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giovedì 1 marzo 2012

Ricordi (di Giulia Baldi)

Giulia Baldi fa parte delle persone che si trovano la domenica e altri giorni alle baracche verdi di via degli aceri per fare Comunità. Pubblichiamo questi suoi Ricordi che ci ha passato. 


                                          
                                                            Ricordi

Quando scoppiò la prima guerra mondiale, mio padre a diciotto anni fu mandato in trincea sul Monte Grappa. Era un giovanotto intelligente e sveglio, che stava in compagnia degli anziani anziché dei coetanei.
I soldati che avevano più esperienza di lui gli dicevano: “quando vai all’assalto devi essere fra i primi, altrimenti non torni indietro”. Così fece e si salvò.
Tornato a casa si trasferì a Firenze, perché la vita dei campi lo limitava. Divenne viticoltore in un vivaio di piante da frutto e a trent’anni si sposò con mia madre. Misero su casa e dopo un anno nacque mia sorella.
Prima della seconda guerra mondiale si trasferirono come custodi a “Villa La Selva”, una fattoria i cui proprietari erano ebrei.
La parte centrale della villa che risale al 1300, pare fosse stata un convento di monache. Furono successivamente aggiunte le due ali laterali ed il tutto trasformato in residenza signorile. Fu arricchita anche di un bellissimo giardino all’italiana, con aiuole piene di fiori e nel centro una vasca rotonda in pietra serena, ricolma di ninfee rosa. C’era anche la limonaia e un boschetto di lecci. Nel 1715 fu consacrata anche una cappella ad esclusivo uso dei proprietari.
A causa delle leggi razziali i proprietari si rifugiarono in Palestina e la villa fu requisita dallo Stato e adibita a campo di concentramento per ebrei e dissidenti politici di varie nazionalità. Fu lì che nell’ottobre del 1941 nacqui io.
   La mia nascita in quel luogo di dolore fu considerata un segno di speranza. Tutti gli internati erano sotto le finestre di casa in attesa del lieto evento, che fu accolto con un caloroso applauso. Divenni la mascotte del campo ed ero tenuta in braccio da tutti.
La maggior parte di loro erano ebrei polacchi, ma c’erano anche altre persone scomode per il regime. L’episodio più drammatico che io ricordo fu la partenza dei detenuti per i campi di sterminio. Sul piazzale della villa, in una giornata invernale piena di nebbia, c’era un camion grigio. Davanti al camion un soldato tedesco, con un mitra in mano, spingeva la gente piangente gridando “raus” (avanti). In braccio ai genitori c’erano i bambini in lacrime che mi tendevano le mani. Io, accanto a mia madre, ad un certo punto ho gridato: “questi sono tedeschi non li voglio vedere!”. Il soldato, che parlava perfettamente l’italiano, disse: “anche tu piccina ci odi! A casa ho una bimba come te che aspetta il mio ritorno”. Poi, rivolto a mia madre: “abbiamo delle leggi terribili da rispettare e se non le rispettiamo fucilano anche noi”.
La vita all’interno del campo era difficile:. c’era un solo bagno e mancava il riscaldamento. I prigionieri avevano un piccolo sussidio in denaro e questa permetteva loro di acquistare generi alimentari che i contadini portavano: frutta, verdura, latte, uova, pollame.
La porta di casa nostra era sempre aperta e sul tavolo di cucina c’erano sempre del pane, del salame e del vino, e mio padre affermava: “se mangiamo noi, devono mangiare anche loro”. Si era creato un forte legame emotivo fra tutti. Io giocavo con i bambini e talvolta sedevo a tavola con loro.
Mia sorella, ormai sedicenne, si prendeva cura di me. Era bellissima ed aveva molti corteggiatori. Con l’arrivo delle truppe alleate si presentavano alla porta della villa alcuni militari: indiani su cavalli bianchi, vestiti di bianco, americani che mia madre allontanava energicamente. Purtroppo non fu possibile fare lo stesso con un inglese, un bel giovane biondo con gli occhi verdi, perché mia sorella si era innamorata di lui. I miei genitori furono costretti a dare il loro consenso e le nozze furono celebrate.
Fu aperta una pasticceria in San Frediano, nacque mia nipote, ma il negozio mal gestito da mio cognato andò in fallimento e così la famigliola si trasferì a Londra.
Mio padre pagò tutti i debiti finendo i suoi risparmi.
Ritornato in patria, nel suo ambiente, mio cognato si rivelò quello che era veramente e cioè una persona psichicamente disturbata, forse a causa dei traumi subiti in guerra. Anche mia sorella si ammalò e dopo vari anni morì di cancro.
Durante il campo di concentramento io stavo bene, circondata dall’affetto di tutti e dai bambini degli internati con cui giocavo. Finita la guerra il campo si sciolse e tutti partirono.
Rimasi sola con i miei genitori anziani nel bellissimo ambiente della Selva.
La solitudine è stata la mia amica d’infanzia durante l’inverno. Ma in estate, quando i proprietari israeliani venivano in vacanza, la villa si animava per la presenza anche dei loro figli con cui giocavo.

                                                   Giulia Baldi


                                                         Il trauma

La mancata rielaborazione di un trauma psicofisico subito da un individuo o da una collettività, se non è rielaborato, provoca una serie di sintomi e di reazioni negative difficilmente prevedibili e controllabili.
Questo è avvenuto anche per il popolo ebraico che vive in Israele e che proietta sui palestinesi quello che ha vissuto nei campi di sterminio.
La “schoa”è stato sicuramente un evento terribile, drammatico, ma forse a livello politico non c’è stata una rielaborazione e una desensibilizzazione degli eventi accaduti, e questo sta generando reazioni di odio terribile nei confronti del popolo palestinese.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Onu creò in Palestina due Stati separati: uno per gli ebrei ed uno per i palestinesi. Israele però non ha mai rispettato tali confini e lentamente, a macchia di leopardo, sta occupando gran parte del territorio palestinese, creando una situazione di tensione permanente.
Ora gli arabi palestinesi vivono in condizioni disumane. Sono state erette palizzate in filo spinato, muri di divisione e create colonie di insediamento ebraico nei territori occupati abusivamente dagli israeliani.
Ci sono dei filmati che documentano tale realtà che si può definire un evento folle.
La comunità internazionale tollera tale situazione, forse non rendendosi completamente conto della sua gravità e delle conseguenze negative che a lungo termine possono provocare.
L’olocausto è stato un evento terribile ed inaccettabile, ma al momento attuale non può più essere utilizzato per legittimare le violenze che vengono fatte al popolo palestinese.
Occorre, perciò, analizzare con distacco, obiettivamente, tutta questa disumana situazione.
Se in nome di un Dio personale questo accade, bisogno riconsiderare la storia futura come storia “post-confessionale”. La terra è di tutti, quindi siamo cittadini del mondo con uguali diritti e doveri.
                                                Giulia Baldi



















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