene rifiutato il
visto per poter andar a far visita alla mia anziana suocera a New York, perché,
secondo le autorità statunitensi, “potenzialmente potrei intraprendere azioni
terroristiche”.
Mi sarei dovuto comportare in modo differente all’epoca? Suppongo che se un
colono israeliano dovesse strapparmi lo zaino dalla schiena e buttarlo per
terra oggi, probabilmente scriverei un reclamo.
La violenza da entrambe le parti è una parte importante del problema, non
la soluzione. Il progetto degli insediamenti, nella sua stessa essenza e non in
una delle sue frange, era e rimane marcio e intrinsecamente violento.
Noi palestinesi abbiamo lottato a lungo per
interrompere questo progetto, che viola i più elementari diritti del diritto
internazionale, e per questo siamo stati etichettati come terroristi.
Oggi la società israeliana potrebbe pagare il prezzo a livello esistenziale
del progetto degli insediamenti, ma noi palestinesi lo abbiamo pagato con i
nostri corpi, le nostre vite e il nostro futuro.
*Abdelrahman Al Ahmar proviene dal campo
profughi di Deheisheh. Oggi è il vice sindaco eletto del comune di Doha, vicino
a Betlemme e Deheisheh.
Traduzione a cura di Domenico Tucci – AssoPace-Palestina http://www.osservatorioiraq.it/palestina-ecco-come-sono-diventato-un-terrorista Tratto da: Palestina: ecco come sono diventato un “terrorista” | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/01/10/palestina-ecco-come-sono-diventato-un-terrorista/#ixzz1kZt25pG9 - Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
Traduzione a cura di Domenico Tucci – AssoPace-Palestina http://www.osservatorioiraq.it/palestina-ecco-come-sono-diventato-un-terrorista Tratto da: Palestina: ecco come sono diventato un “terrorista” | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/01/10/palestina-ecco-come-sono-diventato-un-terrorista/#ixzz1kZt25pG9 - Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
Traduzione a cura di Domenico Tucci – AssoPace-Palestina
*Pubblicato su Haaretz il 23 dicembre 2011.
*Pubblicato su Haaretz il 23 dicembre 2011.
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