Ricordi
Quando scoppiò la prima guerra mondiale, mio padre a
diciotto anni fu mandato in trincea sul Monte Grappa. Era un giovanotto
intelligente e sveglio, che stava in compagnia degli anziani anziché dei
coetanei.
I soldati che avevano più esperienza di lui gli dicevano: “quando vai
all’assalto devi essere fra i primi, altrimenti non torni indietro”. Così fece
e si salvò.
Tornato a casa si trasferì a Firenze, perché la vita dei campi lo
limitava. Divenne viticoltore in un vivaio di piante da frutto e a trent’anni
si sposò con mia madre. Misero su casa e dopo un anno nacque mia sorella.
Prima della seconda guerra mondiale si trasferirono come custodi a
“Villa La Selva”, una fattoria i cui proprietari erano ebrei.
La parte centrale della villa che risale al 1300, pare fosse stata un
convento di monache. Furono successivamente aggiunte le due ali laterali ed il
tutto trasformato in residenza signorile. Fu arricchita anche di un bellissimo
giardino all’italiana, con aiuole piene di fiori e nel centro una vasca rotonda
in pietra serena, ricolma di ninfee rosa. C’era anche la limonaia e un
boschetto di lecci. Nel 1715 fu consacrata anche una cappella ad esclusivo uso
dei proprietari.
A causa delle leggi razziali i proprietari si rifugiarono in Palestina e
la villa fu requisita dallo Stato e adibita a campo di concentramento per ebrei
e dissidenti politici di varie nazionalità. Fu lì che nell’ottobre del 1941
nacqui io.
La mia nascita in quel luogo di dolore fu
considerata un segno di speranza. Tutti gli internati erano sotto le finestre
di casa in attesa del lieto evento, che fu accolto con un caloroso applauso.
Divenni la mascotte del campo ed ero tenuta in braccio da tutti.
La maggior parte di loro erano ebrei polacchi, ma c’erano anche altre
persone scomode per il regime. L’episodio più drammatico che io ricordo fu la
partenza dei detenuti per i campi di sterminio. Sul piazzale della villa, in
una giornata invernale piena di nebbia, c’era un camion grigio. Davanti al
camion un soldato tedesco, con un mitra in mano, spingeva la gente piangente
gridando “raus” (avanti). In braccio ai genitori c’erano i bambini in lacrime
che mi tendevano le mani. Io, accanto a mia madre, ad un certo punto ho
gridato: “questi sono tedeschi non li voglio vedere!”. Il soldato, che parlava
perfettamente l’italiano, disse: “anche tu piccina ci odi! A casa ho una bimba
come te che aspetta il mio ritorno”. Poi, rivolto a mia madre: “abbiamo delle
leggi terribili da rispettare e se non le rispettiamo fucilano anche noi”.
La vita all’interno del campo era difficile:. c’era un solo bagno e
mancava il riscaldamento. I prigionieri avevano un piccolo sussidio in denaro e
questa permetteva loro di acquistare generi alimentari che i contadini
portavano: frutta, verdura, latte, uova, pollame.
La porta di casa nostra era sempre aperta e sul tavolo di cucina c’erano
sempre del pane, del salame e del vino, e mio padre affermava: “se mangiamo
noi, devono mangiare anche loro”. Si era creato un forte legame emotivo fra
tutti. Io giocavo con i bambini e talvolta sedevo a tavola con loro.
Mia sorella, ormai sedicenne, si prendeva cura di me. Era bellissima ed
aveva molti corteggiatori. Con l’arrivo delle truppe alleate si presentavano
alla porta della villa alcuni militari: indiani su cavalli bianchi, vestiti di
bianco, americani che mia madre allontanava energicamente. Purtroppo non fu
possibile fare lo stesso con un inglese, un bel giovane biondo con gli occhi
verdi, perché mia sorella si era innamorata di lui. I miei genitori furono
costretti a dare il loro consenso e le nozze furono celebrate.
Fu aperta una pasticceria in San Frediano, nacque mia nipote, ma il
negozio mal gestito da mio cognato andò in fallimento e così la famigliola si
trasferì a Londra.
Mio padre pagò tutti i debiti finendo i suoi risparmi.
Ritornato in patria, nel suo ambiente, mio cognato si rivelò quello che
era veramente e cioè una persona psichicamente disturbata, forse a causa dei
traumi subiti in guerra. Anche mia sorella si ammalò e dopo vari anni morì di
cancro.
Durante il campo di concentramento io stavo bene, circondata
dall’affetto di tutti e dai bambini degli internati con cui giocavo. Finita la
guerra il campo si sciolse e tutti partirono.
Rimasi sola con i miei genitori anziani nel bellissimo ambiente della
Selva.
La solitudine è stata la mia amica d’infanzia durante l’inverno. Ma in
estate, quando i proprietari israeliani venivano in vacanza, la villa si
animava per la presenza anche dei loro figli con cui giocavo.
Giulia Baldi
Il trauma
La mancata rielaborazione di un trauma psicofisico subito da un
individuo o da una collettività, se non è rielaborato, provoca una serie di
sintomi e di reazioni negative difficilmente prevedibili e controllabili.
Questo è avvenuto anche per il popolo ebraico che vive in Israele e
che proietta sui palestinesi quello che ha vissuto nei campi di sterminio.
La “schoa”è stato sicuramente un evento terribile, drammatico, ma
forse a livello politico non c’è stata una rielaborazione e una
desensibilizzazione degli eventi accaduti, e questo sta generando reazioni di
odio terribile nei confronti del popolo palestinese.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Onu creò in Palestina
due Stati separati: uno per gli ebrei ed uno per i palestinesi. Israele però
non ha mai rispettato tali confini e lentamente, a macchia di leopardo, sta
occupando gran parte del territorio palestinese, creando una situazione di
tensione permanente.
Ora gli arabi palestinesi vivono in condizioni disumane. Sono state
erette palizzate in filo spinato, muri di divisione e create colonie di
insediamento ebraico nei territori occupati abusivamente dagli israeliani.
Ci sono dei filmati che documentano tale realtà che si può definire
un evento folle.
La comunità internazionale tollera tale situazione, forse non rendendosi
completamente conto della sua gravità e delle conseguenze negative che a lungo
termine possono provocare.
L’olocausto è stato un evento terribile ed inaccettabile, ma al
momento attuale non può più essere utilizzato per legittimare le violenze che
vengono fatte al popolo palestinese.
Occorre, perciò, analizzare con distacco, obiettivamente, tutta
questa disumana situazione.
Se in nome di un Dio personale questo accade, bisogno riconsiderare
la storia futura come storia “post-confessionale”. La terra è di tutti, quindi
siamo cittadini del mondo con uguali diritti e doveri.
Giulia Baldi
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