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giovedì 22 marzo 2012
Solidarietà sociale
Assemblea di domenica 25 marzo ore 10,30
Nella accezione corrente, SOLIDARIETA’ sta ad indicare un atteggiamento di benevolenza e comprensione, ma soprattutto di sforzo attivo e gratuito, atto a venire incontro alle esigenze e ai disagi di qualcuno che ha bisogno di un aiuto.
Si parla di "solidarietà sociale" in riferimento ad attività svolte dalle istituzioni o dalle organizzazioni di volontariato per sollevare persone costrette ai margini della società a causa di problemi economici o di altro genere.
Nel tempo dell’individualismo, dell’ognuno per sé, del perseguimento dell’interesse personale, ha ancora senso parlare di solidarietà ? E’ una utopia oppure una pratica necessaria al vivere sociale ?
Cercheremo di affrontare questo tema anche con esempi di esperienze concrete, come quella del Fondo di aiuto sociale Essere del quartiere 4, nella assemblea comunitaria di domenica 25 marzo alle ore 10.30 presso la sede della comunità dell'isolotto, in via degli aceri 1.
mercoledì 21 marzo 2012
Koinonia scrive da Pistoia
Pistoia,
20 marzo 2012
Cari amici,
perché questo Forum 300 a
ridosso del 299? Semplicemente per dare notizia di un evento in area fiorentina,
che però può avere risonanza più ampia ed incidenza particolare sul nostro
cammino. Si tratta della presentazione del libro “Il processo dell’Isolotto” a
cui partecipa anche Giancarla Codrignani.
Prima ancora di sapere di
tutto questo, in Koinonia di aprile abbiamo segnalato il libro nell’ambito della
Dichiarazione del P.Balducci sulla vicenda Isolotto, così come vi figura
un articolo di Giancarla che ripropone nell’oggi le problematiche di allora.
Questo per dire che non siamo alla pura rievocazione e ricostruzione di eventi
superati, ma abbiamo a che fare con sangue che scorre ancora nelle nostre
vene!
Il paragrafo qui riportato
del saggio introduttivo di Enzo Mazzi ci fa capire dal vivo come il “processo
conciliare” che viene da lontano è ancora in atto ed è messe che attende operai:
qualcosa che rischia di venire rimosso come pericoloso, per contentarsi di
costruire solo “in positivo” al di fuori di conflitti o di lasciare ad altri la
lotta che essi comportano.
Sembra in effetti che la
nostra chiesa abbia cercato di disinnescare ogni istanza di “rivoluzione
copernicana” per ammantarsi con le varie insegne di novità da essa prodotte:
che si sia appropriata di tutti gli aspetti secondari e discutibili delle
esperienze innovative (soprattutto nelle modalità celebrative), per riproporsi
come blocco di potere di sempre. E’ ciò che genera la strana situazione
attuale, per cui ad un neo-trionfalismo interno fa riscontro una zona grigia di
rottura o di percorso parallelo alternativo: se c’è “disagio senza conflitto”,
infatti, si arriva alla omologazione, o alla estraneità o alla incomunicabilità.
Riscoprire il conflitto come processo dialettico vitale non può fare che bene,
ma deve trovarci pronti a condurlo e sostenerlo.
Rimanendo per ora al testo
riportato di Enzo Mazzi c’è da dire che ci aiuta anche a fare memoria di mons.
Oscar Romero il 24 marzo, giorno ufficialmente promosso a “Giornata di
preghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri” (a proposito di
disinnescamento e di omologazione!). Ma come si può vedere, egli valorizza
insolitamente anche il ruolo della teologia e dei teologi nella conduzione di
questo “processo conciliare” aperto, ciò che forse manca al momento attuale come
riflessione innescata nel sensus fidei della totalità dei fedeli o dei
credenti di ogni tipo. E’ significativo il fatto che il libro che sarà
presentato preveda alcune “Testimonianze di teologi”, che evidenziano una
dimensione della vicenda non secondaria rispetto ai pur rilevanti elementi
istituzionali e giudiziari.
Motivo ed occasione per
continuare a riflettere e comunicare tra di noi e con tutti, per arrivare
insieme ad avere “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16).
Convento S.Domenico - Piazza
S.Domenico, 1 – Pistoia
AD
INFORMAZIONE
E RICORDANDO
ENZO MAZZI
1 - La Comunità dell’Isolotto e Manifestolibri
Invitano alla presentazione del libro
Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione di Mario Capanna
Introduce e coordina
Valerio Gigante redattore agenzia di stampa ADISTA
Valerio Gigante redattore agenzia di stampa ADISTA
INTERVENTI DI
Mario
Capanna politico e scrittore
Giancarla
Codrignani docente di letteratura
classica, politologa, teologa
Beniamino
Deidda Procuratore Generale della
Repubblica di Firenze
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Biblioteca delle Oblate sala grande
Via dell’Oriuolo 26
La
memoria del vivere sociale ha una grande vitalità generativa: produce identità
collettiva, tesse la trama del tessuto relazionale della città, crea di
continuo comunità solidali e ostacola i germi distruttivi della frantumazione
egoistica. E' come la vitalità propria del seme: può restare a lungo
apparentemente inattiva, a causa di contingenze storiche che ne impediscono lo
sviluppo o la visibilità, ma è sempre pronta a esplodere in nuove fioriture, e
inoltre, come avviene nei pollini, è racchiusa in forme piccole e leggerissime
che possono essere trasportate lontano dal vento.
(dal saggio di Enzo Mazzi)
Il libro ricostruisce e ripercorre la vicenda del processo alla
Comunità dell’Isolotto del 1971, nel quale furono coinvolte quasi 1.000
persone, 9 delle quali vennero incriminate
per turbativa di funzione religiosa. Si evidenzia come il processo sia stato un
passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive
e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza.
Info
Comunità dell’Isolotto – via degli aceri, 1 – 50142 Firenze
2 – Da
un testimone del lungo processo conciliare: Enzo Mazzi
La
"rivoluzione copernicana" sociale
nella
Chiesa cattolica
Il processo di umanizzazione sociale si è configurato
nell'ambito ecclesiale come "rivoluzione copernicana della Chiesa".
Così ha significativamente definito il Concilio Vaticano II un grande teologo
conciliare, Dominique Chenu, in quanto pone al centro non più la gerarchia ma
il "Popolo di Dio".
Il Concilio però non è solo il mitico evento che si è aperto
in San Pietro l’11 ottobre 1962. È una grave deformazione storiografica e
culturale oltre che una scelta politica reazionaria rinchiudere il Concilio
nella scatola dell'Assise conciliare. La rivoluzione copernicana del Concilio
era già in atto come processo dal basso prima che i vescovi di tutto il mondo
fossero convocati da papa Giovanni. E dopo che essi furono congedati da Paolo
VI il movimento conciliare continuò, anzi divenne culturalmente egemone nella
chiesa. Chi scrive è fra i tanti testimoni diretti di un tale processo
conciliare iniziato ben prima del pontificato di papa Giovanni e proseguito ad
oggi, con modalità e visibilità diverse, come un fiume che si modella in base
ai territori che incontra.
Nel dopoguerra, mentre dai luoghi del
potere proveniva quella ondata antipopolare di contrapposizione e intolleranza
che trovò nella scomunica dei comunisti uno dei momenti più drammatici, i
luoghi del non-potere divenivano crocicchi di inediti e fecondi incontri,
crogioli di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa. Per capirci
meglio, da tante e complesse esperienze, desumiamo alcuni esempi più facilmente
decifrabili. Nei campi di concentramento tedeschi, preti francesi si trovarono
a condividere una "comunità di destino" con operai comunisti.
Scoprirono nelle reciproche diversità valori sia umani sia evangelici che li
portarono a uscire dalle rispettive gabbie ideologiche e a tentare sentieri
inediti di convergenza. Nacquero così i preti operai, una delle vene del
processo conciliare. Un'altra vena, non meno feconda, si apriva nel mantovano,
dove don Primo Mazzolari, parroco e scrittore, già durante il fascismo e poi
nell'immediato dopoguerra, sperimentava e diffondeva uno spirito di convergenza
con i contadini socialisti e comunisti, con gli anticlericali, con i
protestanti. "Tromba dello Spirito Santo" lo definì papa Giovanni, il quale si ispirò anche a lui nel suo sogno
del Concilio. Infine le esperienze pastorali di parrocchie che si svilupparono
già dieci anni prima del Concilio specialmente nelle periferie popolari delle
città. In Francia furono definite "parrocchie missionarie" e in
Italia furono dispregiativamente chiamate "parrocchie rosse" per il
loro ideale e spirito comunitario evangelico e senza confini. A Firenze tali
esperienze pastorali erano molte: l'Isolotto, Rifredi, la Casella, la Nave a
Rovezzano, il Vingone, Calenzano.
Qui, in questi crogioli periferici di
esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa s'innesta il pontificato di papa
Giovanni che dopo un primo tempo di attesa recepisce e rilancia un tale
articolato movimento di rinnovamento di base.
Ai primi di novembre del 1958, il
cardinale Elia Dalla Costa, in quel tempo arcivescovo di Firenze, di ritorno
dal Conclave, venne a trovarci all'Isolotto, in una delle visite che ci faceva
di frequente in rigoroso incognito. "Abbiamo eletto un papa che vi
piacerà" – ci disse con quel risolino ironico e ammiccante che addolciva i
tratti austeri e taglienti del suo volto scavato. Poiché conosceva i suoi
polli, aggiunse, fra una sorsata di caffè e l'altra: "Abbiate fiducia,
aspettate e vedrete".
Aspettammo,
ma sfiduciati. Già i trionfalismi dell'incoronazione ci avevano mal disposti verso
questo papa. Presentava sì tratti di bonaria umanità, totalmente assenti dalla
figura di Pacelli, ma mostrava, agli occhi di quanti si arrovellavano sulle
frontiere del rinnovamento, una cultura tradizionalista e curiale, inadeguata
se non contraria ai cambiamenti che si rendevano sempre più urgenti.
Vennero, poi, le mazzate. Nel dicembre
1958, un intervento vaticano vieta all'Università cattolica del S. Cuore di
conferire la laurea honoris causa in
scienze politiche a Jacques Maritain. Poco dopo, un ordine del Sant'Uffizio
blocca la diffusione di Esperienze
Pastorali di don Milani, fino a lambire lo stesso cardinale Dalla Costa che
aveva concesso il nulla osta alla pubblicazione. Agli inizi del 1959 viene
esiliato da Firenze padre Ernesto Balducci. Il 4 aprile dello stesso anno il
Sant'Uffizio rinnova, con la dichiarata approvazione del papa, la condanna
contro i comunisti, allargandola perfino ai cattolici che con i loro
comportamenti "favorivano" il comunismo. Ancora nello stesso anno, il
card. Feltin riceve dal card. Pizzardo, segretario del Sant'Uffizio,
l'ingiunzione di chiudere definitivamente l'esperienza dei preti operai,
creando drammatici casi di coscienza e ferite tutt'ora aperte. Infine Teilhard
de Chardin, dopo la morte, viene accusato di eresia e le sue opere sono
proibite. Altro che sogni di apertura!
Il nuovo papa appariva un ostaggio
imbelle della Curia vaticana. Si allontanava sempre più la prospettiva che ci
aveva aperta il card. Dalla Costa.
Il clima che si avvertiva negli
ambienti dove si stava realizzando la gestazione del rinnovamento era di
disorientamento. Ma non di scoraggiamento, perché mille segni ci dicevano che,
nonostante il gelo vaticano duro e distruttivo come le nevicate di marzo, la
primavera era in piena e inarrestabile fermentazione.
Lontani com'eravamo dalle stanze e dalle
trame del potere, a diretto contatto con la gente più umile, immersi in una
quotidianità che impegnava tutte le nostre energie intellettuali e materiali,
ci sfuggiva il fatto che alcuni di questi segni di germinazione si annidavano
nella coscienza e nei gesti minori del nuovo papa. Come l'abbraccio con cui
papa Giovanni accolse l'eretico dissidente don Primo Mazzolari, in una pubblica
udienza il 6 febbraio 1959, nello stesso momento in cui i vescovi italiani,
card. Montini compreso, esigevano una condanna definitiva ed esemplare di
Mazzolari e della sua rivista Adesso.
Dalla Costa non aveva parlato invano quel giorno di novembre del 1958 e
soprattutto egli sapeva quello che faceva quando aveva impegnato tutta la sua
credibilità e la sua autorevolezza di papabile per favorire l'elezione di
Roncalli. I due, Dalla Costa e Roncalli, non potevano scoprire le loro carte
più preziose. Carlo Falconi afferma in una pubblicazione su I papi del ventesimo secolo che
"molto prima di diventare il 262° successore di Pietro, Roncalli era già
in possesso di tutto l'esplosivo ideologico a cui avrebbe avvicinato la miccia
( ... ) soltanto negli ultimi anni della sua vita". Papa Giovanni
attendeva l'ora stabilita dalla Provvidenza, dice Falconi. Ma noi come potevamo
saperlo? Come potevamo pensare che un uomo così esplicitamente inviluppato
nella tela del ragno potesse covare il colpo d'ala capace di liberarlo e di
liberare con lui la Chiesa intera?
La stessa notizia che Giovanni XXIII
aveva espresso l'intenzione d'indire un Concilio ci lasciò sulle prime
indifferenti. Ritenevamo che un Concilio sarebbe stato egemonizzato dalla
solita Curia che l'avrebbe usato come nuova occasione di trionfalismo, per
ribadire i luoghi comuni del centralismo vaticano. Stava a dimostrarlo il fallimento
del Sinodo Romano, il primo dell'epoca post-tridentina, tenutosi nel gennaio
1960, con gran pompa ma senza alcun segno di apertura al nuovo.
Per concludere, si consolidava sempre
più in noi la convinzione che la riforma della Chiesa non poteva in alcun modo
venire dal centro o dall'alto. Diveniva sempre più chiaro che l'attuale
struttura ecclesiastica, teocratica, centralista, autoritaria, imponente,
ricca, alleata con i ricchi e i potenti, era una fortezza-prigione totalmente
impenetrabile, capace di annullare ogni buona volontà riformatrice. Il massimo
che ci si poteva attendere era una "verniciatura dei sepolcri".
Del resto noi stessi, nel nostro
piccolo, lo sperimentavamo. Il Vangelo era vissuto fuori dalle strutture
ecclesiastiche, nei luoghi del non-potere, della insignificanza, della
emarginazione, della povertà. E noi, preti e laici, che tentavamo di aprire le
nostre parrocchie delle squallide periferie o di sperduti paesi o delle
baraccopoli alla creatività dello Spirito, cozzavamo sempre contro muraglie
inamovibili. Non era solo questione di uomini. Anzi, in radice non era affatto
questione di uomini. Erano sbarre fatte di ruoli, leggi, riti, dogmi,
catechismi, concordati, protezioni politiche, patrimoni, consuetudini....
La riforma della Chiesa in senso
evangelico poteva venire e veniva di fatto solo dal basso o se si vuole dalla
periferia. La comprensione del Vangelo, il catechismo, la liturgia, la
spiritualità, i beni materiali, le strutture decisionali, insomma tutta la
struttura di vita dell'essere chiesa veniva progressivamente rovesciata. A
lenti ma decisivi passi era collocata su un nuovo fondamento: la base, i
poveri, gli handicappati, gli abbandonati, gli umili, gli operai e specialmente
il mondo femminile. Le realtà nuove che nascevano si chiamavano non di rado,
con termine equivoco, "comunità", e magari "comunità
parrocchiali". Solo più tardi si affaccerà quel nome che ancora non è
stato assorbito e travisato dalle istituzioni forti: "comunità di base",
cioè realtà che trovano il proprio fondamento nello Spirito che vive nella
base, realtà protese alla sostanziale autonomia dalla struttura della
parrocchia, della diocesi, della Curia vaticana.
Insomma eravamo "periferie"
che si avviavano coscientemente, sempre più coscientemente, a divenire soggetti
storici della ineludibile riforma della Chiesa.
Papa Roncalli che si sentiva
inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino nelle mani
dell'onnipotenza curiale, ebbe la genialità di rompere quell'isolamento
chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti
esemplari di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al
Medio Evo. Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica
possibilità istituzionalmente a lui consentita, intese dare voce e forza a quei
processi di crescita umana e cristiana che dal basso, dalle periferie,
animavano la storia. Li aveva incontrati nella sua esperienza di diplomatico
vaticano in cruciali posti di frontiera: in Bulgaria, a contatto col mondo
dell'ortodossia e del comunismo, in Turchia, la porta dell'Islam, nella
Francia, "paese di missione" animato dal card. Suhard e inoltre nodo
storico della decolonizzazione (Algeria e Vietnam) e infine nell'Italia del
modernismo e dell'opposizione all'assolutismo e all'anticomunismo pacelliano.
Egli aveva preso coscienza di quanto la
Chiesa intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava
forte nelle periferie e nella base. Intendiamoci, non voglio dire che lui fosse
sempre d'accordo con le esperienze innovative che incontrava. Ma avrebbe voluto
paternamente indirizzarle, secondo il suo stile di "buon pastore" che
vuole "evitare di trasformarsi in organizzatore della vita
collettiva", come ebbe a dire esplicitamente nel discorso
dell'incoronazione. Ben presto però si accorse che egli, dal centro, poteva
solo reprimere e soffocare. La riforma della Chiesa non poteva partire da lui.
Non voleva essere un papa-riformatore. E concepì il Concilio proprio per
rompere il centralismo romano, per far tacere i "profeti di sventura"
e quindi liberare le esperienze conciliare delle periferie e dare spazio ai
"segni dei tempi".
È emblematico lo scontro durissimo che
esplose nell'assise dei vescovi riuniti in San Pietro su alcuni aspetti
centrali della riforma conciliare.
Papa Giovanni a un certo punto s'impose
sostenendo le istanze rinnovatrici di vescovi come i cardinali Giacomo Lercaro
di Bologna, Frings di Colonia, Liènart di Lilla, Alfrink di Utrecht e
sconfessando praticamente lo schieramento dei potentissimi vescovi
conservatori. Questi erano organizzati dall'arcivescovo Lefebvre in una vera e
propria «compagine tradizionalista» all'interno del Concilio, che si dette
anche un nome: «Coetus Internationalis Patrum», con in testa il potente
cardinale Ottaviani, composta da 250 prelati fra cui l'arcivescovo di Firenze
Ermenegildo Florit, il cui obiettivo conclamato era quello di trasformare il
Concilio in un evento di semplice colore senza reali aperture, anzi con la
conferma del centralismo vaticano, delle rigidezze dogmatiche e di tutte le
condanne. Papa Giovanni glielo impedì dando forza ai vescovi che esprimevano lo
spirito di profonda trasformazione che animava le periferie della Chiesa.
Questo era il suo compito: non fare lui
stesso la riforma, ma dare spazio al processo di riforma che germinava nella
realtà ecclesiale e nei processi di crescita umana e cristiana che animavano la
storia. Nell'enciclica Pacem in terris
chiamerà tali processi "segni dei tempi" e darà loro precisi
connotati: "ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici... ingresso
della donna nella vita pubblica ... non più popoli dominatori e popoli
dominati..."; ancora altri "segni dei tempi", secondo la Pacem in Terris, l'aprirsi delle coscienze
al carattere democratico della vita sociale e politica e all'illiceità ormai
della guerra nell'era atomica.
Nei primi anni del suo pontificato
Roncalli si rese dunque conto di essere divenuto ostaggio della curia vaticana.
Dal centro egli poteva solo reprimere non fecondare. E concepì il Concilio per
rompere il centralismo romano e quindi liberare le esperienze conciliari delle
periferie. Non mi stanco di ricordarlo anche per contrastare l'ignoranza di
questi elementi storici da parte di molta storiografia ufficiale.
È stata una scommessa vincente.
"Scommessa", perché a quel tempo non era affatto scontato l'esito del
Concilio, con una Curia vaticana che fece di tutto per ingabbiarlo e ridurlo a
folklore; "vincente” perché il processo conciliare contagiò gran parte dei
padri convocati in S. Pietro e divenne egemone, in senso culturale, a livello
mondiale.
Ma quella "rivoluzione
copernicana" della Chiesa, nata nella base e poi fatta propria dal
Concilio e dilagante, fu osteggiata da grandi centri mondiali di potere reazionario
che vedevano nel rinnovamento conciliare della Chiesa un ostacolo alla loro
strategia reazionaria. In particolare in Italia il movimento conciliare fu
com-battuto da quell'intreccio perverso, composto da politica collusa,
massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia, che temendo
il contagio comunista, tentò di bloccare il processo democratico complessivo
ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore.
La genesi delle comunità cristiane di
base italiane trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la
repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell'intreccio perverso di cui
abbiamo parlato sopra. Le squadre neofasciste al Nord e la mafia al Sud
costituiscono la manovalanza di azioni e provocazioni violente analoghe a
quelle avvenute nella chiesa dell'Isolotto, di cui parleremo più diffusamente
più avanti.
La Chiesa conciliare e specialmente le
comunità di base dovevano sparire, in Italia e nel mondo, perché doveva essere
annullata l'idea stessa di centralità del "Popolo di Dio", distrutto
l'ideale medesimo di "Chiesa povera e dei poveri". È per questo che
mentre in Italia si crea il terrore attraverso la manovalanza violenta
neo-fascista e mafiosa, in America latina le giunte militari massacrano a
decine i pastori e i laici impegnati nel creare comunità di base come mons.
Oscar Romero, i teologi della liberazione come padre Ignazio Ellacuria e i suoi
confratelli dell'Università Centroamericana di San Salvador.
La personalità, il messaggio e
l'uccisione di mons. Romero sono ormai note in tutto il mondo. C'è perfino una
causa di beatificazione che giace in Vaticano in attesa di tempi opportuni.
Tempi che arriveranno, perché il potere ecclesiastico ha fame di santi. La
mitizzazione/santificazione di soggetti umani che emergono per il loro eroismo
crea nella massa sensi di frustrazione morale di fronte a modelli di santità
irraggiungibile, genera in tutti noi sensi di colpa, produce personalità
insicure, dipendenti e quindi inclini alla etero-direzione e alla ubbidienza.
Ecco il motivo profondo della santificazione ufficiale: favorire il dominio.
Noi, le formiche, i comuni mortali, la povera gente del popolo, ci sentiamo
insignificanti, bisognosi della protezione del potere, come bambini indotti
dalla loro insicurezza a gettarsi nelle braccia della mamma. San Romero
d'America servirà a far dimenticare che egli quando era in vita è stato
ostacolato, combattuto e ucciso da quegli poteri che poi hanno favorito la sua
santificazione. È vero che mons. Romero è stato fatto santo dal popolo di El
Salvador e di tutta l'America latina già subito dopo l'uccisione. Anche il
popolo ha bisogno di santi. È un bisogno che ha molte motivazioni e che però
presenta anche rilevanti contraddizioni. Un potente, uno della casta sacrale,
un vescovo che si fa popolo può diventare simbolo della capacità della lotta di
liberazione di essere efficace e di penetrare fin dentro i palazzi per
sgretolare il sistema del dominio oppressivo. Romero santo può significare il
riscatto della santità del popolo. Ma il potere non sta a guardare. E con i
suoi riti potenti, che penetrano fin dentro l'intimo delle coscienze, sradica
il simbolo del riscatto dalla lotta del popolo, lo eleva sugli altari, ne fa
oggetto di culto anziché di ispirazione, lo rende strumento di alienazione.
Meno noti e meno recuperabili per la
santificazione sono le centinaia di preti e teologi della liberazione che
furono uccisi in America Latina come Romero perché erano a fianco del popolo e
ne favorivano la coscientizzazione.
Prendiamo ad esempio i sei teologi
dell'Università Centroamericana di San Salvador che furono massacrati il 16
novembre 1989 insieme a due donne inservienti. Erano sacerdoti di origine
spagnola da molto tempo impegnati in un lavoro di coscientizzazione della
gente. Con loro l'Università cattolica di San Salvador era diventata un centro
di analisi, di ricerca e di orientamento pratico a cui si ispiravano le realtà
sociali e politiche orientate alla giustizia, al dialogo e alla pace e in
particolare le comunità di base di tutto il Centroarnerica. Si deve anche a
loro la conversione del vescovo Romero, il quale com'è noto era stato eletto
arcivescovo di San Salvador per il suo orientamento tradizionalista, vicino
all'Opus Dei, ma poi si era
avvicinato alle istanze di liberazione popolari e alla teologia della
liberazione espressa appunto dai teologi dell'Università Centroamericana. Essi
puntavano però ben oltre l'orizzonte regionale. Il loro impegno era di spingere
tutta la Compagnia di Gesù e tutta la Chiesa cattolica, a livello mondiale, a
fare la scelta dei poveri. Nel luogo dove furono massacrati, ora c'è un
giardino di rose rosse. Ma quella mattina del massacro c'erano solo corpi
straziati, deturpati, sfigurati e tanto sangue. In quello stesso periodo con
l'esplosione di alcune bombe era stata fatta una strage di sindacalisti
salvadoregni. Non è un particolare secondario né un caso.
La teologia della liberazione che essi
elaboravano e diffondevano costituisce la versione centroamericana di una
teologia incarnata nella storia della liberazione dei poveri, degli sfruttati,
degli oppressi. La parola "teologia" può portare fuori strada perché
può indurre a pensare a una teorizzazione accademica e dottrinale. In realtà si
tratta di una riflessione che parte dalla vita, dalla lotta, dalle esperienze
pratiche e a queste sempre riconduce. Si tratta di una teologia che di fondo,
non certo direttamente né in tutti i suoi aspetti, ha ispirato papa Giovanni
XXIII, ha dato anima al Concilio Vaticano II e poi si è diffusa in tutto il
mondo prendendo vari indirizzi e nomi nei diversi contesti culturali. Nelle
Filippine l'hanno chiamata teologia della lotta. In altre parti dell'Asia
teologia contestuale. In Occidente ha più di una caratterizzazione. C'è ad
esempio il grande patrimonio di riflessione teologica legata alla prassi della
riappropriazione dal basso del Vangelo e della Tradizione della Chiesa e più in
genere della cultura e della storia realizzato dalle comunità cristiane di
base. Un altro indirizzo non secondario di teologia della liberazione si può
ritrovare nella teologia femminista.
Non è difficile capire quanto la
coscientizzazione operata dalla diffusione mondiale di questa teologia
incarnata nella storia della liberazione sia stata e sia invisa ai poteri del
dominio mondiale. Se la croce avesse cessato di essere strumento, e quale
potente strumento, di rassegnazione e di sottomissione, la rivoluzione sarebbe
diventata invincibile. Bisognava evitare in ogni modo il cortocircuito, da
tempo annunciato ma dopo la guerra divenuto incombente, fra Vangelo e idealità
e motivazioni laiche della rivoluzione socialista. Il massacro dei teologi
della liberazione della Università centroamericana è solo un episodio di una
repressione generalizzata che in tutto il mondo si è servita di ogni mezzo,
compresa appunto la strage, per chiudere la bocca ai profeti. Il sistema di
dominio mondiale che si era costituito dopo la guerra aveva bisogno per
sopravvivere di reprimere la coscientizzazione e di togliere di mezzo l'idea
contagiosa che il Vangelo possa essere uno strumento nelle mani del popolo per
la liberazione storica e non solo per la salvezza trascendente dell'anima. C'è
stato un momento in cui nei paesi dell'America Latina dominati da feroci
dittature, come ad esempio in Salvador, Guatemala, Uruguay, era passibile di
arresto o di sparizione chi veniva trovato in possesso della Bibbia, specialmente
della "Biblia latino-americana", la cui traduzione era considerata
sovversiva. Tanto che monsignor Oscar Romero poco prima di morire aveva
consigliato ai catechisti e cristiani delle comunità di base di sotterrare la
Bibbia.
Il sangue dei cristiani delle comunità
di base, dei teologi e dei pastori della liberazione è dunque confluito nel
fiume di sangue versato nell'ultimo mezzo secolo per impedire la emersione
delle classi popolari. E il sangue versato è stato solo l'aspetto più eclatante
e ripugnante di una repressione che non ha risparmiato niente e nessuno.
Perfino il cardinale Roncalli, prima di diventare papa, fu inquisito ed
esplicitamente criticato dal Vaticano per sospetto filo comunismo, quando come
patriarca di Venezia mandò gli auguri al Congresso del Partito socialista
italiano. Una volta eletto papa non volle distruggere il suo dossier.
"Certe sofferenze – disse al segretario mons. Loris Capovilla – devono
essere risparmiate ai servitori della Chiesa ed è giusto che vengano ricordate
affinché certi errori non si ripetano".
Enzo Mazzi
In Il processo
dell’Isolotto, pp.50-60
lunedì 19 marzo 2012
Firenze - 22 marzo 2012 ore 17.00: invito
La Comunità dell’Isolotto
e Manifestolibri
Invitano alla presentazione del libro
Il processo dell’Isolotto
Saggio
introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione
di Mario Capanna
Introduce
e coordina
Valerio Gigante redattore agenzia di stampa ADISTA
Valerio Gigante redattore agenzia di stampa ADISTA
INTERVENTI
DI
Mario Capanna
politico e scrittore
Giancarla Codrignani docente
di letteratura classica, politologa, teologa
Beniamino Deidda Procuratore
Generale della Repubblica di Firenze
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Biblioteca delle Oblate
sala grande
Via dell’Oriuolo 26
La memoria del vivere sociale ha una
grande vitalità generativa: produce identità collettiva, tesse la trama del
tessuto relazionale della città, crea di continuo comunità solidali e ostacola
i germi distruttivi della frantumazione egoistica. E' come la vitalità propria
del seme: può restare a lungo apparentemente inattiva, a causa di contingenze
storiche che ne impediscono lo sviluppo o la visibilità, ma è sempre pronta a
esplodere in nuove fioriture, e inoltre, come avviene nei pollini, è racchiusa
in forme piccole e leggerissime che possono essere trasportate lontano dal
vento.
(dal saggio di Enzo Mazzi)
Il libro ricostruisce e ripercorre la vicenda
del processo alla Comunità dell’Isolotto del 1971, nel quale furono coinvolte
quasi 1.000 persone, 9 delle quali vennero incriminate per turbativa di
funzione religiosa. Si evidenzia come il processo sia stato un passaggio
esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e
repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza.
Info
Comunità dell’Isolotto –
via degli aceri, 1 – 50142 Firenze
La Biblioteca delle
Oblate si trova in Via dell’Oriuolo n°
26, nel centro storico di Firenze, a due passi da Piazza del Duomo.
È possibile accedere all’edificio anche da Via Sant’Egidio n° 21.
È possibile accedere all’edificio anche da Via Sant’Egidio n° 21.
Come arrivare in biblioteca:
in
autobus: Linee ATAF 14 e 23 direzione
Stazione S. Maria Novella (fermata in via Bufalini), C1 (fermata via
dell'Oriuolo) C2 (fermata Teatro Verdi) e tutte le linee che fermano in
Piazza Stazione o in Piazza San Marco.
in
treno: la stazione centrale di Santa
Maria Novella dista dalla Biblioteca circa 10 minuti a piedi. Una volta usciti
dalla stazione (lato Piazza dell’Unità), percorrere via Panzani e via
Cerretani. Raggiunta Piazza del Duomo, attraversare la piazza rimanendo sulla
sinistra ed entrare in via dell’Oriuolo. Dopo 100 mt sulla sinistra è visibile
l’ingresso della Biblioteca segnalato anche da uno stendardo.
in
automobile: la biblioteca è situata
all’interno della ZTL (Zona Traffico limitato) del Comune di
Firenze. I parcheggi più vicini dove lasciare la propria vettura sono:
Qui puoi
vedere la mappa:
Noam Gur
La forza della giustizia, della verita` e della respnsabilita`.
Grazie Noam.
Luisa Morgantini
Grazie Noam.
Luisa Morgantini
---------- Messaggio inoltrato ----------
Da: Tatiana Bertolini <taniabertolini@alice.it>
Da: Tatiana Bertolini <taniabertolini@alice.it>
“Non sarò parte di questi crimini”: parla una
refusenik
di Jillian Kestler-D’Amours (The Electronic Intifada) |
Qualche giorno fa, la 18enne israeliana Noam Gur ha
pubblicamente annunciato la sua intenzione di rifiutare l’obbligo al servizio
militare.
Nella lettera aperta, Gur comincia dicendo: “Rifiuto di entrare nell’esercito israeliano perché non intendo far parte di un esercito che, fin dalla sua creazione, è stato impegnato nel dominio di un’altra nazione, nel saccheggio e il terrorismo contro una popolazione civile sotto il suo controllo”. (“I refuse to join an army that has, since it was established, been engaged in dominating another nation: An interview with Israeli refuser Noam Gur,” Mondoweiss, 12 March 2012). La corrispondente di Electronic Intifada, Jillian Kestler-D’Amours, ha parlato con Gur sulle ragioni che l’hanno portata alla decisione di rifiutare il servizio militare, su quali reazioni abbia finora ricevuto e su quello che vuole che altri giovani israeliani sappiano in merito alla realtà dell’esercito israeliano. JKD: Perché hai deciso di rifiutare il tuo servizio militare?NG: Israele, dal giorno della sua creazione, sta commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità, dalla Nabka (il trasferimento forzato di 750mila palestinesi tra il 1947 e il 1948) ad oggi. Lo vediamo nell’ultimo massacro a Gaza, lo vediamo nella vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione nella Striscia e in Cisgiordania, lo vediamo nella vita dei palestinesi in Israele, il modo in cui vengono trattati. Non credo di appartenere a questo posto. Non credo di poter personalmente prendere parte a tali crimini e penso che abbiamo il dovere di criticare l’istituzione militare e i crimini che compie e uscire allo scoperto per dire che non serviremo in un esercito che occupa un altro popolo. JKD: Questo porta ad un’altra domanda: perché hai deciso di rendere pubblico il tuo rifiuto, invece di – come in genere fanno altri israeliani che non svolgono il servizio militare – usare una scusa?NG: Dieci anni fa ci fu un imponente movimento di refusenik e negli ultimi due o tre anni è quasi scomparso. Sono la sola refusenik quest’anno, per me è un modo per far sapere alla gente che ancora esistiamo, prima di tutto. In secondo luogo, non voglio restare in silenzio. Sento che fin dalle scuole superiori, siamo sempre rimasti in silenzio. Lasciamo sempre che le nostre critiche escano fuori in piccoli circoli. Il mondo non lo sa, i palestinesi non lo sanno. Non so se cambierà qualcosa, ma io posso solo provare. Mi sento meglio con me stessa, sapere che ho provato a compiere anche solo il più piccolo cambiamento. JKD: La tua famiglia ha avuto un’influenza nella tua decisione di rifiutare il servizio militare?NG: I miei genitori non sono politicizzati. Entrambi hanno servito nell’esercito. Mio padre ha preso parte alla prima guerra in Libano ed è stato ferito. Mia madre, la stessa cosa. La mia sorella maggiore era nella polizia di frontiera. Il mio destino era terminare gli studi e entrare nell’esercito. Era il mio percorso naturale. Da quando ho 15 anni, ho iniziato ad interessarmi alla Nakba del 1948. Ho cominciato a leggere e a comprendere il quadro completo. Non so esattamente perché, ma è successo. Più tardi, ho letto le testimonianze e le storie di palestinesi della Cisgiordania e di ex soldati, ho conosciuto amici palestinesi e partecipato a manifestazioni di protesta in Cisgiordania, vedendo cosa sta avvenendo con i miei occhi. A 16 anni, ho deciso di non servire nell’esercito. JKD: Quale reazione c’è stata dopo il tuo annuncio pubblico?NG: I miei genitori non mi hanno sostenuto. Credo che mia madre e mio padre sappiano che non hanno possibilità di fermarmi perché è la mia decisione e ho 18 anni. Non sono più in contatto con la maggior parte dei miei compagni di scuola, molti di loro sono nell’esercito. Ho ricevuto tante positive risposte negli ultimi giorni, ma anche commenti poco amichevoli. JKD: Come ti hanno fatto sentire simili commenti?NG: Mi hanno fatto capire che devo andare avanti con quello che sto facendo. Molti commenti mi hanno fatto sentire…anche se erano crudeli, mi hanno fatto capire che sto facendo la cosa giusta perché sto seguendo i miei ideali. È quello che penso sia giusto e non mi importa di quello che la gente dice. JKD: Cosa accadrà quando formalmente rifiuterai il servizio militare?NG: Il 16 aprile devo presentarmi al centro di reclutamento di Ramat Gan. Andrò lì e dichiarerò che rifiuto. Starò lì qualche ora e poi sarò giudicata e condannata alla prigione, da una settimana ad un mese. passerò il mio tempo in un carcere femminile e poi sarò rilasciata. Quando sarò fuori, andrò di nuovo a Ramat Gan e di nuovo sarò condannata, da una settimana ad un mese. Continuerà così fino a quando l’esercito deciderà di smettere. JKD: Cosa deve cambiare dentro la società israeliana perché sempre più giovani decidano di rifiutare il servizio militare?NG: Non sono sicura ch questo possa accadere. Credo che siamo ad un punto di non ritorno. Se davvero vogliamo cambiare qualcosa nella società israeliana, la pressione deve essere davvero forte, da fuori. È per questo che sostengo la campagna Boicottaggio Disinvestimento & Sanzioni. È davvero difficile cambiare qualcosa dall’interno. Quasi impossibile. JKD: Cosa vorresti dire agli altri diciottenni israeliani che stanno per cominciare il servizio militare? NG: Credo sia importante che ognuno guardi a cosa sta facendo. Penso che molti diciottenni, per mia esperienza personale, non sappiano cosa stanno per fare. Non sanno quello che accade a Gaza e in Cisgiordania. Il solo modo in cui vedranno i palestinesi per la prima volta sarà da soldati. Sarebbe intelligente per cominciare, prima di entrare nell’esercito, capire qual è la realtà. Cercare di realizzare, parlare con la gente. Non è così spaventoso. Cercare di leggere quello che la gente dice. Penso sia veramente importante capire quello che sta avvenendo. Jillian Kestler-D’Amours è una reporter e regista di documentari a Gerusalemme. Potete trovare il suo lavoro su http://jkdamours.com |
giovedì 15 marzo 2012
Giulio Girardi
27 febbraio 2012
Messaggio di Gerardo Lutte dal Guatemala, letto al funerale di Giulio Girardi
Ho avuto il privilegio di una storia di amicizia con Giulio, durata 55 anni. Abbiamo vissuto e lavorato insieme dal ’58 al ’69 nell’Universitá Salesiana, dove avevamo molti altri amici, prima di tutti Bruno, con il quale formavamo un trio ben saldato, e anche Ramos Regidor, Manolo Gutierrez e altri che formavano il gruppo dei “manco venti”, che si impegnava per promuovere un rinnovamento evangelico, cioè al servizio dei poveri, della congregazione e della nostra Università. Poi le nostre vie si sono separate, ma sempre siamo rimasti uniti nei momenti duri e gioiosi della nostra vita.
Giulio è senz’altro un uomo che ebbe una grande influenza nella seconda metà del secolo scorso su tante persone del mondo cattolico, non solo in Italia, ma nel mondo intero, perché era un teologo della liberazione, consigliere di vescovi progressisti durante il Concilio Vaticano II. Le sue teorie hanno facilitato la nascita del movimento delle comunità di base e il movimento dei cristiani per il socialismo, prima in America Latina, poi in Europa.
Giulio era anche un grande filosofo, un filosofo della liberazione e il suo insegnamento ha marcato profondamente la formazione intellettuale di migliaia di persone. Era anche molto impegnato con tutti i movimenti di liberazione, particolarmente in America Latina e ha messo a disposizione di questi movimenti la sua riflessione teorica profonda e acuta, scrivendo numerosi libri su questo argomento.
Si è interessato anche di pedagogia, mettendo in risalto l’importanza dell’amicizia liberatrice nel rapporto educativo e analizzando come il dominio imperialista sull’economia è reso possibile dall’imperialismo culturale che pervade l’insegnamento a tutti i livelli e i mezzi di comunicazione di massa.
Giulio si distingueva da un grande rigore scientifico. Si aggiornava di continuo e non avrebbe mai utilizzato lo stesso testo per fare due lezioni o due conferenze sullo stesso tema. Sempre riscriveva da capo tutti i suoi interventi. Aveva trasformato il suo appartamento in biblioteca.
La sua ricerca non era puramente teorica, si faceva a partire dall’osservazione e dalla riflessione sulle esperienze concrete di liberazione. Ha condotto ricerche scientifiche di alto livello con la partecipazione degli attori della liberazione: gli operai della FIAT a Torino, durante gli anni della contestazione; i giovani della comunità di San Benedetto al Porto di Genova, sottolineando che solo un metodo educativo basato sulla partecipazione e sul protagonismo degli stessi giovani, poteva aiutarli a liberarsi veramente. Fece anche una ricerca sull’importanza dell’amicizia liberatrice nell’educazione, analizzando la vita del Vescovo latino americano Proaño, impegnato con le comunità indigene del suo paese nel fare rispettare i loro diritti.
La sua vita era coerente con le sue teorie. Giulio non si è arricchito, non ha vissuto nel lusso e nelle comodità e tutta la sua vita è stato fedele all’annuncio della buona novella di liberazione dei poveri. Andava dovunque fosse chiamato, da una parte all’altra dell’Italia e del mondo, per una conferenza, un seminario, un corso di formazione, una ricerca. Ha accettato di fare, per vari anni, seminari ai miei studenti sulla cultura indigena e i movimenti di liberazione in America Latina. Gli studenti che hanno partecipato mi hanno più volte detto che questi seminari sono stati fondamentali nella loro formazione.
Giulio non poteva non interessarsi e amare le ragazze e i ragazzi di strada. Ha accettato di essere il padrino della figlia di una di queste ragazze, che aveva conosciuto mentre stava in Nicaragua. Ha partecipato a vari incontri della nostra onlus Amistrada, per trattare temi per noi importanti. Si è proposto di venire a spese sue in Guatemala a condurre un seminario con le ragazze e i ragazzi del Comitato di gestione, che dirigono il loro movimento, e con i consiglieri adulti. Ha trattato, sulla base delle esperienze dei partecipanti, il tema dell’amicizia liberatrice. Il suo apporto ci ha profondamente influenzato, al punto che il nostro metodo educativo è basato sull’amicizia liberatrice.
Qualche settimana prima di morire, Giulio, che da giorni non voleva mangiare e non parlava, ha raccolto le sue forze come se avesse presentito la sua fine prossima, e voleva comunicare un’ultima volta con le persone a lui più care. Sono stato avvisato e mi sono messo in contatto telefonico con lui tramite il nostro amico e fratello comune Bruno, che gli ripeteva quanto dicevo, perché non riusciva a decifrare la mia voce al telefono. Mi ha detto quanto era contento di rivedere la ragazza di cui era il padrino, che oggi ha 18 anni e finisce brillantemente gli studi secondari, e doveva venire in Italia nell’ottobre prossimo. E quando gli chiesi cosa dovevo dire alle ragazze e ai ragazzi di strada mi rispose: “Devono credere nella resurrezione!”.
Giulio, amico, fratello, compañero, lungo la tua vita hai aiutato tante persone a risorgere, a riprendere fiducia in se stessi, a diventare responsabili della loro vita e della società. E noi continueremo il tuo sogno utopico che cambia la realtà, la realtà di resurrezione degli ultimi, degli oppressi, dei poveri. Tu ci hai insegnato che sono i poveri i soli capaci di liberarsi e di aiutare noi stessi a liberarci. Grazie Giulio.
mercoledì 14 marzo 2012
Il processo dell'Isolotto
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Biblioteca delle Oblate sala grande
Via dell’Oriuolo 26
Presentazione del libro
Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione di Mario Capanna
La
Comunità dell’Isolotto e Manifestolibri
Invitano
alla presentazione del libro
INTRODUCE
E COORDINA
Valerio Gigante redattore
agenzia di stampa ADISTA
INTERVENTI
DI
Mario Capanna politico e
scrittore
Giancarla Codrignani docente
di letteratura classica, politologa, teologa
Beniamino Deidda Procuratore
Generale della Repubblica di Firenze
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Biblioteca
delle Oblate sala grande
Via
dell’Oriuolo 26
La memoria del vivere sociale ha una grande vitalità
generativa: produce identità collettiva, tesse la trama del
tessuto relazionale della città, crea di continuo comunità
solidali e ostacola i germi distruttivi della frantumazione
egoistica. E' come la vitalità propria del seme: può restare
a lungo apparentemente inattiva, a causa di contingenze
storiche che ne impediscono lo sviluppo o la visibilità,
ma è sempre pronta a esplodere in nuove fioriture, e
inoltre, come avviene nei pollini, è racchiusa in forme
piccole e leggerissime che possono essere trasportate
lontano dal vento.
(dal saggio di Enzo Mazzi)
Il libro ricostruisce e ripercorre la vicenda
del processo alla Comunità dell’Isolotto del 1971, nel quale furono coinvolte quasi
1.000 persone, 9 delle quali vennero incriminate per turbativa di funzione
religiosa. Si evidenzia come il processo sia stato un passaggio esemplare verso
una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e repressione sulla quale
ancora oggi non è stata fatta chiarezza.
Info
Comunità
dell’Isolotto – via degli aceri, 1 – 50142 Firenze tel. 055 711362.
E-mail comis@videosoft.it, bibliotecadelleoblate@comune.fi.it
Scheda editoriale
Quella della comunità fiorentina dell’Isolotto fu, alla fine degli anni Sessanta, una partecipata esperienza religiosa e laica, sociale, politica e culturale. E su di essa si abbattè una reazione tra le più immediate, virulente e indicative di quanto la presa di parola dal basso avesse allarmato i poteri costituiti. Nel processo del 1971, che il volume ricostruisce e ripercorre, furono coinvolte quasi mille persone. Nel saggio introduttivo di Enzo Mazzi, attraverso l’esercizio della memoria, che accosta fatti e valutazioni, si mostra come il processo contro la comunità dell’Isolotto sia stato un passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza. Oltre alla ricostruzione dei fatti, il volume è completato dall’arringa di Lelio Basso durante il dibattimento, che costituisce un documento inedito di straordinario valore storico e giuridico, nonché dalle testimonianze che importanti personaggi quali Pietro Ingrao, Ernesto Balducci, Hans KÜng, Franco Cordero, Lucio Lombardo Radice e altri resero al tempo dei fatti.
Editrice Manifesto
Comunicato della Comunità
Anni "70" il processo alla comunità dell'Isolotto: un intero quartiere a giudizio per non aver chinato il capo e non aver accettato passivamente l'annientamento di una esperienza e di una identità. La memoria di ieri per leggere i fatti dell'oggi.
Abbiamo riedito quella esperienza in una nuova pubblicazione che verrà presentata giovedì 22 marzo alle ore 17 alla "biblioteca delle Oblate" in via dell'Oriuolo 26 Firenze alleghiamo l'invito da inoltrare anche a persone che si ritiene interessate.
Estratti dal libro:
(Da "Il processo dell'Isolotto", Premessa della
Comunità dell'Isolotto, pp.13-18) Manifestolibri ed. 2011, passim).
1 - voi non andate a giudicare solo noi nove, voi non andate
a giudicare neppure il popolo dell’Isolotto. Giudicate una tendenza, una forza
viva che oggi c’è nella società, nella storia. Hanno detto gli avvocati che la
vostra sarà una sentenza storica. Noi crediamo che questo sia vero proprio
perché l’Isolotto è una parte, una piccola parte di un movimento molto più
ampio”.
2 - Questa dichiarazione concluse il dibattimento del
processo contro l’Isolotto prima della sentenza del Tribunale, il 5 luglio
1971. Fu letta da una delle nove persone sotto giudizio: quattro laici della
Comunità Isolotto e cinque preti di cui due fiorentini e tre di altre città
italiane. Rappresentava i sentimenti, le emozioni, le preoccupazioni di tutti,
non solo di coloro che erano giudicati in quel processo ma anche dei quasi
cinquecento che erano stati inizialmente rinviati a giudizio e poi amnistiati e
soprattutto era espressione dell’intera comunità.
3 - La nostra rivisitazione non è pura riesumazione di un
passato sepolto ma è“memoria storica” che ha senso per l’oggi. Perché la
memoria è creativa, generativa di presente e di futuro.
4 - La dichiarazione fu fatta anche a nome di un’intera
società civile che vedeva nel processo dell’Isolotto un momento particolare ma
forte ed emblematico di quell’imponente processo storico di trasformazione
globale della società che era stato ed era ancora il ’68.
5 - Tant’è vero che quando si tirano le somme della
repressione giudiziaria del movimento complessivo del ‘68-‘69, si trovano
accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti
e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc.
6 - Riteniamo di trovarci sulla stessa lunghezza d’onda dello
storico statunitense Howard Zinn: “Se la
storia ha da essere creativa in modo da anticipare un possibile futuro senza
negare il passato, essa dovrebbe mettere in evidenza nuove possibilità mettendo
in luce quegli episodi del passato che sono stati tenuti nascosti, quando,
anche se in brevi sprazzi, la gente dimostrò la sua capacità di resistere, di
mettersi insieme, e qualche volta di saper vincere.
7 - Siamo preoccupati, indignati per quello che sta
succedendo nella vita politica e nella stessa vita ecclesiale. Soprattutto
siamo disorientati. Come abbiamo potuto ridurci in questo stato? Come se ne
esce? Forse abbiamo cercato soluzioni girando intorno all'asse del potere,
lottando o facendo il tifo per chi lottava con gli stessi metodi e con gli
stessi schemi culturali dei centri di potere, convinti che una volta raggiunto
il mitico potere lo avremmo usato diversamente. Non vogliamo dire che bisogna
abbandonare la lotta politica. Ma che occorre rovesciare lo schema di pensiero.
Partire dal basso, dalla vita, dalle relazioni essenziali, dalla solidarietà
strutturale e fondamentale, dalle piccole cose, invece che dall'alto.
8 - Luis Macas, intellettuale quichua ecuadoriano, afferma:
“La politica organizza l’esistente: non crea realtà nuove.
L’unica cosa che può cambiare in profondità l’esistente consiste nel creare e
nel porre nella realtà data realtà nuove, che mettono in discussione
l’esistente e con la loro presenza lo portano a ristrutturarsi. La principale e
decisiva attività trasformatrice è l’attività creativa, quella capace di
introdurre effettive novità storiche”.
Qualche altro ha
scritto: “Non si possono risolvere i problemi con gli stessi schemi di pensiero
con cui sono stati creati”.
9 - Barach Obama al Parlamento del Ghana: “Il mondo sarà come
voi lo costruite. Voi avete la forza per chiamare il vostri leader a render
conto del proprio operato, per costruire istituzioni che siano a servizio del
popolo. Potete sconfiggere le malattie, mettere fine ai conflitti e creare il
cambiamento partendo dal basso. Potete farlo. Sì, voi potete. Perché ora la
storia sta cambiando”.
(Da “la frontiera della memoria” di Enzo Mazzi, pp.19-62 del
libro, passim)
La “Chiesa dei poveri”, la Chiesa delle comunità di base e
della teologia della liberazione, la Chiesa di ispirazione conciliare, la Chiesa
del dialogo deve essere repressa, in America Latina, come nelle Filippine, come
nel Nord del mondo. Va fermata anch’essa“con ogni mezzo”: finché è possibile con gli
strumenti del Diritto Canonico, ma se non basta ci vuole il braccio secolare. Viene perciò finanziata, sostenuta e
potenziata la parte di Chiesa conservatrice, assistenzialista, autoritaria,
spiritualista, anticomunista, per aiutarla a emarginare e reprimere al suo
interno le esperienze conciliari. Ma ove, come nel Terzo Mondo, non sia
sufficiente la repressione intraecclesiale, la strategia repressiva dovrà usare
mezzi violenti come i massacri di preti, vescovi, leader laici di comunità di
base.
La personalità, il messaggio e l’uccisione di mons. Romero
sono ormai note in tutto il mondo. C’è perfino una causa di beatificazione che
giace in Vaticano in attesa di tempi opportuni. Tempi che arriveranno, perché il
potere ecclesiastico ha fame di santi. La mitizzazione/santificazione di
soggetti umani che emergono per il loro eroismo crea nella massa sensi di
frustrazione morale di fronte a modelli di santità irraggiungibile, genera in
tutti noi sensi di colpa, produce personalità insicure, dipendenti e quindi
inclini alla eterodirezione e alla ubbidienza. Ecco il motivo profondo della
santificazione ufficiale: favorire il dominio. Noi, le formiche, i comuni
mortali, la povera gente del popolo, ci sentiamo insignificanti, bisognosi
della protezione del potere, come bambini indotti dalla loro insicurezza a
gettarsi nelle braccia della mamma. San Romero d’America servirà a far
dimenticare che egli quando era in vita è stato ostacolato, combattuto e ucciso
da quegli stessi poteri che poi hanno favorito la sua santificazione. È vero
che mons. Romero è stato fatto santo dal popolo di El Salvador e di tutta
l’America latina già subito dopo l’uccisione. Anche il popolo ha bisogno di
santi. È un bisogno che ha molte motivazioni e che però presenta anche
rilevanti contraddizioni. Un potente, uno della casta sacrale, un vescovo che
si fa popolo può diventare simbolo della capacità della lotta di liberazione di
essere efficace e di penetrare fin dentro i palazzi per sgretolare il sistema
del dominio oppressivo. Romero santo può significare il riscatto della santità
del popolo. Ma il potere non sta a guardare. E con i suoi riti potenti, che
penetrano fin dentro l’intimo delle coscienze, sradica il simbolo del riscatto
dalla lotta del popolo, lo eleva sugli altari, ne fa oggetto di culto anziché
di ispirazione, lo rende strumento di alienazione. Meno noti e meno
recuperabili per la santificazione sono le centinaia di preti e teologi della
liberazione che furono uccisi in America Latina come Romero perché erano a
fianco del popolo e ne favorivano la coscientizzazione. La teologia della
liberazione che essi elaboravano e diffondevano costituisce la versione
centroamericana di una teologia incarnata nella storia della liberazione dei
poveri, degli sfruttati, degli oppressi. La parola “teologia” può portare fuori
strada perché può indurre a pensare a una teorizzazione accademica e
dottrinale. In realtà si tratta di una riflessione che parte dalla vita, dalla
lotta, dalle esperienze pratiche e a queste sempre riconduce. Si tratta di una
teologia che di fondo, non certo direttamente né in tutti i suoi aspetti, ha
ispirato papa Giovanni XXIII, ha dato anima al Concilio Vaticano II e poi si è
diffusa in tutto il mondo prendendo vari indirizzi e nomi nei diversi contesti
culturali.
Ritengo che forse questo tempo della notte fonda, della
nebbia fitta, è il tempo che richiede lo sguardo attento ai segni minimi dell’avvento
di una nuova stagione. Forse è il tempo di una solidarietà rinnovata negli
obiettivi e nei metodi che privilegi le relazioni più che le realizzazioni, che
faccia crescere la consapevolezza complessiva più che indicare un preciso
nemico, che crei identità collettive di gente consapevole della propria dignità
più che addormentare con promesse salvifiche dall’alto, che tenti esperienze
nuove di relazione, comunità oltre i confini, mentre si oppone alle relazioni e
alle comunitarietà chiuse, fondate sul dominio del danaro e sulle sue
istituzioni.
Ha espresso con la sensibilità consueta queste stesse cose
Pietro Ingrao in una Tavola rotonda sulla Violenza del sacro, svoltasi a Firenze
in un gremitissimo salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, nell’ambito del
Convegno del 1987 delle comunità di base sulla Laicità. Alla fine
dell’intervento volle regalarci una sua poesia di tre versi:
“Mordi musica, anima, vita,/
domanda, parla, grida il desiderio deriso, le
fragili comunioni,/
leva in alto la sconfitta”.
E poi spiegò: Levare in
alto la sconfitta vuol dire che quello che appare impossibile matura però nel
grembo delle cose. E le fragili comunioni, pur essendo fragili e non ancora
vittoriose, recano in sé, sia pure esposto, debole, ma in una misura che preme,
il germe di un altro rapporto fra esseri umani, un rapporto dove ceda il dominio
ed entri in campo la comunicazione, dove ciascuno di noi non sia più
possessore, proprietario, vincitore, non più chiuso nella gabbia del dominio
incomunicante, ridotto solo ad essere parte,soltanto parte. Levare in alto la
sconfitta vuol dire sperare di entrare in una connessione che valorizzi ma
anche oltrepassi l’enorme straordinarietà del singolo, ne superi i limiti e i
confini, ne scavalchi anche la frantumazione e l’accaduto irrimediabile e la
lacerante solitudine nella folla e finalmente apra una strada per una vita che abbia
come primo senso il comunicare…”.
domenica 11 marzo 2012
Associazione IDRA
Incontro molto istruttivo con Girolamo dell'Olio sulla TAV, domenica 11 marzo 2012. Con proiezioni di immagini a sostegno delle informazioni riguardanti la TAV di attraversamento Firenze e Mugello. Un prezioso materiale conoscitivo. Vale la pena di tenersi in contatto con questi volontari dell'informazione:
sul loro sito:
http://associazioni.comune.fi.it/idra/inizio.html
sul loro blog:
http://idrafirenze.wordpress.com/
Su Facebook
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Nota:
sul loro sito:
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Nota:
Chi è Idra?
Molto lontano dal Palazzo, dove sono tutti buoni o buonisti, vive e si riproduce Idra, un'associazione di cittadini cattivi.
Cattivi perché credono e si battono per la legalità, per la trasparenza, per il buon governo della cosa pubblica, per il diritto alla salute, all'ambiente e al futuro.
Senza mediare fra diritti e torti. Per la giustizia.
Idra non chiede e non accetta denaro pubblico o sponsorizzazioni commerciali: è un'associazione di volontariato all'antica, una società di mutuo soccorso dove ognuno cerca nelle proprie tasche e nel proprio cuore le risorse che servono ad aiutarsi e a tutelare la casa comune.
Idra mette a disposizione dei cittadini un servizio di assistenza e auto-aiuto contro gli abusi ambientali (Alta Velocità ferroviaria, Variante di valico, terza corsia autostradale, cementificazione della Piana di Firenze, emergenze idrogeologiche, ecc.): l'associazione informa le autorità istituzionali sui casi segnalati dai cittadini, perché sia garantito l'esercizio della giustizia ambientale e della legalità amministrativa.
Le segnalazioni possono essere fatte:
- telefonando ai numeri 055.48.03.22, 320.16.18.105, 055.41.04.24, 055.233.76.65
- scrivendo all’indirizzo postale dell'associazione in Via Giano della Bella 7, 50124 FIRENZE
- trasmettendo in orario diurno ai fax 055.233.76.65 e 055.41.04.24
- scrivendo all'indirizzo di posta elettronica idrafir@tin.it.
Idra è iscritta al Registro Regionale del Volontariato della Toscana e ispira le proprie iniziative alla tradizione laica e non-violenta.
Attraverso convenzioni informative con le istituzioni permette a molte carte che resterebbero nei cassetti di uscire e di essere conosciute.
Idra stampa un notiziario annuale, ha un indirizzo di posta elettronica (idrafir@tin.it) e l’indirizzo internet http://associazioni.comune.firenze.it/idra/inizio.html.
Per il sostegno, i contributi possono essere versati sul conto corrente postale n. 26619502 intestato a: Associazione di volontariato Idra, Via Giano della Bella 7, 50124 FIRENZE.
Come al mostro della mitologia greca, a Idra per ogni testa che le tagli gliene ricrescono dieci.
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