Comunità dell’Isolotto -
Firenze, domenica 17 febbraio 2013
Quale
rapporto esiste fra “parola” “politica” “ felicità”
riflessioni di Mario – Paola – Luciana
Vangelo
di Giovanni
In
principio era il Verbo,
il Verbo
era presso Dio
e il Verbo
era Dio.
Egli era
in principio presso Dio:
tutto è
stato fatto per mezzo di lui,
e senza di
lui niente è stato fatto
di tutto
ciò che esiste. In lui era la vita
e la vita
era la luce degli uomini;
la luce
splende nelle tenebre,
ma le
tenebre non l’hanno accolta.
Venne un
uomo mandato da Dio
e il suo
nome era Giovanni.
Egli venne
come testimone
per
rendere testimonianza alla luce,
perché
tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non
era la luce,
ma doveva
render testimonianza alla luce.
Veniva nel
mondo la luce vera,
quella che
illumina ogni uomo.
Egli era
nel mondo,
e il mondo
fu fatto per mezzo di lui,
eppure il
mondo non lo riconobbe.
Venne fra
la sua gente,
ma i suoi
non l’hanno accolto.
A quanti
però l’hanno accolto,
ha dato
potere di diventare figli di Dio:
a quelli
che credono nel suo nome,
i quali
non da sangue,né da volere di carne,
né da
volere di uomo,
ma da Dio
sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
Note a margine dell’edizione biblica:
Il termine “parola” “il
verbo”, in greco “lògos” è platonico, è il solo usato per intendere una
“parola” esistente in principio e per la quale tutte le cose sono state fatte.
Prima di Platone il vocabolo “voce” ha avuto lo stesso impiego fra gli indù.
Secondo il lexicon di Esichio Alessandrino, il
significato filosofico del termine “logòs” è “la causa dell’azione” secondo
alcuni è “ la parola di Dio” dell’antico testamento.
Secondo Tolomeo si dovrebbe tradurre che “la
parola” era “uno con Dio” perché la semplice preposizione “presso” non rende il
significato del termine greco.
Nel libro della Genesi leggiamo
che “ la parola è creatrice”
In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la
terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di
Dio aleggiava sulle acque.
Dio disse: “Sia la luce! ”. E la luce
fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò
la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.
Dio disse: “Sia il firmamento in mezzo
alle acque per separare le acque dalle acque”. Dio fece il
firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che
son sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento
cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.
Dio disse: “Le acque che sono sotto il
cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. Dio
chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa
buona.
E Dio disse: “La terra produca
germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra
frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie”. E così avvenne: la terra
produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie
e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio
vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
Dio disse:
“Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte;
servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci
nel firmamento del cielo per illuminare la terra”. E così avvenne: Dio fece le
due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per
regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per
illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle
tenebre. E Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto
giorno………………………………
Proviamo ad introdurre alcune riflessioni:
Secondo la scienza e la cultura del nostro tempo,
l’evoluzione che ha caratterizzato l’homo sapiens e poi l’homo sapiens-sapiens
e lo ha distinto dagli altri esseri viventi è stata “ la parola” cioè la
capacità di comunicare codificando suoni e segni.
Nell’evoluzione dell’umanità questa capacità ha
costituito un salto rivoluzionario verso una nuova dimensione dell’essere
umano. Questo evento ha arricchito l’umanità di consapevolezze nuove e di nuove
capacità creative ed evolutive.
Scrive Edoardo Boncinelli nel suo libro “La scienza non ha bisogno
di Dio”
Interessante sarà scoprire in
futuro come e quando si sviluppò il linguaggio e come e quando arrivò questa
forma superiore di intelligenza strumentale che ci ha permesso la
costruzione di manufatti, dal più semplice al più raffinato.
Dal nostro punto di vista, con la
comparsa dell'uomo, l'evoluzione biologica ha raggiunto il suo apogeo. È un'interpretazione
certamente antropocentrica e quindi ha ben poco di oggettivo, ma è difficile
prescinderne,perché noi siamo la nostra cultura,
sostenuta dalla nostra naturale
propensione a osservare attentamente tutto quello che ci circonda, e
trasformarlo o trascenderlo.
E
adesso? Ovviamente non possiamo sapere a che livelli l'uomo porterà gli esiti
della sua travolgente evoluzione culturale, ma l'argomento ha proprio a che
fare con la possibile interferenza dell'evoluzione culturale della nostra specie
con la sua evoluzione biologica.
Si
parla infatti abbastanza spesso di modificare coscientemente il nostro genoma:
questa impresa, sostenuta e permessa dalla nostra ormai consolidata cultura,
andrebbe a incidere direttamente sulla biologia.
Queste cose che noi apprendiamo oggi attraverso ricerche sui libri e
lo studio delle varie branchie della scienza ( geologia, antropologia,
storia…)per secoli e millenni si sono tramandate attraverso l’ unica narrazione
della parola ,dunque “ la parola “ era “Dio – l’assoluto”: assurse cioè nel
tempo a un valore fondante dell’umanità e dell’intero universo.
Per le culture antiche, compresa quella ebraica, Dio dunque non è un
feticcio ma una dimensione del cammino dell’umanità.
Quando l’evoluzione ha codificato la parola con la scrittura,
l’elemento fondante della comunicazione vitale e creativa rimaneva “il verbo” –
“ la parola”
Mentre presso i miti più antichi l’origine dell’universo viene
raccontata come un’anima creativa che si sprigiona da creature animali , dalle
acque, dal sole….tutto l’universo è partecipe di questo evento creativo della
vita…e l’attuale scienza non contraddice queste intuizioni antiche……(ci spiega
che la prima vita sulla terra si sviluppa nelle acque……e l’ossigeno delle
piante ne permette la continuità……..),nelle culture che si evolvevano , ad un
certo punto prese il sopravvento il concetto di una creazione ed un dio
omocentrico, a immagine e somiglianza dell’homo sapiens.
I tempi dell’evoluzione umana, del suo pensiero e della sua cultura
sono lunghi e complessi, la cultura biblica (occidentale) a cui facciamo
riferimento è la narrazione di un popolo che elabora il “monoteismo” come
messaggio che supera le divisioni per promuovere il proprio cammino di
liberazione e che dà al Dio Unico le sembianze dell’uomo potente e liberatore.
E’ interessante però scoprire come nel costruire
questa nuova identità la narrazione e la cultura biblica mantengano la
complessità, le intuizioni, la memoria di sapienze e consapevolezze del cammino
incessante di ricerca che caratterizza” l’oltre il presente” nel senso della
relazione con il passato e con il futuro.
L’evolversi
della parola creatrice
Troviamo
nell’antico testamento altri concetti fondamentali che si esprimono con parole
creative, una di queste è “Sapienza”.
Dal libro dei PROVERBI
Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività,
prima di ogni
sua opera, fin d’allora.
Dall’eternità
sono stata costituita,
fin dal
principio, dagli inizi della terra.
Quando non
esistevano gli abissi, io fui generata;
quando ancora
non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;
prima che
fossero fissate le basi dei monti,
prima delle
colline, io sono stata generata. ……3
……… allora
io ero con lui come architetto
ed ero la sua
delizia ogni giorno,
dilettandomi
davanti a lui in ogni istante;
dilettandomi
sul globo terrestre,
ponendo
le mie delizie tra i figli dell’uomo.
Proverbi cap.
8
e la prudenza
non fa udir la voce?
In cima alle
alture, lungo la via,
nei crocicchi
delle strade essa si è posta,
presso le
porte, all’ingresso della città,
sulle soglie
degli usci essa esclama:
“A voi,
uomini, io mi rivolgo,
ai figli
dell’uomo è diretta la mia voce.
Imparate,
inesperti, la prudenza
e voi, stolti,
fatevi assennati.
Ascoltate,
perché dirò cose elevate,
dalle mie
labbra usciranno sentenze giuste,
perché la mia
bocca proclama la verità
e abominio per
le mie labbra è l’empietà.
tutte le
parole della mia bocca sono giuste;
niente vi è in
esse di fallace o perverso;
tutte sono
leali per chi le comprende
e rette per
chi possiede la scienza.
Accettate la
mia istruzione e non l’argento,
la scienza anziché l’oro fino,
perché la scienza vale più delle perle
e
nessuna cosa preziosa l’uguaglia”.
La sapienza come scienza, come cammino verso una pienezza di umanità e dunque una
possibile felicità.
Nel tempo l’uomo ha continuato questo cammino
creativo e lo ha spiegato e raccontato con parole nuove. All’entità”
Verbo-parola-dio” si aggiungono le parole Vita – luce – conoscenza – sapienza-scienza,
si aggiungono cioè parole nuove per intrecciare e tradurre parole e
consapevolezze antiche con riflessioni e prassi di nuovi vissuti ed esperienze
creative lungo il cammino dell’umanità.
Possiamo attualizzare queste consapevolezze con
parole dell’oggi?
Possiamo tradurre la parola “sapienza” con”
scienza” “ricerca” “democrazia” “politica”?
La ricerca del senso della vita , della sapienza,
della felicità, non è ancora compiuta.
La creazione non è terminata……..
Esiste una formula della
felicità?
L’ottava edizione del Festival
delle scienze, svoltosi da giovedì
17 a
domenica 20 gennaio 2013 all’Auditorium Parco della Musica di Roma, si
è proposto di andare ad indagare un’idea radicata nella nostra esperienza fin
dall’antichità della storia umana. Che non riguarda solo il singolo individuo:
perché la felicità è anche un problema politico ed economico,
influenza le decisioni, è l’obiettivo di fondo, il sottointeso di ogni azione.
Ma che cos’è davvero questo concetto, che viene sancito come un diritto
in alcune Costituzioni e anche nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati
Uniti?
Per qualcuno è questione di
chimica, un fatto di neuroni. Per altri è l’appagamento di un bisogno,
fisico, biologico. Tensione trascendente, o semplice sinapsi.
Sete di verità o paradiso artificiale: raggiunto con farmaci,
droghe, sesso. Fonte di paradossi, squilibrata, relativa.
La ricerca (scientifica)
della felicità è un viaggio misterioso e appassionante
attraverso le neuroscienze, la psicologia, la religione, l’antropologia, la
sociologia. Che finisce per portarci al centro di noi stessi. Perché se tutta
la nostra esistenza è tesa a massimizzare la totalità del piacere e della
realizzazione personale, la domanda di fondo è: come arrivarci? Per qualcuno è questione
di chimica, un fatto di neuroni. Per altri è l’appagamento di un bisogno,
fisico, biologico. Tensione trascendente, o semplice sinapsi.
Sete di verità o paradiso artificiale: raggiunto con farmaci,
droghe, sesso. Fonte di paradossi, squilibrata, relativa. La ricerca (scientifica)
della felicità è un viaggio misterioso e appassionante
attraverso le neuroscienze, la psicologia, la religione, l’antropologia, la
sociologia. Che finisce per portarci al centro di noi stessi. Perché se tutta
la nostra esistenza è tesa a massimizzare la totalità del piacere e della
realizzazione personale, la domanda di fondo è: come arrivarci?
La
riflessione che proponiamo è nata ripensando al tema affrontato in una precedente nostra assemblea in cui si parlava di felicità e si
citavano alcuni passi della Lettera sulla felicità di Epicuro, un antico autore latino. Riflettendo su quello che era stato detto
allora ci è venuta in mente un’intervista del 1988 al filosofo spagnolo Emilio
Lledò (Siviglia 1927).
L’intervista
fa parte del ' Enciclopedia Multimediale
delle Scienze Filosofiche, una
raccolta di interviste-lezione di filosofi, storici, psicologi, sociologi,
antropologi, fisici, cosmologi, biologi, medici, matematici, economisti,
storici della letteratura e dell'arte, teologi di trentaquattro paesi, prodotta
dalla RAI con la collaborazione dell’Enciclopedia
italiana e dell'Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici, una delle più prestigiose istituzioni
culturali europee istituito e operante a Napoli dal 1975.
In questa intervista Lledò,
trattando di alcuni termini chiave del
mondo filosofico greco, che è assieme ad altri grandi filoni quali quello
della patristica e dell’idealismo tedesco fra ‘700 e ‘800, la base del nostro pensiero filosofico
contemporaneo, spiega come nella polis greca e nel suo modello più innovativo e
importante per la cultura politica dei secoli successivi, quello democratico,
la parola “felicità” fosse strettamente collegata alla parola “politica”, e
come in questa realtà in cui l’uomo diventa cittadino che discute e si
confronta con gli altri per il perseguimento del bene comune, sia fondamentale
“la parola”.
Infatti, secondo una celebre
definizione di Aristotele, l’uomo è “uomo politico” (zoon politikón) che però è anche “uomo dotato di logos”. Da qui
l’importanza della parola e della comunicazione nella sua dimensione
“politica”, ma anche la constatazione che la sovrabbondanza di mezzi di
comunicazione di oggi non corrisponde ad un'effettiva comunicazione. A Emilio Lledò, professore di storia della filosofia all`Universidad Central
di Barcellona, vengono poste domande sul tema della ricerca del bene, sul
concetto di “eudaimonia”, termine approssimativamente traducibile in italiano
con "felicità", ma il cui campo semantico in greco è più ampio. Lledò si sofferma in particolare sulla filosofia di
Aristotele (Stagira, Grecia 384
a .c. – Eubea, Grecia 322 a .c.), il quale nell’Etica
Nicomachea, dopo aver messo in stretto
rapporto il perseguimento del bene con la ricerca della felicità e la virtù,
nel Libro L della stessa opera confuta la
teoria all’origine di questo termine, ovvero che l’uomo non possa intervenire
in alcun modo per conseguire la propria felicità. Dal punto di vista
etimologico, infatti, “eudaimonia” denota una
felicità, un piacere che dipende dalla benevolenza del “daimon”, un dio
misterioso che arbitrariamente dà ad alcuni e ad altri toglie, piuttosto che
l`agire autonomo dell`uomo.
In
un momento in cui nella coscienza collettiva si ha sempre più un’idea della
politica come intrallazzo, malaffare, sopruso, arroganza dei pochi a danno dei
più, e in una società dove anche nelle aree del benessere materiale non si è
affatto felici, l’associazione dei due concetti “ felicità” e “politica”
presenti nella democrazia greca ci sembra molto interessante e utile anche per
l’oggi.
Queste in sintesi le cose che
ci sono sembrate più significative del
ragionamento di Lledò:
- Nel mondo greco antico non esisteva la parola “felicità” (che
infatti noi deriviamo dal latino felicitas, la cui radice "fe-" significa
abbondanza, ricchezza, prosperità).
Questo concetto invece era espresso dalla parola “eudaimonia”, da
“eu = buono/bene” e “daimon = demone”.
L’eudaimonia per i greci era la condizione di benessere individuale
che toccava all’uomo per opera del daimon
che era il mezzo con cui gli dei comunicavano con gli uomini. Quindi l’eudaimonia era una condizione
di felicità che veniva concessa all’uomo dalla divinità e in questo modo
chi era toccato da questo dono sovrumano viveva felice indipendentemente
dagli altri uomini. Ma come poteva raggiungere tale condizione la massa degli individui che non era
visitata e beneficiata dagli dei?
Attraverso il raggiungimento del bene comune, cioè dell’intera
collettività che costituiva la città, e questo lo si poteva raggiungere
solo attraverso la “politica” che per Aristotele e i greci costituiva il
mezzo attraverso il quale i cittadini liberi che vivono nella democrazia
perseguono e curano il bene comune.
- Il presupposto dell’uomo politico è appunto l’uomo parlante e
comunicante: di nuovo il concetto di parola e l’importanza di essa nella
democrazia. L’individuo non può
essere vero cittadino capace di entrare in relazione con gli altri per il
raggiungimento del bene comune senza la parola. Se non si possiede la parola, e quindi
anche le conoscenze e il sapere, dobbiamo affidarci ad altri che
parleranno a nome nostro.
Questo
tema del rapporto parola/comunicazione/potere ci sembra al centro delle
esperienze più significative dei nostri tempi,
da quelle di Danilo Dolci in Sicilia e della scuola di Barbiana di don Milani
alle molteplici esperienze del movimento delle Comunità di base.
Ecco alcuni brani dell’intervista di Emilio Lledò.
«Il
problema è molto interessante, perché in effetti il pensiero greco è
all'origine del pensiero occidentale, e il lessico filosofico dei Greci ha
influito in modo decisivo sullo sviluppo del vocabolario filosofico posteriore.
Tuttavia, questo vocabolario astratto della filosofia ha avuto origine in
momenti determinati e concreti della storia della società greca. Qualsiasi
evoluzione, qualsiasi sviluppo posteriore di questi concetti è sempre stato
influenzato e condizionato dall'origine concreta, e dalla società che li ha
inventati, scoperti e studiati.
Ora, il vocabolario astratto, filosofico dei
Greci era radicato e trovava alimento nei bisogni di una società determinata e
concreta. Per questo motivo credo sia molto importante studiare la terminologia
filosofica dei Greci a partire dal momento in cui tale terminologia costituiva
ancora un linguaggio vivo, ed era diretta espressione dei bisogni concreti di
una società che cercava di instaurare un rapporto concettuale con il mondo, per
dominarlo e renderlo comunicabile. Infatti le parole greche classiche, i
termini chiave della cultura filosofica greca, hanno avuto un'evoluzione nel
corso della quale ci si è dimenticati della loro vera origine, viva e reale.[…]
Effettivamente molti dei concetti moderni sono condizionati da termini
filosofici greci antichi, ma è proprio questo condizionamento che rende così
importante ripensare questi termini, riacquisirli all'interno delle nostre
lingue a partire dalle prospettive della modernità, e vedere se tale
terminologia filosofica pulsa, vive, ha ancora senso in quell'uso quotidiano
così confuso, contraddittorio e problematico che se ne fa all'interno della
nostra società.
Pertanto,
quando si pensa a molti dei termini chiave della cultura filosofica greca, non
bisogna farlo con un approccio archeologico, come se si trattasse di parole che
esprimono esclusivamente concetti relativi a spazi e ambiti culturali lontani.
Occorre invece accostarsi a questi termini come a parole che posseggono, per
così dire, vita linguistica, e che hanno una eco, che possono dialogare con i
bisogni, con i problemi e con i comportamenti della nostra vita e della nostra
contemporaneità».
Il termine greco eudaimonia (felicità).
«Il
termine eudaimonia si potrebbe tradurre, con una certa approssimazione,
con la parola «felicità». Tuttavia il campo semantico di tale termine è molto
più ampio. Esso è molto importante, per varie ragioni. La prima di queste è
legata al fatto che all'inizio dell'Etica Nicomachea di Aristotele,
quello che forse è il primo grande libro sull'etica greca, sulla struttura del
comportamento umano, si dice che la natura stessa degli esseri umani porta
questi a cercare il bene, a cercare ciò che a loro è utile, e che non distrugge
la loro personalità, bensì la arricchisce, e le consente di svilupparsi, di
continuare a vivere, di permanere nell'essere. Da principio dunque, prima di
acquisire un senso filosofico più tecnico, più complesso, la parola «bene» ha
avuto un significato semplice, elementare. All'inizio dell'Etica Nicomachea,
Aristotele, poco dopo aver affermato che il bene è ciò che tutti gli uomini
perseguono, afferma che quando si persegue il bene e ciò che questa parola
indica, si persegue, nello stesso tempo, la felicità, la eudaimonia.
La parola «eudaimonia» è composta da due
termini. Il primo è «eu», che vuol dire bene, buono, in modo buono. L'altro è
«daimon», che significa demonio, o meglio un piccolo dio, un dio particolare.
Il termine non si riferisce dunque alla possibilità dell'essere umano di
conseguire la propria felicità, bensì a ciò che gli dèi possono accordare.
In
un altro luogo dell'Etica Nicomachea Aristotele cita un brano della
tragedia greca in cui si afferma che chi ha un buon «daimon» non ha bisogno di
amici. Sembrerebbe dunque che, in un primo momento, la felicità fosse
considerata come indipendente dalla volontà dell'uomo e legata ad altre forze,
ad altri esseri, misteriosi personaggi che, gratuitamente e liberamente, ad
alcuni concedevano beni, e ad altri li negavano. È chiaro che questa prima idea
di felicità derivava da una concezione, o meglio da un'ideologia, legata alla
constatazione che c'era chi aveva molto e c'era chi aveva poco. Il mondo era
avaro, la vita era povera o, per meglio dire, i beni erano scarsi, e tale
arbitrarietà nella ripartizione dei beni che agevolano la vita dovette
sbigottire certamente i Greci, prima che sorgesse una teoria, una filosofia
della felicità.
Questa idea di «eudaimonia», ha conosciuto
tuttavia un'evoluzione durante il corso della storia della filosofia greca,
fino a divenire qualcosa di conseguibile, dipendente dalle energie e dalle
possibilità umane. Di conseguenza l'eudaimonia, la felicità, ha smesso di
essere uno stato passivo, di esclusivo godimento corporale, e ha cominciato a
essere considerata come un processo, una lotta, una tensione, un percorso, un
progresso verso una struttura di adeguamento dell'io, della persona, del
soggetto, al mondo circostante. Intesa in questo senso, l'eudaimonia può essere
vista come un processo democratico - come è possibile constatare nella storia
della filosofia greca - collegandosi essa con l'evoluzione di una società in
cui ormai non si dipendeva più da quanto gli dèi concedevano arbitrariamente.
L'eudaimonia entra così in rapporto con le
possibilità offerte da una società nella quale tutti gli elementi che la
compongono collaborano a un progetto comune. La felicità dell'individuo, del
soggetto, si trova perciò a essere condizionata e determinata dalla felicità
altrui. La parola eudaimonia è in effetti una parola-chiave perché corrisponde
ai bisogni individuali e collettivi legati a quel «bene comune» che pone gli
uomini in tensione reciproca e che tutti cercano per la propria soddisfazione,
come rapporto con il mondo attraverso il proprio io». […]
Parlando poi del rapporto che sussiste tra le parole «to agathon»/ il bene, e
«eudaimonia»/ la felicità, Lledò interviene sull’uso delle parole .
«Il
termine bene prima di diventare un concetto astratto dell'etica e della teoria
politica indicava qualcosa di utile alla società della quale l'individuo faceva
parte. Il bene era qualcosa che si faceva in rapporto ad altri, e mediante
questo fare, si trasmetteva una certa forma di utilità. All'inizio il bene era
dunque collegato con il sentimento o, per meglio dire, con l'idea di utilità
collettiva, sociale, familiare. I due termini «eudaimonia» e «bene» sono quindi
uniti da una lunga storia, che poi diventerà la storia di due concetti
fondamentali della teoria e della filosofia etica.
Tuttavia occorre ricordare che questi
concetti, così importanti per la mentalità degli uomini, per il loro modo di
capire e di interpretare il mondo, erano radicati nella vita e nei bisogni di
questi. Io ritengo che in un mondo come il nostro, cosi dominato dai mezzi di
informazione - dominio che non possiamo evitare, e che della nostra società è
parte, se non necessaria, quantomeno costitutiva - sia importante che i termini
non si logorino. Poiché li ripetiamo e li utilizziamo tanto, la ricerca della
loro origine, del loro sangue, della loro carne, della loro linfa, potrebbe
costituire un elemento importante per volgerci di nuovo verso noi stessi, per
ricominciare a pensare il nostro linguaggio, ormai lucidato, levigato,
prosciugato e smerigliato. I termini del nostro linguaggio sono infatti così
inamidati che ci scivoliamo sopra e non riusciamo a vedere quel mare profondo,
pulsante di vita, che sta nascosto sotto a essi.
Mi è capitato a volte di pensare che in
molti manuali, in molti libri di filosofia - senza nulla togliere
all'importanza di tali opere - è come se il mare della storia si fosse
cristallizzato. È come se, a causa dell'uso così frequente e così spesso
triviale dei concetti filosofici, il mare della storia si fosse congelato, e
noi vi pattinassimo e scivolassimo sopra, sfruttandolo, umiliandolo;
dimenticando così che questo enorme mare è vivo e pieno di pesci, ovvero è
pieno di problemi attuali, e che è lo stesso mare sulla cui riva stavano i
Greci. Noi stiamo sulla riva opposta, ma il mare è lo stesso, l'acqua è la
stessa, e persino i pesci sono gli stessi».
«L'espressione greca «techne
politiche» indica la politica, la teoria della polis, e la polis era, per i
Greci, uno spazio reale, un luogo, un «topos», una realtà nella quale si viveva
e si esisteva. Ma, oltre a esprimere questo concetto di realtà storica, fisica,
nella quale si abitava, polis significava anche reticolo, indicava cioè un
sistema di relazioni fra gli uomini, una forma di organizzazione della vita
delle persone, degli individui che risiedevano in un determinato territorio.
Non è strano quindi che
Aristotele abbia definito l'uomo in modo così radicale e deciso: animale
politico. Un animale esattamente uguale a tutti gli altri, e che come essi
respira, digerisce, vede, sente. Ma con una differenza essenziale: ovvero deve
vivere insieme ad altri, in comunità. È vero che ci sono altri animali - e
Aristotele lo rammenta nel medesimo contesto della Politica - che vivono in
comunità, ma, sempre secondo Aristotele, il modo di vivere in comunità di
questi animali è un modo gregario, mentre l'uomo non vive gregariamente in una
comunità, ma costruisce un suo sistema di relazioni per rivolgersi agli altri,
per organizzare gerarchicamente o pariteticamente i suoi rapporti con gli
altri.
Per questo è importante
ricordare che Aristotele, nella stessa pagina in cui definisce l'uomo come
animale politico, lo definisce anche come «zoon logon echon)», che
letteralmente significa: «animale dotato di parola», o per meglio dire:
«animale dotato di logos». È singolare che questa definizione aristotelica
dell'uomo abbia dato origine all'altra famosa definizione secondo la quale
«l'uomo è un animale razionale». Non era infatti questo ciò che Aristotele
intendeva. Egli voleva dire soltanto che l'uomo è un essere che parla, che
muove la lingua, e muovendola produce dei suoni semantici che creano comunità,
che creano polis, ovvero uno spazio collettivo. Dunque è interessante osservare
che entrambe le grandi definizioni aristoteliche dell'uomo - animale politico e
animale dotato di logos - sono unite, poiché la politica e il possesso del
logos si necessitano reciprocamente. Non esisterebbe politica, non esisterebbe
reticolo collettivo, uno spazio di intelligenza collettiva, né gli uomini
potrebbero vivere in società, in modo comunitario, se non parlassero o, per
meglio dire, se non comunicassero fra loro. Questo è vero anche in una società
come la nostra.
Io credo che se Aristotele,
o una mente dotata di capacità sintetiche e analitiche come quella di
Aristotele, potesse vivere oggi, rimarrebbe stupito nel rendersi conto di come
l'uomo, oltre a essere un animale politico, un animale che ha bisogno di
strutturarsi e di vivere in modo strutturato, è essenzialmente un animale
dotato di logos, un animale che comunica. Oggi infatti l'affermazione dei mezzi
di comunicazione di massa, costituisce la conferma definitiva del logos
aristotelico».
«[…]La
parola philia» si è evoluta e ha cominciato a indicare un vincolo che univa
persone che non avevano niente in comune dal punto di vista della
consanguineità. Questa evoluzione è
collegata con Lo sviluppo della democrazia che si verificò in Grecia nel V
secolo a.c. con l'avvento della democrazia, del demos, del popolo, con
l'avvento della coscienza che la verità non era più appannaggio esclusivo di
una dominante classe superiore, con l'avvento della coscienza che il linguaggio
non era solo linguaggio del potere e che le parole si potevano discutere e
analizzare, si verificò un mutamento nel concetto di individuo e di
individualità.
Ciò avvenne anche grazie all'impulso dato
dai sofisti, che indubbiamente furono dei rivoluzionari nel senso più creativo
della parola. I sofisti infatti spezzarono lo schema autoritario della parola
del potere, che l'uomo greco ascoltava e assumeva passivamente. Dal momento,
quindi, in cui la verità, la «aletheia», si poté discutere, dal momento in cui
non fu più necessario accettare il discorso del potere e accettare la parola
dell'altro perché gerarchicamente posto al di sopra, dal momento in cui, con i
sofisti e con la discussione nell'agorà, nella società greca si compì questa
rottura, l'uomo non solo scoprì un nuovo concetto di verità, ma, nel contempo,
scoprì la sua intimità, scoprì se stesso, e comprese che il suo io poteva
chiedere al linguaggio che cosa è la virtù».[…]
Qual è il contributo fondamentale che la
sofistica apportò alla cultura greca?
«La
ridicolizzazione dei sofisti da parte di Platone, il quale, nonostante il
rispetto comunque presente nei suoi dialoghi, come nel Protagora e nel Gorgia,
presenta la sofistica come una forma ingannatoria di pensiero , che ribalta le
cose mettendo sopra quel che sta sotto, è una presentazione parziale, una
deformazione. Tuttavia si tratta di una deformazione interessante, perché
consente di vedere la sofistica a partire dalla prospettiva platonica, ovvero,
da una prospettiva aristocratica. Ma, per quel che si può capirne leggendo
Senofonte e Platone, i quali offrono versioni non del tutto coincidenti sulla
sofistica, i sofisti non furono solo dei tecnici, anche se si racconta che
alcuni di loro si fabbricavano le scarpe o i vestiti.
A ogni modo c'è invece un punto sul quale
Senofonte e Platone concordano, ed è quello che riguarda la critica del
linguaggio realizzata dai sofisti, il suo ripensamento costante, la revisione
di concetti già in parte anchilosati, disseccati. Perciò i sofisti sono stati,
nell'ambito della comunicazione intellettuale, dei rivoluzionari.
Certamente il verbo da cui proviene la
parola sofista significa all'incirca «rigirare eccessivamente le cose», e
certamente i sofisti hanno talvolta passato la misura, soprattutto quelli
appartenenti alla seconda sofistica. Ma, ciò nonostante, mi pare che la critica
di Platone ai sofisti sia, in un certo senso, esagerata, e oserei dire anche in
qualche modo ingiusta. Perché pur con tutte le esagerazioni che si possono
attribuire ai sofisti, pur col cattivo uso che possono aver fatto della
revisione dei concetti, a loro dovremo sempre l'aver dinamizzato i concetti,
l'averli fatti fluire, o, come direbbe il poeta Alberti, l'aver «reso l'anima
navigabile», resi navigabili i concetti.
C'è poi un'altra parola-chiave della cultura
greca, paideia (paideia) o educazione, che i sofisti rimisero sul tappeto,
riportarono in piena luce, e sulla quale insistettero. L'uomo è oggetto di
educazione: l'animale che parla, attraverso il linguaggio può arricchirsi,
svilupparsi, crearsi. Ed è chiaro che questa creazione, questo sviluppo, questo
arricchimento, sono connessi al rapporto con gli altri individui che
costituiscono una comunità. Va rilevato che la democrazia funziona o può
funzionare perfettamente, con la massima perfezione possibile, solo quando
esiste educazione, quando esiste paideia. È interessante constatare che il
popolo greco, che ha inventato la democrazia, definì la paideia, l'educazione, come
quel fenomeno parallelo che consente alla democrazia di consolidarsi e di
crescere.
Ritengo che il rapporto fra democrazia e
educazione sia uno dei problemi della società contemporanea. E, pur non volendo
fare il profeta, credo che la democrazia sia condannata al fallimento se non
verrà fecondata con l'educazione, con la paideia. Una democrazia con una
cattiva educazione, una democrazia «deformante», una democrazia dove si coltivi
la menzogna, è una democrazia condannata, senza futuro, nata morta, senza
possibilità di crescita». […]
Napoli, Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici, Palazzo Serra di Cassano, 21 aprile 1988 [L’intervista integrale è consultabile come video nel sito RAI
http://www.filosofia.rai.it/articoli/emilio-lled%C3%B2-leudaimonia/4163/default.aspx mentre il testo è pubblicato nel sito
Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche: http: http://www.emsf.rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=113 ].
Don Lorenzo
Milano e la scuola di Barbiana: l’importanza della Parola . (1956)
«[…] Io son sicuro dunque che
la differenza fra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella
qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è
sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi, è la soglia stessa: la Parola.
I tesori dei vostri figlioli
si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei mei sono murati dentro per
sempre e insteriliti. Ciò che manca ai
miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per
afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima
senza sforzo e senza tradire le infinite ricchezze che la mente racchiude.
Sono otto anni che faccio
scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre
materie non faccio più che lingua e
lingue. Mi richiamo dieci venti volte
per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio
vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un
deformarsi.
Nei primi anni i giovani non
ne vogliono sapere di questo lavoro perché non ne afferrano subito l’utilità
pratica. Poi pian piano assaggiano le prime gioie. La parola è la chiave fatata
che apre ogni porta. L’uno se ne accorge
nell’affrontare il libro del motore per la patente. L’altro fra le righe del
giornale del suo partito. Un terzo s’è buttato sui romanzieri russi e li
intende. Ognuno di loro se ne è accorto poi sulla piazza del paese e nel bar
dove il dottore discute col farmacista a voce alta, pieni boria. Delle loro
parole afferra oggi il valore e ogni sfumatura. S’accorge solo ora che
esprimono un pensiero che non vale poi
tanto quanto pareva ieri, anzi pochino. I più arditi hanno provato anche a
metter bocca. Cominciano a inchiodare il chiacchierone sulle parole che ha
detto.
Parole come personaggi si
chiama una tua rubrica. Ecco, questo è appunto il mio ideale sociale. Quando il
povero saprà dominare le parole come personaggi la tirannia del farmacista, del
comiziante e del fattore sarà spezzata.
Un’utopia? No. E telo spiego
con un esempio: un medico oggi quando parla con un ingegnere o con un avvocato
discute da pari a pari. Ma questo non
perché ne sappia quanto loro di ingegneria o di diritto. Parla da pari a
pari perché ha in comune con loro il dominio sulla parola.
Ebbene, a questa parità si
può portare l’operaio e il contadino senza che la società vada a rotoli. Ci
sarà sempre l’operaio e l’ingegnere, non c’è rimedio. Ma questo non importa
affatto che si perpetui l’ingiustizia di oggi per cui l’ingegnere debba essere
più uomo dell’operaio (chiamo uomo chi è padrone della sua lingua). Questo non fa parte delle necessità
professionali, ma delle necessità di vita d’ogni uomo dal primo all’ultimo che
si vuol dire uomo».
(Da Giovani di
montagna e giovani di città, lettera
inviata al Direttore del “Giornale del Mattino” del 28 maggio 1956, in Don Lorenzo
Milani, L’obbedienza non è più una virtù
e gli altri scritti pubblici, ac. Di C. Galeotti, Roma, Stampa alternativa,
2002, pp.98-100.
Eucarestia – Lettura
comunitaria
La fede su cui si fonda il
nostro vivere,
sia essa fede religiosa o fede laica,
è spinta a rinnovarsi di
continuo
dalle vicende gioiose o
tragiche della vita e della storia.
E’ tenendoci per mano che
riusciamo a dare alla vita
un senso sempre nuovo e al
tempo stesso antico,
ricco di tutta la sapienza
del cammino umano nei secoli.
Amiamo pensare e credere che
la sapienza
è la forza stessa animatrice
dell’universo.
E’ la forza che dall'intimo ci spinge a riconoscere questo filo
che ci unisce alle donne e agli uomini
di tutti i tempi,
è l'ansia e l'utopia e la ricerca di un mondo
in cui non esistano più gerarchie,
dove le ultime e gli ultimi siano le
prime e i primi,
dove possiamo vivere
liberamente la differenza
ed arricchirci delle
differenze.
Essa ci precede e ci attende.
Essa è la fonte che ha animato la
testimonianza di Gesù.
Il quale, la sera prima di essere
ucciso,
durante la cena pasquale con i suoi,
prese del pane, lo spezzò e lo distribuì
loro dicendo:
"Prendete e mangiatene tutti,
questo è il mio corpo che è dato per
voi".
Poi prese il calice del vino, lo diede
ai suoi discepoli
e disse: "Prendete e bevetene
tutti,
questo è il calice del mio sangue
versato per voi e per tutti:fate questo
in memoria di me".
Sapienza, condivisione, partecipazione,
gioia,
sono oggi le parole che accompagnano la
nostra Comunità
la quale, insieme a tutte le donne e gli
uomini di buona volontà,
cerca di dare alla vita un senso sempre rinnovato
senza perdere una goccia di
tutta la sapienza
del cammino umano nei
secoli,compresa la sapienza ,
Emilio Lledó
Origine dei concetti
di felicità e di uomo politico
21/4/1988
|
Abstract
Il Professor
Lledo' prende in considerazione i termini chiave del mondo filosofico greco
mettendoli in relazione ai temi e ai problemi dell'epoca in cui sono
nati.
In primo luogo egli analizza il termine eudamonia e agathón, si sofferma poi sulla nascita della politica, di una teoria della polis, e dell'uomo, definito come "animale dotato di logos", in quanto "uomo politico"(zoon politikón) . Lledo' conclude constatando che la sovrabbondanza di mezzi di comunicazione di oggi non corrisponde ad un'effettiva comunicazione.
In primo luogo egli analizza il termine eudamonia e agathón, si sofferma poi sulla nascita della politica, di una teoria della polis, e dell'uomo, definito come "animale dotato di logos", in quanto "uomo politico"(zoon politikón) . Lledo' conclude constatando che la sovrabbondanza di mezzi di comunicazione di oggi non corrisponde ad un'effettiva comunicazione.
1. Professor Lledó, ritiene sia necessario, per meglio comprendere la
filosofia in generale, e la filosofia dell'antica Grecia in particolare,
studiare in maniera approfondita la terminologia filosofica greca antica?
Il problema
è molto interessante, perché in effetti il pensiero greco è all'origine del
pensiero occidentale, e il lessico filosofico dei Greci ha influito in modo
decisivo sullo sviluppo del vocabolario filosofico posteriore. Tuttavia, questo
vocabolario astratto della filosofia ha avuto origine in momenti determinati e
concreti della storia della società greca. Qualsiasi evoluzione, qualsiasi
sviluppo posteriore di questi concetti è sempre stato influenzato e
condizionato dall'origine concreta, e dalla società che li ha inventati,
scoperti e studiati.
Ora, il
vocabolario astratto, filosofico dei Greci era radicato e trovava alimento nei
bisogni di una società determinata e concreta. Per questo motivo credo sia
molto importante studiare la terminologia filosofica dei Greci a partire dal
momento in cui tale terminologia costituiva ancora un linguaggio vivo, ed era
diretta espressione dei bisogni concreti di una società che cercava di
instaurare un rapporto concettuale con il mondo, per dominarlo e renderlo
comunicabile. Infatti le parole greche classiche, i termini chiave della
cultura filosofica greca, hanno avuto un'evoluzione nel corso della quale ci si
è dimenticati della loro vera origine, viva e reale.
2. Quando si parla della lingua greca antica ci si riferisce a essa come a
una lingua morta. Ma non è vero forse che gran parte, non solo delle parole, ma
anche dei concetti delle lingue moderne, è fortemente condizionata dai concetti
e dai termini della lingua greca?
Effettivamente
molti dei concetti moderni sono condizionati da termini filosofici Greci
antichi, ma è proprio questo condizionamento che rende così importante
ripensare questi termini, riacquisirli all'interno delle nostre lingue a
partire dalle prospettive della modernità, e vedere se tale terminologia
filosofica pulsa, vive, ha ancora senso in quell'uso quotidiano così confuso,
contraddittorio e problematico che se ne fa all'interno della nostra società.
Pertanto,
quando si pensa a molti dei termini chiave della cultura filosofica greca, non
bisogna farlo con un approccio archeologico, come se si trattasse di parole che
esprimono esclusivamente concetti relativi a spazi e ambiti culturali lontani.
Occorre invece accostarsi a questi termini come a parole che posseggono, per
così dire, vita linguistica, e che hanno una eco, che possono dialogare con i
bisogni, con i problemi e con i comportamenti della nostra vita e della nostra
contemporaneità.
Il termine eudaimonia
si potrebbe tradurre, con una certa approssimazione, con la parola «felicità».
Tuttavia il campo semantico di tale termine è molto più ampio. Esso è molto
importante, per varie ragioni. La prima di queste è legata al fatto che
all'inizio dell'Etica Nicomachea di Aristotele, quello che forse è il
primo grande libro sull'etica greca, sulla struttura del comportamento umano,
si dice che la natura stessa degli esseri umani porta questi a cercare il bene,
a cercare ciò che a loro è utile, e che non distrugge la loro personalità,
bensì la arricchisce, e le consente di svilupparsi, di continuare a vivere, di
permanere nell'essere. Da principio dunque, prima di acquisire un senso
filosofo più tecnico, più complesso, la parola «bene» ha avuto un significato
semplice, elementare. All'inizio dell'Etica Nicomachea, Aristotele, poco
dopo aver affermato che il bene è ciò che tutti gli uomini perseguono, afferma
che quando si persegue il bene e ciò che questa parola indica, si persegue,
nello stesso tempo, la felicità, la eudaimonia.
La parola
«eudaimonia» è composta da due termini. Il primo è «eu», che vuol dire bene,
buono, in modo buono. L'altro è «daimon», che significa demonio, o meglio un
piccolo dio, un dio particolare. Il termine non si riferisce dunque alla
possibilità dell'essere umano di conseguire la propria felicità, bensì a ciò
che gli dèi possono accordare.
In un altro
luogo dell'Etica Nicomachea Aristotele cita un brano della tragedia
greca in cui si afferma che chi ha un buon «daimon» non ha bisogno di amici.
Sembrerebbe dunque che, in un primo momento, la felicità fosse considerata come
indipendente dalla volontà dell'uomo e legata ad altre forze, ad altri esseri,
misteriosi personaggi che, gratuitamente e liberamente, ad alcuni concedevano
beni, e ad altri li negavano. È chiaro che questa prima idea di felicità
derivava da una concezione, o meglio da un'ideologia, legata alla constatazione
che c'era chi aveva molto e c'era chi aveva poco. Il mondo era avaro, la vita
era povera o, per meglio dire, i beni erano scarsi, e tale arbitrarietà nella
ripartizione dei beni che agevolano la vita dovette sbigottire certamente i
Greci, prima che sorgesse una teoria, una filosofia della felicità.
Questa idea
di «eudaimonia», ha conosciuto tuttavia un'evoluzione durante il corso della
storia della filosofia greca, fino a divenire qualcosa di conseguibile,
dipendente dalle energie e dalle possibilità umane. Di conseguenza
l'eudaimonia, la felicità, ha smesso di essere uno stato passivo, di esclusivo
godimento corporale, e ha cominciato a essere considerata come un processo, una
lotta, una tensione, un percorso, un progresso verso una struttura di
adeguamento dell'io, della persona, del soggetto, al mondo circostante. Intesa
in questo senso, l'eudaimonia può essere vista come un processo democratico -
come è possibile constatare nella storia della filosofia greca - collegandosi
essa con l'evoluzione di una società in cui ormai non si dipendeva più da
quanto gli dèi concedevano arbitrariamente.
L'eudaimonia
entra così in rapporto con le possibilità offerte da una società nella quale
tutti gli elementi che la compongono collaborano a un progetto comune. La
felicità dell'individuo, del soggetto, si trova perciò a essere condizionata e
determinata dalla felicità altrui. La parola eudaimonia è in effetti una
parola-chiave perché corrisponde ai bisogni individuali e collettivi legati a
quel «bene comune» che pone gli uomini in tensione reciproca e che tutti
cercano per la propria soddisfazione, come rapporto con il mondo attraverso il
proprio io.
4. Che rapporto sussiste la parola «to agathon», il bene, e
l'«eudaimonia», la felicità? Oggi vengono ancora usati in maniera corretta?
Il termine
bene prima di diventare un concetto astratto dell'etica e della teoria politica
indicava qualcosa di utile alla società della quale l'individuo faceva parte.
Il bene era qualcosa che si faceva in rapporto ad altri, e mediante questo
fare, si trasmetteva una certa forma di utilità. All'inizio il bene era dunque
collegato con il sentimento o, per meglio dire, con l'idea di utilità
collettiva, sociale, familiare. I due termini «eudaimonia» e «bene» sono quindi
uniti da una lunga storia, che poi diventerà la storia di due concetti
fondamentali della teoria e della filosofia etica.
Tuttavia
occorre ricordare che questi concetti, così importanti per la mentalità degli
uomini, per il loro modo di capire e di interpretare il mondo, erano radicati
nella vita e nei bisogni di questi. Io ritengo che in un mondo come il nostro,
cosi dominato dai mezzi di informazione - dominio che non possiamo evitare, e
che della nostra società è parte, se non necessaria, quantomeno costitutiva -
sia importante che i termini non si logorino. Poiché li ripetiamo e li
utilizziamo tanto, la ricerca della loro origine, del loro sangue, della loro
carne, della loro linfa, potrebbe costituire un elemento importante per
volgerci di nuovo verso noi stessi, per ricominciare a pensare il nostro
linguaggio, ormai lucidato, levigato, prosciugato e smerigliato. I termini del
nostro linguaggio sono infatti così inamidati che ci scivoliamo sopra e non
riusciamo a vedere quel mare profondo, pulsante di vita, che sta nascosto sotto
a essi.
Mi è
capitato a volte di pensare che in molti manuali, in molti libri di filosofia -
senza nulla togliere all'importanza di tali opere - è come se il mare della
storia si fosse cristallizzato. È come se, a causa dell'uso così frequente e
così spesso triviale dei concetti filosofici, il mare della storia si fosse congelato,
e noi vi pattinassimo e scivolassimo sopra, sfruttandolo, umiliandolo;
dimenticando così che questo enorme mare è vivo e pieno di pesci, ovvero è
pieno di problemi attuali, e che è lo stesso mare sulla cui riva stavano i
Greci. Noi stiamo sulla riva opposta, ma il mare è lo stesso, l'acqua è la
stessa, e persino i pesci sono gli stessi.
L'espressione
greca «techne politiche» indica la politica, la teoria della polis, e la polis
era, per i Greci, uno spazio reale, un luogo, un «topos», una realtà nella
quale si viveva e si esisteva. Ma, oltre a esprimere questo concetto di realtà
storica, fisica, nella quale si abitava, polis significava anche reticolo,
indicava cioè un sistema di relazioni fra gli uomini, una forma di
organizzazione della vita delle persone, degli individui che risiedevano in un
determinato territorio.
Non è strano
quindi che Aristotele abbia definito l'uomo in modo così radicale e deciso:
animale politico. Un animale esattamente uguale a tutti gli altri, e che come
essi respira, digerisce, vede, sente. Ma con una differenza essenziale: ovvero
deve vivere insieme ad altri, in comunità. È vero che ci sono altri animali - e
Aristotele lo rammenta nel medesimo contesto della Politica - che vivono in
comunità, ma, sempre secondo Aristotele, il modo di vivere in comunità di
questi animali è un modo gregario, mentre l'uomo non vive gregariamente in una
comunità, ma costruisce un suo sistema di relazioni per rivolgersi agli altri,
per organizzare gerarchicamente o pariteticamente i suoi rapporti con gli
altri.
Per questo è
importante ricordare che Aristotele, nella stessa pagina in cui definisce
l'uomo come animale politico, lo definisce anche come zwon logon ecwn (zoon logon
echon), che letteralmente significa: «animale dotato di parola», o per meglio
dire: «animale dotato di logos». È singolare che questa definizione
aristotelica dell'uomo abbia dato origine all'altra famosa definizione secondo
la quale «l'uomo è un animale razionale». Non era infatti questo ciò che
Aristotele intendeva. Egli voleva dire soltanto che l'uomo è un essere che
parla, che muove la lingua, e muovendola produce dei suoni semantici che creano
comunità, che creano polis, ovvero uno spazio collettivo. Dunque è interessante
osservare che entrambe le grandi definizioni aristoteliche dell'uomo - animale
politico e animale dotato di logos - sono unite, poiché la politica e il
possesso del logos si necessitano reciprocamente. Non esisterebbe politica, non
esisterebbe reticolo collettivo, uno spazio di intelligenza collettiva, né gli
uomini potrebbero vivere in società, in modo comunitario, se non parlassero o,
per meglio dire, se non comunicassero fra loro. Questo è vero anche in una
società come la nostra.
Io credo che
se Aristotele, o una mente dotata di capacità sintetiche e analitiche come
quella di Aristotele, potesse vivere oggi, rimarrebbe stupito nel rendersi
conto di come l'uomo, oltre a essere un animale politico, un animale che ha
bisogno di strutturarsi e di vivere in modo strutturato, è essenzialmente un
animale dotato di logos, un animale che comunica. Oggi infatti l'affermazione
dei mezzi di comunicazione di massa, costituisce la conferma definitiva del
logos aristotelico.
6. Non c'è il rischio che lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa
impoveriscano il linguaggio?
Mai come
oggi l'uomo ha avuto tanti mezzi di comunicazione, e tante possibilità per
essere in contatto con gli altri. Ma nonostante l'immensa quantità dei mezzi e
delle possibilità di comunicazione, l'uomo è più solitario, più indifeso, più
scoraggiato e disperato che mai. Ritengo che i filosofi, e in generale ogni
persona cosciente dello stato attuale del mondo dovrebbero affrontare questo
problema così importante, doloroso e difficile. In quanto la povertà di ciò che
viene comunicato, la mancanza di riflessione su ciò che viene comunicato,
rischia di modificare la vita mentale degli uomini, e condizionare i rapporti
umani.
La
filosofia, infatti, ha sempre rappresentato una coscienza critica all'interno
della storia, una riflessione sulla vita, sui problemi concreti degli uomini.
In ogni epoca, il pensiero filosofico è sorto dal rapporto dell'uomo con il suo
mondo, e non c'è nulla di più sbagliato dell'idea che il filosofo sia un
personaggio immerso in un mondo di idee che nessuno comprende, un mondo di
problemi che non interessano a nessuno. Qualsiasi pensiero filosofico,
qualsiasi questione filosofica è sorta in rapporto con il reale, con gli
uomini.
Molti sono
gli esempi che potremmo riportare di filosofi che si sono posti come coscienza
critica del loro tempo. Basti pensare a quel famoso testo di Epicuro, dove si
legge che sarebbe cattiva la filosofia che non servisse per curare alcune
malattie degli uomini. È chiaro che oggi le malattie degli uomini si curano con
la medicina e non con la filosofia. Ma la scienza dovrebbe basarsi su un
sostrato che, in qualche modo, si pone i problemi filosofici dell'umanesimo. È
vero che la parola «umanesimo» è molto decaduta e corrotta. Ma l'ideale
dell'umanesimo, oggi più che mai, andrebbe resuscitato. Ovviamente sapendo
riconoscere un utilizzo della parola «umanesimo» teso a trasmettere qualcosa di
ingannevole, o a dissimulare i veri problemi, o a offrire una sorta di lenitivo
per attenuare i problemi fondamentali del nostro tempo.
7. La polis greca, intesa come relazione fondamentale fra gli uomini che
vivono in comunità, al di là della famiglia e dei legami della vita contadina,
non ha forse favorito la nascita di una terminologia politica in uso ancora
oggi?
La polis ha
certamente avuto una storia determinata, condizionata dall'evoluzione stessa
della società greca; non è un caso che la struttura della polis, quale
organismo al cui interno gli uomini potessero convivere, è qualcosa di molto
diverso dalle strutture collettive all'interno delle quali altre culture, altre
civiltà, hanno vissuto. I Greci, poi, hanno creato il vocabolario politico.
Infatti, sia nella Repubblica di Platone, sia nella Politica di
Aristotele, si parla sia di regimi politici, sia del modo in cui, dentro la
polis, era possibile raggiungere la felicità e il bene dell'uomo. Per questo i
Greci hanno espresso in termini specifici le forme di organizzazione della vita
all'interno della polis, creando parole come aristocrazia, democrazia,
oligarchia, timocrazia, tirannia. Questi termini, corrispondevano a modelli
secondo i quali si viveva e si organizzava la città, della quale entravano a
far parte classi diverse, interessi diversi, tensioni diverse, ricchezze diverse,
livelli di cultura diversi.
È molto
interessante, poi, che queste parole costituiscono il vocabolario più vivo e
più reale della cultura politica contemporanea. Aristocrazia, oligarchia,
tirannia non sono termini pertinenti esclusivamente all'archeologia della
storia greca. Oggi infatti esistono tirannie, oligarchie, aristocrazie,
democrazie, demagogie, anche se non certo uguali a quelle dei Greci.
Tuttavia
attraverso i mezzi di comunicazione di massa, con la finzione, la menzogna, col
non ricercare la verità, è possibile creare false democrazie, false
aristocrazie, false oligarchie e false tirannie. Infatti, una delle cose più
interessanti della cultura greca, e che dai Greci abbiamo avuto in eredità, è
l'idea di «bene apparente», che Aristotele analizza concretamente nell'Etica
Nicomachea e in altre sue pagine. Si tratta della scoperta che, insieme al
perseguimento del bene in quanto tale, è possibile perseguire un bene
apparente, un bene che può non essere altro che una proiezione dei nostri
desideri, dei nostri interessi.
Naturalmente
l'idea di «bene apparente» - (phainomenon agathon), il bene fenomenico-
aveva un ulteriore aspetto filosofico che concerneva quello spazio esistente
fra l'idea del bene, e la soggettività e il mondo storico nel quale questo bene
apparente si situava.
8.
Nel mondo contadino arcaico la tribù, la famiglia, era la struttura
fondamentale della società. In questa dimensione era difficile che si
sviluppasse un concetto di individualità, che l'uomo si sentisse diverso dagli
altri e, contemporaneamente, insieme agli altri. Non è dunque con la polis che
si creano le premesse per lo sviluppi dell'io, dell'individualità?
Per i Greci,
come probabilmente per molte altre culture, il clan familiare, il vincolo di
sangue, è stato il primo fattore di legame; in altre parole, gli uomini si sono
sentiti parte di uno spazio collettivo a partire dal clan familiare. A questo
proposito è interessante rilevare che le parole greche «philos» e
«philia» - amico e amicizia - in origine erano legate alla consanguineità. La
parola «philia» nei primi testi dove appare, indicava infatti il vincolo che
univa coloro che avevano lo stesso sangue, che avevano gli stessi progenitori,
e che, dunque, appartenevano allo stesso clan familiare.
Successivamente
la parola «philia» si è evoluta e ha cominciato a indicare un vincolo che univa
persone che non avevano niente in comune dal punto di vista della
consanguineità. Questa evoluzione è collegata con lo sviluppo della democrazia
che si verificò in Grecia nel V secolo a.C.. Con l'avvento della democrazia,
del demos, del popolo, con l'avvento della coscienza che la verità non era più
appannaggio esclusivo di una dominante classe superiore; con l'avvento della
coscienza che il linguaggio non era solo linguaggio del potere, e che le parole
si potevano discutere e analizzare, si verificò un mutamento nel concetto di
individuo e di individualità.
Ciò avvenne
anche grazie all'impulso dato dai sofisti, che indubbiamente furono dei
rivoluzionari nel senso più creativo della parola. I sofisti infatti spezzarono
lo schema autoritario della parola del potere, che l'uomo greco ascoltava e
assumeva passivamente. Dal momento, quindi, in cui la verità, la «aletheia», si
poté discutere, dal momento in cui non fu più necessario accettare il discorso
del potere e accettare la parola dell'altro perché gerarchicamente posto al di
sopra; dal momento in cui, con i sofisti e con la discussione nell'agorà, nella
società greca si compì questa rottura, l'uomo non solo scoprì un nuovo concetto
di verità, ma, nel contempo, scoprì la sua intimità, scoprì se stesso, e
comprese che il suo io poteva chiedere al linguaggio che cosa è la virtù.
9. Il fatto che Platone scrivesse dialoghi, non potrebbe essere un sintomo
della scoperta delle diverse soggettività?
Nei suoi
primi dialoghi, Platone, dando spazio ai problemi della sofistica, fece in modo
che la gente parlasse, dialogasse così che la sua opera filosofica è un'opera
dialogica. In realtà, i dialoghi di Platone sono stati il primo grande blocco
della cultura filosofica. Prima di lui, infatti, ci sono stati i filosofi
presocratici, le cui opere, i cui ipotetici scritti, non sono giunti fino a
noi, se non in frammenti. Pertanto il primo grande blocco di opere filosofiche,
la prima grande voce che, quantitativamente, si è espressa con abbondanza, è la
voce platonica.
Tuttavia la
voce platonica è una voce spezzata, incrinata da quella di centinaia di
interlocutori dei dialoghi, che propongono la loro verità, che manifestano le
loro idee, le loro prospettive, i loro punti di vista rispetto alla realtà.
Platone dunque scrivendo dialoghi, espose un logos spezzato, e, in fondo,
questo rappresentava anche la scoperta della soggettività, la scoperta
dell'individualità.
Mai la
filosofia è tornata a esprimersi in questo modo. È ben vero che Galileo ha
scritto dei dialoghi, e che gli empiristi inglesi hanno espresso le loro idee
in forma di dialogo, ma si tratta di un altro tipo di dialogo, dove
l'interlocutore si produce in un lungo, immenso monologo. I dialoghi di Platone
invece, soprattutto quelli della prima fase e della maturità, hanno altre
caratteristiche: i personaggi che parlano sono individui, non meri nomi,
etichette, che sciorinano un discorso tecnico, scientifico o ideologico,
interessante ma monologico. I protagonisti dei dialoghi platonici, invece, in
un incrociarsi di sistemi, o meglio di prospettive, di passioni, di interessi,
esprimono la loro concreta e singolare individualità.
Ciò
costituisce qualcosa di molto importante, soprattutto se si pensa al mondo
contemporaneo. Infatti riflettendo sui dialoghi platonici - su quel dialogo
continuo, quella ripartizione dei concetti a varie voci - si scopre la
necessità di non assumere ciò che proviene dall'esterno passivamente, ma di
rimetterlo in questione, discuterlo e offrirlo all'altro affinché manifesti il
suo assenso o il suo dissenso, attraverso un logos che è vita, un logos che è
«dia-logo», un logos che circola, che non ristagna negli angusti spazi del
potere, dei mezzi che controllano, distribuiscono e amministrano il linguaggio.
L'uomo è un
animale che parla, che si esprime, che ha bisogno di pronunciare la sua
lezione, di cantare la sua canzone, o, in altre parole, è un animale che ha bisogno
di manifestare il suo essere all'altro. Ma oltre al legame fra gli uomini
rappresentato dal logos, esiste una forma di legame non ascrivibile al mondo
astratto dei significati, e che si riferisce invece all'affettività. L'uomo è
un essere che si apre agli altri, che ama, secondo una necessità naturale. Tale
necessità è riscontrabile già nel rapporto madre-figlio, dove la madre ama il
figlio, si dedica a lui, e il figlio, per ragioni magari diverse, è aperto nei
confronti della madre.
Questa
apertura verso gli altri, questo uscire da sé, i Greci lo definirono con il
termine «philia». L'uomo, infatti, non può stare rinchiuso in se stesso, non è
assolutamente un monticolo di solitudine, in quanto è un essere naturalmente
aperto. E il vincolo corrispondente a questa natura aperta è un vincolo
affettivo, un vincolo di amore per l'altro, che porta a voler realizzare il
proprio essere riconoscendosi nell'altro e volendo che l'altro ci riconosca.
Ma,
indipendentemente da queste, che potrebbero sembrare elucubrazioni psicologiche
o metafisiche, in effetti, è singolare che la parola filosofia sia composta da
due termini:«philia», e «sophia». Ma non è del tutto esatto tradurre sophia con
la parola sapienza, tradurre philia con la parola amore, e quindi il termine filosofia
come «amore per la sapienza». Questo perché philia non significa soltanto
amore, né sophia soltanto sapienza. Filia significa tendenza, proiezione,
relazione, e anche possibilità che gli altri, che sono oggetto della nostra
ricerca, rispondano agli interrogativi che poniamo loro. E sophia significa per
i Greci il saper fare qualcosa, avere contatto con il mondo.
Il «sophos
»era colui che sapeva fare qualcosa: una nave, una lira, un'anfora. La sapienza
non è infatti nata come speculazione astratta: all'inizio i sapienti non erano
soltanto coloro che sapevano pronunciare un discorso sulla vita e che potevano
orientare l'uomo in essa. I sapienti, «oi sophoi», erano in primo luogo «coloro
che sapevano», i tecnici: quelli che sapevano fare qualcosa con le mani. E come
avrebbe potuto fin dal principio la parola sapienza significare una cosa
astratta? La prima cosa che gli uomini fecero fu manipolare il mondo, toccarlo
con le mani, trasformarlo. E dunque, prima del sophos inteso come colui che ha
la sapienza, c'era il sapiente inteso come colui che sapeva modificare il
mondo.
Di
conseguenza nella parola filosofia è senza dubbio presente l'aspirazione a un
sapere che interpreti il reale. Ma tale termine - che appare per la prima volta
in un famoso frammento di Eraclito, dove si dice che gli uomini filosofi è
opportuno sappiano molte cose, che siano al corrente di molte cose, che siano
«istores»-, all'inizio, indicava il rapporto di conoscenza, di interpretazione
e di valutazione dell'uomo nei confronti delle cose. Vale a dire, l'apertura
dell'uomo verso le cose per utilizzarle e in qualche modo dominarle.
Naturalmente la parola filosofia ha avuto una sua evoluzione, ma, a mio parere,
ciò che la caratterizza è legato a questo significato primario di tendenza e di
apertura verso la conoscenza, di ricerca della conoscenza.
La
ridicolizzazione dei sofisti da parte di Platone, il quale, nonostante il
rispetto comunque presente nei suoi dialoghi, come nel Protagora e nel Gorgia,
presenta la sofistica come una forma di pensiero ingannatoria, che ribalta le
cose mettendo sopra quel che sta sotto, è una presentazione parziale, una
deformazione. Tuttavia si tratta di una deformazione interessante, perché
consente di vedere la sofistica a partire dalla prospettiva platonica, ovvero,
da una prospettiva aristocratica. Ma, per quel che si può capirne leggendo
Senofonte e Platone, i quali offrono versioni non del tutto coincidenti sulla
sofistica, i sofisti non furono solo dei tecnici, anche se si racconta che
alcuni di loro si fabbricavano le scarpe o i vestiti.
A ogni modo
c'è invece un punto sul quale Senofonte e Platone concordano, ed è quello che
riguarda la critica del linguaggio realizzata dai sofisti, il suo ripensamento
costante, la revisione di concetti già in parte anchilosati, disseccati. Perciò
i sofisti sono stati, nell'ambito della comunicazione intellettuale, dei
rivoluzionari.
Certamente
il verbo da cui proviene la parola sofista significa all'incirca «rigirare
eccessivamente le cose», e certamente i sofisti hanno talvolta passato la
misura, soprattutto quelli appartenenti alla seconda sofistica. Ma,
ciononostante, mi pare che la critica di Platone ai sofisti sia, in un certo senso,
esagerata, e oserei dire anche in qualche modo ingiusta. Perché pur con tutte
le esagerazioni che si possono attribuire ai sofisti, pur col cattivo uso che
possono aver fatto della revisione dei concetti, a loro dovremo sempre l'aver
dinamizzato i concetti, l'averli fatti fluire, o, come direbbe il poeta
Alberti, l'aver «reso l'anima navigabile», resi navigabili i concetti.
C'è poi
un'altra parola-chiave della cultura greca, paideia (paideia) o educazione, che
i sofisti rimisero sul tappeto, riportarono in piena luce, e sulla quale
insistettero. L'uomo è oggetto di educazione: l'animale che parla, attraverso
il linguaggio può arricchirsi, svilupparsi, crearsi. Ed è chiaro che questa
creazione, questo sviluppo, questo arricchimento, sono connessi al rapporto con
gli altri individui che costituiscono una comunità. Va rilevato che la
democrazia funziona o può funzionare perfettamente, con la massima perfezione
possibile, solo quando esiste educazione, quando esiste paideia. È interessante
constatare che il popolo greco, che ha inventato la democrazia, definì la
paideia, l'educazione, come quel fenomeno parallelo che consente alla
democrazia di consolidarsi e di crescere.
Ritengo che
il rapporto fra democrazia e educazione sia uno dei problemi della società contemporanea.
E, pur non volendo fare il profeta, credo che la democrazia sia condannata al
fallimento se non verrà fecondata con l'educazione, con la paideia. Una
democrazia con una cattiva educazione, una democrazia «deformante», una
democrazia dove si coltivi la menzogna, è una democrazia condannata, senza
futuro, nata morta, senza possibilità di crescita.
12. In Italia il ministero che presiede alla scuola si chiama Ministero
della Pubblica Istruzione. La parola educazione è stata eliminata, anche formalmente,
dal rapporto con la scuola, e quindi con la formazione sociale e culturale del
cittadino. Non ritiene che sia pericoloso per la democrazia quando che
l'educazione venga ridotta al semplice rango di istruzione e di informazione?
Io credo che
nel mondo dell'informazione, nel mondo dell'informatica che oggi ci domina,
sussista il pericolo di trasformare il sapere, la conoscenza, in mera
informazione. Eppure, ciò che caratterizza l'uomo non è tanto il sapere, la
quantità di informazioni di cui può disporre - a questo scopo esistono già,
appunto, i cervelli elettronici, i computer - quanto la capacità di pensare, di
rinnovare il suo sapere, di rivederlo, di ricrearlo. E in una cultura come la
nostra, trasformare l'educazione in istruzione significa trasformare gli
individui in monticoli, in piccoli nuclei di piccoli saperi assolutamente
parziali, senza collegamento con gli altri saperi, con i saperi della realtà
totale.
Se
continuiamo così, temo che la parola educazione si cristallizzi, si solidifichi
e diventi priva di ogni significato. Perciò credo sia importante coltivare il
pensiero. E nell'educazione oggi, nel rapporto fra i professori e gli studenti,
nell'organizzazione della scuola, e anche nel mondo dell'informatica e in
quello dell'informazione, va stimolato come non mai, guardando al futuro, il
pensiero: il pensiero libero, il pensiero che crea, il rinnovamento
intellettuale. Altrimenti credo che saremo condannati a un inaridimento, a un
esaurimento del nostro orizzonte di possibilità.
Per questo oggi
la filosofia, nonostante i molti problemi che il pensiero filosofico soffre nel
mondo contemporaneo, deve porsi questi problemi e definire un orizzonte verso
il quale proiettarli: l'orizzonte «umanista». Non mi vergogno a usare questa
parola tanto deteriorata, in quanto è una parola che discende dalla miglior
tradizione filosofica greca, da quella tradizione che faceva dire ad Aristotele
che non gli interessava tanto sapere che cos'è la bontà, ma gli interessava che
gli uomini fossero buoni, ossia che si creassero delle istituzioni, degli spazi
pubblici dove la bontà, lo sviluppo dell'individuo, fossero possibili e
realizzabili.
Napoli,
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Palazzo Serra di Cassano, 21 aprile
1988
mentre il
testo è pubblicato nel sito dell’Eciclopedia multimediale delle Scienze
Filosofiche http: http://www.emsf.rai.it/aforismi/aforismi.asp?d=113 ]
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