Pistoia,
20 marzo 2012
Cari amici,
perché questo Forum 300 a
ridosso del 299? Semplicemente per dare notizia di un evento in area fiorentina,
che però può avere risonanza più ampia ed incidenza particolare sul nostro
cammino. Si tratta della presentazione del libro “Il processo dell’Isolotto” a
cui partecipa anche Giancarla Codrignani.
Prima ancora di sapere di
tutto questo, in Koinonia di aprile abbiamo segnalato il libro nell’ambito della
Dichiarazione del P.Balducci sulla vicenda Isolotto, così come vi figura
un articolo di Giancarla che ripropone nell’oggi le problematiche di allora.
Questo per dire che non siamo alla pura rievocazione e ricostruzione di eventi
superati, ma abbiamo a che fare con sangue che scorre ancora nelle nostre
vene!
Il paragrafo qui riportato
del saggio introduttivo di Enzo Mazzi ci fa capire dal vivo come il “processo
conciliare” che viene da lontano è ancora in atto ed è messe che attende operai:
qualcosa che rischia di venire rimosso come pericoloso, per contentarsi di
costruire solo “in positivo” al di fuori di conflitti o di lasciare ad altri la
lotta che essi comportano.
Sembra in effetti che la
nostra chiesa abbia cercato di disinnescare ogni istanza di “rivoluzione
copernicana” per ammantarsi con le varie insegne di novità da essa prodotte:
che si sia appropriata di tutti gli aspetti secondari e discutibili delle
esperienze innovative (soprattutto nelle modalità celebrative), per riproporsi
come blocco di potere di sempre. E’ ciò che genera la strana situazione
attuale, per cui ad un neo-trionfalismo interno fa riscontro una zona grigia di
rottura o di percorso parallelo alternativo: se c’è “disagio senza conflitto”,
infatti, si arriva alla omologazione, o alla estraneità o alla incomunicabilità.
Riscoprire il conflitto come processo dialettico vitale non può fare che bene,
ma deve trovarci pronti a condurlo e sostenerlo.
Rimanendo per ora al testo
riportato di Enzo Mazzi c’è da dire che ci aiuta anche a fare memoria di mons.
Oscar Romero il 24 marzo, giorno ufficialmente promosso a “Giornata di
preghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri” (a proposito di
disinnescamento e di omologazione!). Ma come si può vedere, egli valorizza
insolitamente anche il ruolo della teologia e dei teologi nella conduzione di
questo “processo conciliare” aperto, ciò che forse manca al momento attuale come
riflessione innescata nel sensus fidei della totalità dei fedeli o dei
credenti di ogni tipo. E’ significativo il fatto che il libro che sarà
presentato preveda alcune “Testimonianze di teologi”, che evidenziano una
dimensione della vicenda non secondaria rispetto ai pur rilevanti elementi
istituzionali e giudiziari.
Motivo ed occasione per
continuare a riflettere e comunicare tra di noi e con tutti, per arrivare
insieme ad avere “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16).
Convento S.Domenico - Piazza
S.Domenico, 1 – Pistoia
AD
INFORMAZIONE
E RICORDANDO
ENZO MAZZI
1 - La Comunità dell’Isolotto e Manifestolibri
Invitano alla presentazione del libro
Il processo dell’Isolotto
Saggio introduttivo di Enzo Mazzi
prefazione di Mario Capanna
Introduce e coordina
Valerio Gigante redattore agenzia di stampa ADISTA
Valerio Gigante redattore agenzia di stampa ADISTA
INTERVENTI DI
Mario
Capanna politico e scrittore
Giancarla
Codrignani docente di letteratura
classica, politologa, teologa
Beniamino
Deidda Procuratore Generale della
Repubblica di Firenze
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Firenze giovedì 22 marzo 2012 ore 17.00
Biblioteca delle Oblate sala grande
Via dell’Oriuolo 26
La
memoria del vivere sociale ha una grande vitalità generativa: produce identità
collettiva, tesse la trama del tessuto relazionale della città, crea di
continuo comunità solidali e ostacola i germi distruttivi della frantumazione
egoistica. E' come la vitalità propria del seme: può restare a lungo
apparentemente inattiva, a causa di contingenze storiche che ne impediscono lo
sviluppo o la visibilità, ma è sempre pronta a esplodere in nuove fioriture, e
inoltre, come avviene nei pollini, è racchiusa in forme piccole e leggerissime
che possono essere trasportate lontano dal vento.
(dal saggio di Enzo Mazzi)
Il libro ricostruisce e ripercorre la vicenda del processo alla
Comunità dell’Isolotto del 1971, nel quale furono coinvolte quasi 1.000
persone, 9 delle quali vennero incriminate
per turbativa di funzione religiosa. Si evidenzia come il processo sia stato un
passaggio esemplare verso una drammatica stagione di depistaggi, trame eversive
e repressione sulla quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza.
Info
Comunità dell’Isolotto – via degli aceri, 1 – 50142 Firenze
2 – Da
un testimone del lungo processo conciliare: Enzo Mazzi
La
"rivoluzione copernicana" sociale
nella
Chiesa cattolica
Il processo di umanizzazione sociale si è configurato
nell'ambito ecclesiale come "rivoluzione copernicana della Chiesa".
Così ha significativamente definito il Concilio Vaticano II un grande teologo
conciliare, Dominique Chenu, in quanto pone al centro non più la gerarchia ma
il "Popolo di Dio".
Il Concilio però non è solo il mitico evento che si è aperto
in San Pietro l’11 ottobre 1962. È una grave deformazione storiografica e
culturale oltre che una scelta politica reazionaria rinchiudere il Concilio
nella scatola dell'Assise conciliare. La rivoluzione copernicana del Concilio
era già in atto come processo dal basso prima che i vescovi di tutto il mondo
fossero convocati da papa Giovanni. E dopo che essi furono congedati da Paolo
VI il movimento conciliare continuò, anzi divenne culturalmente egemone nella
chiesa. Chi scrive è fra i tanti testimoni diretti di un tale processo
conciliare iniziato ben prima del pontificato di papa Giovanni e proseguito ad
oggi, con modalità e visibilità diverse, come un fiume che si modella in base
ai territori che incontra.
Nel dopoguerra, mentre dai luoghi del
potere proveniva quella ondata antipopolare di contrapposizione e intolleranza
che trovò nella scomunica dei comunisti uno dei momenti più drammatici, i
luoghi del non-potere divenivano crocicchi di inediti e fecondi incontri,
crogioli di esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa. Per capirci
meglio, da tante e complesse esperienze, desumiamo alcuni esempi più facilmente
decifrabili. Nei campi di concentramento tedeschi, preti francesi si trovarono
a condividere una "comunità di destino" con operai comunisti.
Scoprirono nelle reciproche diversità valori sia umani sia evangelici che li
portarono a uscire dalle rispettive gabbie ideologiche e a tentare sentieri
inediti di convergenza. Nacquero così i preti operai, una delle vene del
processo conciliare. Un'altra vena, non meno feconda, si apriva nel mantovano,
dove don Primo Mazzolari, parroco e scrittore, già durante il fascismo e poi
nell'immediato dopoguerra, sperimentava e diffondeva uno spirito di convergenza
con i contadini socialisti e comunisti, con gli anticlericali, con i
protestanti. "Tromba dello Spirito Santo" lo definì papa Giovanni, il quale si ispirò anche a lui nel suo sogno
del Concilio. Infine le esperienze pastorali di parrocchie che si svilupparono
già dieci anni prima del Concilio specialmente nelle periferie popolari delle
città. In Francia furono definite "parrocchie missionarie" e in
Italia furono dispregiativamente chiamate "parrocchie rosse" per il
loro ideale e spirito comunitario evangelico e senza confini. A Firenze tali
esperienze pastorali erano molte: l'Isolotto, Rifredi, la Casella, la Nave a
Rovezzano, il Vingone, Calenzano.
Qui, in questi crogioli periferici di
esperienze e sintesi nuove di società e di chiesa s'innesta il pontificato di papa
Giovanni che dopo un primo tempo di attesa recepisce e rilancia un tale
articolato movimento di rinnovamento di base.
Ai primi di novembre del 1958, il
cardinale Elia Dalla Costa, in quel tempo arcivescovo di Firenze, di ritorno
dal Conclave, venne a trovarci all'Isolotto, in una delle visite che ci faceva
di frequente in rigoroso incognito. "Abbiamo eletto un papa che vi
piacerà" – ci disse con quel risolino ironico e ammiccante che addolciva i
tratti austeri e taglienti del suo volto scavato. Poiché conosceva i suoi
polli, aggiunse, fra una sorsata di caffè e l'altra: "Abbiate fiducia,
aspettate e vedrete".
Aspettammo,
ma sfiduciati. Già i trionfalismi dell'incoronazione ci avevano mal disposti verso
questo papa. Presentava sì tratti di bonaria umanità, totalmente assenti dalla
figura di Pacelli, ma mostrava, agli occhi di quanti si arrovellavano sulle
frontiere del rinnovamento, una cultura tradizionalista e curiale, inadeguata
se non contraria ai cambiamenti che si rendevano sempre più urgenti.
Vennero, poi, le mazzate. Nel dicembre
1958, un intervento vaticano vieta all'Università cattolica del S. Cuore di
conferire la laurea honoris causa in
scienze politiche a Jacques Maritain. Poco dopo, un ordine del Sant'Uffizio
blocca la diffusione di Esperienze
Pastorali di don Milani, fino a lambire lo stesso cardinale Dalla Costa che
aveva concesso il nulla osta alla pubblicazione. Agli inizi del 1959 viene
esiliato da Firenze padre Ernesto Balducci. Il 4 aprile dello stesso anno il
Sant'Uffizio rinnova, con la dichiarata approvazione del papa, la condanna
contro i comunisti, allargandola perfino ai cattolici che con i loro
comportamenti "favorivano" il comunismo. Ancora nello stesso anno, il
card. Feltin riceve dal card. Pizzardo, segretario del Sant'Uffizio,
l'ingiunzione di chiudere definitivamente l'esperienza dei preti operai,
creando drammatici casi di coscienza e ferite tutt'ora aperte. Infine Teilhard
de Chardin, dopo la morte, viene accusato di eresia e le sue opere sono
proibite. Altro che sogni di apertura!
Il nuovo papa appariva un ostaggio
imbelle della Curia vaticana. Si allontanava sempre più la prospettiva che ci
aveva aperta il card. Dalla Costa.
Il clima che si avvertiva negli
ambienti dove si stava realizzando la gestazione del rinnovamento era di
disorientamento. Ma non di scoraggiamento, perché mille segni ci dicevano che,
nonostante il gelo vaticano duro e distruttivo come le nevicate di marzo, la
primavera era in piena e inarrestabile fermentazione.
Lontani com'eravamo dalle stanze e dalle
trame del potere, a diretto contatto con la gente più umile, immersi in una
quotidianità che impegnava tutte le nostre energie intellettuali e materiali,
ci sfuggiva il fatto che alcuni di questi segni di germinazione si annidavano
nella coscienza e nei gesti minori del nuovo papa. Come l'abbraccio con cui
papa Giovanni accolse l'eretico dissidente don Primo Mazzolari, in una pubblica
udienza il 6 febbraio 1959, nello stesso momento in cui i vescovi italiani,
card. Montini compreso, esigevano una condanna definitiva ed esemplare di
Mazzolari e della sua rivista Adesso.
Dalla Costa non aveva parlato invano quel giorno di novembre del 1958 e
soprattutto egli sapeva quello che faceva quando aveva impegnato tutta la sua
credibilità e la sua autorevolezza di papabile per favorire l'elezione di
Roncalli. I due, Dalla Costa e Roncalli, non potevano scoprire le loro carte
più preziose. Carlo Falconi afferma in una pubblicazione su I papi del ventesimo secolo che
"molto prima di diventare il 262° successore di Pietro, Roncalli era già
in possesso di tutto l'esplosivo ideologico a cui avrebbe avvicinato la miccia
( ... ) soltanto negli ultimi anni della sua vita". Papa Giovanni
attendeva l'ora stabilita dalla Provvidenza, dice Falconi. Ma noi come potevamo
saperlo? Come potevamo pensare che un uomo così esplicitamente inviluppato
nella tela del ragno potesse covare il colpo d'ala capace di liberarlo e di
liberare con lui la Chiesa intera?
La stessa notizia che Giovanni XXIII
aveva espresso l'intenzione d'indire un Concilio ci lasciò sulle prime
indifferenti. Ritenevamo che un Concilio sarebbe stato egemonizzato dalla
solita Curia che l'avrebbe usato come nuova occasione di trionfalismo, per
ribadire i luoghi comuni del centralismo vaticano. Stava a dimostrarlo il fallimento
del Sinodo Romano, il primo dell'epoca post-tridentina, tenutosi nel gennaio
1960, con gran pompa ma senza alcun segno di apertura al nuovo.
Per concludere, si consolidava sempre
più in noi la convinzione che la riforma della Chiesa non poteva in alcun modo
venire dal centro o dall'alto. Diveniva sempre più chiaro che l'attuale
struttura ecclesiastica, teocratica, centralista, autoritaria, imponente,
ricca, alleata con i ricchi e i potenti, era una fortezza-prigione totalmente
impenetrabile, capace di annullare ogni buona volontà riformatrice. Il massimo
che ci si poteva attendere era una "verniciatura dei sepolcri".
Del resto noi stessi, nel nostro
piccolo, lo sperimentavamo. Il Vangelo era vissuto fuori dalle strutture
ecclesiastiche, nei luoghi del non-potere, della insignificanza, della
emarginazione, della povertà. E noi, preti e laici, che tentavamo di aprire le
nostre parrocchie delle squallide periferie o di sperduti paesi o delle
baraccopoli alla creatività dello Spirito, cozzavamo sempre contro muraglie
inamovibili. Non era solo questione di uomini. Anzi, in radice non era affatto
questione di uomini. Erano sbarre fatte di ruoli, leggi, riti, dogmi,
catechismi, concordati, protezioni politiche, patrimoni, consuetudini....
La riforma della Chiesa in senso
evangelico poteva venire e veniva di fatto solo dal basso o se si vuole dalla
periferia. La comprensione del Vangelo, il catechismo, la liturgia, la
spiritualità, i beni materiali, le strutture decisionali, insomma tutta la
struttura di vita dell'essere chiesa veniva progressivamente rovesciata. A
lenti ma decisivi passi era collocata su un nuovo fondamento: la base, i
poveri, gli handicappati, gli abbandonati, gli umili, gli operai e specialmente
il mondo femminile. Le realtà nuove che nascevano si chiamavano non di rado,
con termine equivoco, "comunità", e magari "comunità
parrocchiali". Solo più tardi si affaccerà quel nome che ancora non è
stato assorbito e travisato dalle istituzioni forti: "comunità di base",
cioè realtà che trovano il proprio fondamento nello Spirito che vive nella
base, realtà protese alla sostanziale autonomia dalla struttura della
parrocchia, della diocesi, della Curia vaticana.
Insomma eravamo "periferie"
che si avviavano coscientemente, sempre più coscientemente, a divenire soggetti
storici della ineludibile riforma della Chiesa.
Papa Roncalli che si sentiva
inghiottito dalla tela del ragno, quasi un burattino nelle mani
dell'onnipotenza curiale, ebbe la genialità di rompere quell'isolamento
chiamando in Vaticano il mondo intero. Non che i vescovi fossero tutti
esemplari di aderenza alla realtà, anzi molti di loro erano ancora fermi al
Medio Evo. Chiamò il mondo intero nel senso che convocando i vescovi, unica
possibilità istituzionalmente a lui consentita, intese dare voce e forza a quei
processi di crescita umana e cristiana che dal basso, dalle periferie,
animavano la storia. Li aveva incontrati nella sua esperienza di diplomatico
vaticano in cruciali posti di frontiera: in Bulgaria, a contatto col mondo
dell'ortodossia e del comunismo, in Turchia, la porta dell'Islam, nella
Francia, "paese di missione" animato dal card. Suhard e inoltre nodo
storico della decolonizzazione (Algeria e Vietnam) e infine nell'Italia del
modernismo e dell'opposizione all'assolutismo e all'anticomunismo pacelliano.
Egli aveva preso coscienza di quanto la
Chiesa intera avesse bisogno di essere fecondata dallo Spirito che soffiava
forte nelle periferie e nella base. Intendiamoci, non voglio dire che lui fosse
sempre d'accordo con le esperienze innovative che incontrava. Ma avrebbe voluto
paternamente indirizzarle, secondo il suo stile di "buon pastore" che
vuole "evitare di trasformarsi in organizzatore della vita
collettiva", come ebbe a dire esplicitamente nel discorso
dell'incoronazione. Ben presto però si accorse che egli, dal centro, poteva
solo reprimere e soffocare. La riforma della Chiesa non poteva partire da lui.
Non voleva essere un papa-riformatore. E concepì il Concilio proprio per
rompere il centralismo romano, per far tacere i "profeti di sventura"
e quindi liberare le esperienze conciliare delle periferie e dare spazio ai
"segni dei tempi".
È emblematico lo scontro durissimo che
esplose nell'assise dei vescovi riuniti in San Pietro su alcuni aspetti
centrali della riforma conciliare.
Papa Giovanni a un certo punto s'impose
sostenendo le istanze rinnovatrici di vescovi come i cardinali Giacomo Lercaro
di Bologna, Frings di Colonia, Liènart di Lilla, Alfrink di Utrecht e
sconfessando praticamente lo schieramento dei potentissimi vescovi
conservatori. Questi erano organizzati dall'arcivescovo Lefebvre in una vera e
propria «compagine tradizionalista» all'interno del Concilio, che si dette
anche un nome: «Coetus Internationalis Patrum», con in testa il potente
cardinale Ottaviani, composta da 250 prelati fra cui l'arcivescovo di Firenze
Ermenegildo Florit, il cui obiettivo conclamato era quello di trasformare il
Concilio in un evento di semplice colore senza reali aperture, anzi con la
conferma del centralismo vaticano, delle rigidezze dogmatiche e di tutte le
condanne. Papa Giovanni glielo impedì dando forza ai vescovi che esprimevano lo
spirito di profonda trasformazione che animava le periferie della Chiesa.
Questo era il suo compito: non fare lui
stesso la riforma, ma dare spazio al processo di riforma che germinava nella
realtà ecclesiale e nei processi di crescita umana e cristiana che animavano la
storia. Nell'enciclica Pacem in terris
chiamerà tali processi "segni dei tempi" e darà loro precisi
connotati: "ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici... ingresso
della donna nella vita pubblica ... non più popoli dominatori e popoli
dominati..."; ancora altri "segni dei tempi", secondo la Pacem in Terris, l'aprirsi delle coscienze
al carattere democratico della vita sociale e politica e all'illiceità ormai
della guerra nell'era atomica.
Nei primi anni del suo pontificato
Roncalli si rese dunque conto di essere divenuto ostaggio della curia vaticana.
Dal centro egli poteva solo reprimere non fecondare. E concepì il Concilio per
rompere il centralismo romano e quindi liberare le esperienze conciliari delle
periferie. Non mi stanco di ricordarlo anche per contrastare l'ignoranza di
questi elementi storici da parte di molta storiografia ufficiale.
È stata una scommessa vincente.
"Scommessa", perché a quel tempo non era affatto scontato l'esito del
Concilio, con una Curia vaticana che fece di tutto per ingabbiarlo e ridurlo a
folklore; "vincente” perché il processo conciliare contagiò gran parte dei
padri convocati in S. Pietro e divenne egemone, in senso culturale, a livello
mondiale.
Ma quella "rivoluzione
copernicana" della Chiesa, nata nella base e poi fatta propria dal
Concilio e dilagante, fu osteggiata da grandi centri mondiali di potere reazionario
che vedevano nel rinnovamento conciliare della Chiesa un ostacolo alla loro
strategia reazionaria. In particolare in Italia il movimento conciliare fu
com-battuto da quell'intreccio perverso, composto da politica collusa,
massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia, che temendo
il contagio comunista, tentò di bloccare il processo democratico complessivo
ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore.
La genesi delle comunità cristiane di
base italiane trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la
repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell'intreccio perverso di cui
abbiamo parlato sopra. Le squadre neofasciste al Nord e la mafia al Sud
costituiscono la manovalanza di azioni e provocazioni violente analoghe a
quelle avvenute nella chiesa dell'Isolotto, di cui parleremo più diffusamente
più avanti.
La Chiesa conciliare e specialmente le
comunità di base dovevano sparire, in Italia e nel mondo, perché doveva essere
annullata l'idea stessa di centralità del "Popolo di Dio", distrutto
l'ideale medesimo di "Chiesa povera e dei poveri". È per questo che
mentre in Italia si crea il terrore attraverso la manovalanza violenta
neo-fascista e mafiosa, in America latina le giunte militari massacrano a
decine i pastori e i laici impegnati nel creare comunità di base come mons.
Oscar Romero, i teologi della liberazione come padre Ignazio Ellacuria e i suoi
confratelli dell'Università Centroamericana di San Salvador.
La personalità, il messaggio e
l'uccisione di mons. Romero sono ormai note in tutto il mondo. C'è perfino una
causa di beatificazione che giace in Vaticano in attesa di tempi opportuni.
Tempi che arriveranno, perché il potere ecclesiastico ha fame di santi. La
mitizzazione/santificazione di soggetti umani che emergono per il loro eroismo
crea nella massa sensi di frustrazione morale di fronte a modelli di santità
irraggiungibile, genera in tutti noi sensi di colpa, produce personalità
insicure, dipendenti e quindi inclini alla etero-direzione e alla ubbidienza.
Ecco il motivo profondo della santificazione ufficiale: favorire il dominio.
Noi, le formiche, i comuni mortali, la povera gente del popolo, ci sentiamo
insignificanti, bisognosi della protezione del potere, come bambini indotti
dalla loro insicurezza a gettarsi nelle braccia della mamma. San Romero
d'America servirà a far dimenticare che egli quando era in vita è stato
ostacolato, combattuto e ucciso da quegli poteri che poi hanno favorito la sua
santificazione. È vero che mons. Romero è stato fatto santo dal popolo di El
Salvador e di tutta l'America latina già subito dopo l'uccisione. Anche il
popolo ha bisogno di santi. È un bisogno che ha molte motivazioni e che però
presenta anche rilevanti contraddizioni. Un potente, uno della casta sacrale,
un vescovo che si fa popolo può diventare simbolo della capacità della lotta di
liberazione di essere efficace e di penetrare fin dentro i palazzi per
sgretolare il sistema del dominio oppressivo. Romero santo può significare il
riscatto della santità del popolo. Ma il potere non sta a guardare. E con i
suoi riti potenti, che penetrano fin dentro l'intimo delle coscienze, sradica
il simbolo del riscatto dalla lotta del popolo, lo eleva sugli altari, ne fa
oggetto di culto anziché di ispirazione, lo rende strumento di alienazione.
Meno noti e meno recuperabili per la
santificazione sono le centinaia di preti e teologi della liberazione che
furono uccisi in America Latina come Romero perché erano a fianco del popolo e
ne favorivano la coscientizzazione.
Prendiamo ad esempio i sei teologi
dell'Università Centroamericana di San Salvador che furono massacrati il 16
novembre 1989 insieme a due donne inservienti. Erano sacerdoti di origine
spagnola da molto tempo impegnati in un lavoro di coscientizzazione della
gente. Con loro l'Università cattolica di San Salvador era diventata un centro
di analisi, di ricerca e di orientamento pratico a cui si ispiravano le realtà
sociali e politiche orientate alla giustizia, al dialogo e alla pace e in
particolare le comunità di base di tutto il Centroarnerica. Si deve anche a
loro la conversione del vescovo Romero, il quale com'è noto era stato eletto
arcivescovo di San Salvador per il suo orientamento tradizionalista, vicino
all'Opus Dei, ma poi si era
avvicinato alle istanze di liberazione popolari e alla teologia della
liberazione espressa appunto dai teologi dell'Università Centroamericana. Essi
puntavano però ben oltre l'orizzonte regionale. Il loro impegno era di spingere
tutta la Compagnia di Gesù e tutta la Chiesa cattolica, a livello mondiale, a
fare la scelta dei poveri. Nel luogo dove furono massacrati, ora c'è un
giardino di rose rosse. Ma quella mattina del massacro c'erano solo corpi
straziati, deturpati, sfigurati e tanto sangue. In quello stesso periodo con
l'esplosione di alcune bombe era stata fatta una strage di sindacalisti
salvadoregni. Non è un particolare secondario né un caso.
La teologia della liberazione che essi
elaboravano e diffondevano costituisce la versione centroamericana di una
teologia incarnata nella storia della liberazione dei poveri, degli sfruttati,
degli oppressi. La parola "teologia" può portare fuori strada perché
può indurre a pensare a una teorizzazione accademica e dottrinale. In realtà si
tratta di una riflessione che parte dalla vita, dalla lotta, dalle esperienze
pratiche e a queste sempre riconduce. Si tratta di una teologia che di fondo,
non certo direttamente né in tutti i suoi aspetti, ha ispirato papa Giovanni
XXIII, ha dato anima al Concilio Vaticano II e poi si è diffusa in tutto il
mondo prendendo vari indirizzi e nomi nei diversi contesti culturali. Nelle
Filippine l'hanno chiamata teologia della lotta. In altre parti dell'Asia
teologia contestuale. In Occidente ha più di una caratterizzazione. C'è ad
esempio il grande patrimonio di riflessione teologica legata alla prassi della
riappropriazione dal basso del Vangelo e della Tradizione della Chiesa e più in
genere della cultura e della storia realizzato dalle comunità cristiane di
base. Un altro indirizzo non secondario di teologia della liberazione si può
ritrovare nella teologia femminista.
Non è difficile capire quanto la
coscientizzazione operata dalla diffusione mondiale di questa teologia
incarnata nella storia della liberazione sia stata e sia invisa ai poteri del
dominio mondiale. Se la croce avesse cessato di essere strumento, e quale
potente strumento, di rassegnazione e di sottomissione, la rivoluzione sarebbe
diventata invincibile. Bisognava evitare in ogni modo il cortocircuito, da
tempo annunciato ma dopo la guerra divenuto incombente, fra Vangelo e idealità
e motivazioni laiche della rivoluzione socialista. Il massacro dei teologi
della liberazione della Università centroamericana è solo un episodio di una
repressione generalizzata che in tutto il mondo si è servita di ogni mezzo,
compresa appunto la strage, per chiudere la bocca ai profeti. Il sistema di
dominio mondiale che si era costituito dopo la guerra aveva bisogno per
sopravvivere di reprimere la coscientizzazione e di togliere di mezzo l'idea
contagiosa che il Vangelo possa essere uno strumento nelle mani del popolo per
la liberazione storica e non solo per la salvezza trascendente dell'anima. C'è
stato un momento in cui nei paesi dell'America Latina dominati da feroci
dittature, come ad esempio in Salvador, Guatemala, Uruguay, era passibile di
arresto o di sparizione chi veniva trovato in possesso della Bibbia, specialmente
della "Biblia latino-americana", la cui traduzione era considerata
sovversiva. Tanto che monsignor Oscar Romero poco prima di morire aveva
consigliato ai catechisti e cristiani delle comunità di base di sotterrare la
Bibbia.
Il sangue dei cristiani delle comunità
di base, dei teologi e dei pastori della liberazione è dunque confluito nel
fiume di sangue versato nell'ultimo mezzo secolo per impedire la emersione
delle classi popolari. E il sangue versato è stato solo l'aspetto più eclatante
e ripugnante di una repressione che non ha risparmiato niente e nessuno.
Perfino il cardinale Roncalli, prima di diventare papa, fu inquisito ed
esplicitamente criticato dal Vaticano per sospetto filo comunismo, quando come
patriarca di Venezia mandò gli auguri al Congresso del Partito socialista
italiano. Una volta eletto papa non volle distruggere il suo dossier.
"Certe sofferenze – disse al segretario mons. Loris Capovilla – devono
essere risparmiate ai servitori della Chiesa ed è giusto che vengano ricordate
affinché certi errori non si ripetano".
Enzo Mazzi
In Il processo
dell’Isolotto, pp.50-60
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