Promemoria per i porporati riuniti in questi giorni nella Cappella di Michelangelo.
( Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso,
mentre che ’l danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir m’è gran ventura;
però non mi destar, deh, parla basso).
Una testimonianza fra le più significative è stata quella di 500 Vescovi, alla fine del Concilio, che, con la loro presa di posizione, indicano qual è la strada da seguire per un vero rinnovamento della Chiesa; un documento sconosciuto ai più.
( Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso,
mentre che ’l danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir m’è gran ventura;
però non mi destar, deh, parla basso).
Una testimonianza fra le più significative è stata quella di 500 Vescovi, alla fine del Concilio, che, con la loro presa di posizione, indicano qual è la strada da seguire per un vero rinnovamento della Chiesa; un documento sconosciuto ai più.
E’ il cosiddetto ‘Patto delle catacombe’.
Fu scritto il 16 Novembre
1965 alle Catacombe di Domitilla, a 40 km da Roma, da 40 Vescovi provenienti da
vari continenti. Poco dopo il numero dei firmatari si allargò a 500 Vescovi.
PATTO DELLE CATACOMBE (16
Novembre 1965)
Noi
vescovi, essendo stati illuminati sulle deficienze della
nostra vita per ciò che riguarda la povertà evangelica, incoraggiandoci gli uni
gli altri in una medesima iniziativa nella quale ciascuno di noi vorrebbe
evitare la singolarità e la presunzione; uniti a tutti i nostri fratelli nell’'episcopato;
contando soprattutto sulla forza e la grazia di nostro Signore Gesù Cristo,
sulle preghiere dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi;
mettendoci, col pensiero e con la preghiera, al cospetto della Trinità, della
Chiesa di Cristo, del clero e dei fedeli delle nostre diocesi; nell'umiltà e
nella coscienza della nostra debolezza ma anche con tutta la determinazione e
la forza della quale siamo sicuri che Dio voglia darci la grazia, ci impegniamo
a quel che segue:
1.
Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre
popolazioni per quel che riguarda l'abitazione, il cibo, i mezzi di
comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (Mt 5,3; 6,33.34; 8,20).
2. Rinunziamo
per sempre all'apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti
(stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (queste
insegne devono essere di fatto evangeliche, cf. Mc 6,9; Mt 10,9.10; At 3,6).
3.
Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose
del genere a titolo personale; e se sarà necessario averne, le intesteremo
tutte alla diocesi o a opere sociali o caritative (cf. Mt 6,19.21; Lc
12,33.34).
4.
Affideremo, ogni volta che sia possibile, la gestione finanziaria e materiale
nelle nostre diocesi a un comitato di laici competenti e consapevoli del loro
compito apostolico, per poter essere meno degli amministratori che dei pastori
e degli apostoli (cf. Mt 10,8; At 6,1-7).
5. Rifiutiamo
di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano
concetti di grandezza o di potenza (per esempio: eminenza, eccellenza,
monsignore). Preferiamo essere chiamati con l'appellativo evangelico di
"padre”.
6.
Nel nostro modo di comportarci, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo ciò
che può procurarci privilegi, precedenze o anche di dare una qualsiasi
preferenza ai ricchi e ai potenti (per esempio: banchetti offerti o accettati,
"classi” nei servizi religiosi ecc.; cf. Lc 14,12.14; I Cor 9,14.19).
7.
Eviteremo anche di incoraggiare o di lusingare la vanità di chiunque con la
prospettiva di ricavarne ricompense o regali o per qualunque altra ragione.
Inviteremo i nostri fedeli a considerare le loro offerte come una normale
partecipazione al culto, all'apostolato e all’azione sociale (cf. Mt 6,2.4; Lc
16,9.13; 2Cor 12,14).
8. Dedicheremo tutto il tempo necessario al
servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che
sono in condizione economica debole o sottosviluppata, senza che questo
nuoccia ad altre persone o gruppi della diocesi. Sosterremo i laici religiosi,
i diaconi e i preti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai
e a condividerne la vita operaia e il lavoro (cf. Lc 4,18; Mc 6,3; Mt 11,4-5;
At 18,3.4; 20,33.35; I Cor 6,12).
9. Consapevoli
delle esigenze della giustizia e della carità e dei loro mutui rapporti, noi
cercheremo di trasformare le opere di beneficenza in opere sociali, basate
sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le
esigenze come un umile servizio degli organismi pubblici competenti (cf. Mt
25,31-46; Lc 12,13-14; 18,34).
10. Faremo di tutto perché i responsabili del
nostro governo e dei nostri servizi pubblici stabiliscano e applichino leggi
sociali e promuovano le strutture sociali necessarie alla giustizia,
all'eguaglianza e allo sviluppo armonioso e totale di tutto l'uomo in tutti gli
uomini e giungano con questo a stabilire un nuovo ordine sociale degno dei
figli dell'uomo e dei figli di Dio (cf. At 2,44.45; 4,32.33.35; 5,4; 2Cor 8,9;
ITm 5,16).
11. Poiché
la collegialità episcopale trova la sua attuazione più evangelica
nell'assumersi in comune l'onere delle masse umane in stato di miseria fisica,
culturale e morale (due terzi dell'umanità), noi ci impegniamo a partecipare,
secondo le nostre possibilità, agli investimenti urgenti degli episcopati
poveri; di raggiungere insieme, a livello delle organizzazioni internazionali
ma a testimonianza del Vangelo, come il papa all'ONU, lo stabilimento di
strutture economiche e culturali che non accrescano il numero delle nazioni
proletarie in seno a un mondo sempre più ricco, ma permettano alle masse
povere di uscire dalla loro miseria.
12.
Ci impegniamo a dividere nella carità pastorale la nostra vita con i nostri
fratelli in Cristo, preti, religiosi e laici, perché il nostro ministero sia
un vero servizio. Così ci sforzeremo di “rivedere” la nostra vita con il loro
aiuto. Prepareremo dei collaboratori per poter maggiormente animare il mondo.
Cercheremo di essere più umanamente presenti e accoglienti; ci mostreremo
aperti a tutti quale che sia la religione di ciascuno (cf. Mc 8,34.35; At
6,1-7; ITm 3,8.10).
13.
Ritornati nelle nostre rispettive diocesi, noi faremo conoscere ai nostri
diocesani queste nostre decisioni, pregandoli di aiutarci con la loro
comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere. Che Dio ci aiuti a essere
fedeli.
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O si riparte da qui o non c’è speranza!
Come si giunse a questo documento? Già Papa
Roncalli, in un messaggio radiofonico ai cattolici del mondo, un mese prima
dell’apertura del Concilio (il Concilio Vaticano II è durato dall’11 Ottobre
1962 al 7 Dicembre 1965) aveva affermato che la Chiesa si deve presentare al
mondo come Chiesa di tutti e particolarmente come Chiesa dei poveri.
Il Card. Lercaro, Arcivescovo di
Bologna, che aveva trasformato il proprio Palazzo arcivescovile in un
orfanotrofio e che poi sarà nominato come uno dei 4 Moderatori del Concilio, al
termine della I Sessione riprese questa richiesta di Roncalli, chiedendo ai Padri
conciliari di rendere la questione della presenza di Gesù Cristo nei poveri,
non un tema fra gli altri, ma la questione centrale del Concilio.
Il tema ‘Gesù, i poveri e la Chiesa’
era già stato lanciato dal Vescovo di Nazareth e dal Vescovo di Tournai in
Belgio, perché avevano distribuito ai Padri conciliari uno scritto di Paul
Gauthier, prete operaio a Nazareth, nel quale la povera gente di quella città
poneva ai Padri la richiesta di considerare la stretta relazione di amore che
deve unire la Chiesa e i poveri.
Questa iniziativa sfociò poi nella
nascita di un gruppo informale, animato dallo stesso Vescovo di Tournai e dal
Card. Gerlier, formato da più di 50 Vescovi e da una trentina di esperti
conciliari. Tra questi c’erano Helder Camara, Vescovo di Recife, Manuel Larrain
Vescovo di Talca in Cile che poi furono tra i primi firmatari del ‘Patto delle
Catacombe’. Mons. Larrain addirittura verrà citato da Paolo VI nell’Enciclica
‘Populorum progressio’.
Il Papa fu sempre tenuto informato di
questi lavori. Anzi fu proprio Paolo VI a indire un’assemblea dei Vescovi
latino-americani e poi nel 1968
a fare il viaggio a S. Josè de Mosquera in Colombia,
quando si inginocchiò davanti ai contadini, una delle popolazioni più povere
del mondo. Sono belli e significativi i simboli, ma se restano solo
gesti?.........
Questi sono gli antefatti del cosiddetto
‘Patto delle Catacombe’.
Quello che è successo in questi ultimi anni
dentro le mura vaticane non solo tradisce quegli obiettivi profetici di cui
parla il documento dei 500 Vescovi, ma si pone su un piano condannabile perfino
dal Codice penale.
Che ci sia questa vergognosa lotta di
potere all’interno del Vaticano è fuori discussione, ma riconoscere la crisi
può diventare un’occasione opportuna di conversione e di rinascita. Secondo me
è giunto il momento che la Chiesa passi da una struttura rigidamente
monarchica, che consente rapporti di potere al suo interno, ad una struttura
dialogica, conciliare. Anche la gestione dei beni della Chiesa deve essere
pubblica, trasparente, controllabile dal popolo cristiano.
‘Chiesa per i poveri’ o ‘Chiesa povera’? Ai
tempi del Concilio era un’alternativa forte. Sembra quasi la stessa cosa, ma
c’è un abisso fra questi due obiettivi. Il primo può giustificare gli
intrallazzi più impensabili per acquistare potere e danaro, col pretesto di
aiutare chi ha bisogno. Il secondo esige un totale coinvolgimento con gli
‘ultimi’.
Il libro di Geremia si apre con questa
visione: il Profeta vede da una parte un ramo di mandorlo che sta per fiorire;
dall’altra una caldaia inclinata che sta per rovesciarsi. Sono due possibilità
che sia la Chiesa che l’umanità hanno davanti: lo sbocciare di una nuova
stagione oppure la devastazione più completa. Ma Dio è ‘vigile’; se avremo il
coraggio di rinnovarci, una nuova primavera ci attende.
don Fabio Masi – Parroco
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