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giovedì 15 marzo 2007



Mani di donne

A cura di Luciana Angeloni

Tiratura 1500 copie

Distribuzione gratuita



I QUADERNI DI PORTO FRANCO. nuova serie.

16. Manididonne

un racconto a più voci

donne

si incontrano,

comunicano,

progettano

un’esperienza

di integrazione




Un libro per comunicare uno stile di integrazione ed una capacità operativa al femminile: contenuti, valori e realizzazioni di donne che accettano di mettersi in gioco e di osare il futuro possibile.

dicembre2006


 

Introduzione

 

Esistono nella società le risorse umane per affrontare costrut­tivamente le emergenze dovute alle grandi trasformazioni della nostra epoca fra cui il crescente divario fra ricchezza e povertà, l’immigrazione e la convivenza fra culture diverse? Esistono sì, ma spesso non fanno notizia. Manca l’informazione. Chi cerca uno sbocco positivo e non si limita a covare o a gridare le pro­prie paure scaricandole irresponsabilmente sui capri espiatori di turno ha difficoltà a comunicare. Favorire la comunicazione delle esperienze positive e la crescita delle coscienze può essere uno dei modi per affrontare i problemi che emergono.

Prendiamo il tema della convivenza con i rom accampati nelle periferie di Firenze.

Oltre l’Isolotto, in una discarica abbandonata, si apre il terri­torio degli uomini del nulla, popolo dall’identità eternamente negata. Vivono in alcuni campi che l’Amministrazione comu­nale, decentrata nel Quartiere (il Q4 dell’Isolotto), ha da poco tempo strutturato in forma dignitosa realizzando due villaggi di casette prefabbricate, in attesa di un definitivo superamento dei campi stessi.

Il problema dell’integrazione rimane però ancora aperto. La cultura dell’accoglienza, espressa per anni da un intreccio fra società civile e istituzioni pubbliche, tenta di abbattere queste nuove mura dell’esclusione. Ecco la fase nuova che sta apren­dosi: la strada dell’integrazione.

Si tratta di una fase che si fa strada a livello generale e mondia­le. La questione fondamentale dei nostri tempi non è la giusti­zia nel senso tradizionale della redistribuzione, bensì l’inclusio­ne o meglio l’integrazione. Lo affermano economisti e sociologi aperti e fa parte della nostra esperienza quotidiana.

“Inclusione” è parola particolarmente equivoca. “Integrazio­ne~~ e equivoca anch’essa, come tutte le parole del resto, ma forse esprime meglio la fase storica di incontro e di reciproca fecondazione fra culture diverse in cui viviamo. L’integrazione ben governata è l’unica alternativa razionale alla guerra fra civiltà. La città non può rinunziare all’integrazione.

Si tratta di assicurare diritti di cittadinanza, con l’assunzione dei rispettivi doveri, e di integrare nel tessuto vitale della socie­tà i diversi di ogni tipo e gli esclusi, non per dovere di ospitalità, ma come orizzonte progettuale, come pietra fondamentale di una città sicura e accogliente per tutti. Opposto a questo è il progetto liberista che vuole la città della competizione globale, della guerra di tutti contro tutti, del patto fra privilegiati per escludere chiunque resta indietro. E questo lo spessore de]lo scontro che si svolge a Firenze e nelle altre città sui rom e più in generale sugli immigrati. In gioco, insieme ai diritti dei rom, sono i nostri stessi diritti, diritti di lavoratori, di pensionati, di disoccupati, di persone più deboli.

Il Quartiere 4 di Firenze, alle prese con il campo o meglio con i vari campi del Poderaccio, ha dato negli anni un contributo notevole con la progettazione e realizzazione di esperienze po­sitive di integrazione nel rispetto dei diritti e delle identità ed ha dimostrato che è di lì che si passa anche per dare sicurezza ai cittadini.

Una fra le esperienze di positiva integrazione è il laboratorio “Kimeta”.

Kimeta è il nome di una giovane donna rom prematuramente scomparsa ed il cui ricordo suscita ancora tanto rimpianto in chi l’ha conosciuta.

Kimeta abbiamo titolato il laboratorio di servizi (stiratura, ag­giustatura, cucito, ricamo...), scaturito da un progetto di don­ne dell’Isolotto e di donne di altre culture, in particolare rom, “donne & donne”, con il coinvolgimento delle istituzioni citta­dine, in particolare della Regione Toscana, del Quartiere 4 e della Cooperativa sociale Samarcanda.

La donna ha sempre rappresentato nella cultura del popolo rom un elemento fondamentale dell’economia familiare, in un contesto però fortemente patriarcale e maschilista. Nell’incon­

tro con la nostra cultura questo ruolo non è molto cambiato. I pregiudizi, l’emarginazione, le pessime condizioni ambientali in cui si sono trovate a vivere hanno impedito alle donne rom ogni possibilità di inserimento lavorativo ed esse hanno dovu­to mettere in atto strategie di sopravvivenza quotidiana legate ai residui della nostra economia di consumo: l’accattonaggio rimaneva la loro unica risorsa. L’integrazione non può esclude­re la donna rom. Anzi forse è proprio da lei che l’integrazione deve partire, cioè dalla realtà doppiamente esclusa ma che co­stituisce l’anima profonda della società rom.

È questa l’idea che si trova al fondo dell’esperienza che stiamo cercando di raccontare. Era oggettivamente nelle cose, nelle nostre esperienze di vita, nei nostri passi incerti; ma all’inizio era un’idea più intuita che consapevole. Le stesse donne rom non erano coscienti delle loro possibilità e della loro ricchezza. Solo progressivamente siamo andate prendendone coscienza.

In sintesi: integrazione e non paternalismo assistenziale, reci­procità e non omologazione, integrazione a partire dalla donna, dalla forza creativa nascosta ma viva del mondo femminile rom e del mondo femminile autoctono, “donne per le donne” appun­to; integrazione reciproca attraverso una specie di complicità fra le donne di tutte le etnie accomunate da sempre da un pre­zioso patrimonio di competenze e in qualche modo di “segreti”. Già: i segreti delle donne, un tempo segreti di streghe e di zin­gare! Così disprezzati dalla perenne puzza al naso dei maschi di tutte le etnie. Ma anche così egoisticamente sfruttati. I segreti accumulati da millenni di strategie vitali di sopravvivenza, da mille e mille tentativi per trovare varchi di speranza in notti senza barlumi: fame, epidemie, guerre, genocidi, catastrofi na­turali. Competenze acquisite nella pratica avveduta e amorevo­le della cura. Tutto questo lentamente abbiamo scoperto che ci accomunava: donne rom e donne del territorio. E insieme siamo cresciute, intrecciando lavoro, confidenze, riflessioni, racconti di vita, perplessità, intuizioni. Lo abbiamo condensato con un logo di tre parole: mani di donne. I segreti, le competenze, la creatività di tutto il nostro essere simboleggiato dalle nostre mani. E da lì siamo partite per una scommessa di integrazione che può costituire una indicazione di percorso di significato più generale, un barlume che insieme a tanti lucignoli più o meno fumiganti può consentire di intravedere un orizzonte nuovo di rapporti umani.

Oltre l’alternativa fra il modello di integrazione “multicultura­lista” britannico, un modello carcerario che accosta ghetti se­parati, enfatizza l’appartenenza, ma non favorisce la reciproca contaminazione, e il modello “assimilazionista” francese che produce anomia creando indistinte banlieues senza identità, abbiamo tentato la strada che passa attraverso la lenta deco­struzione della fissità delle rispettive appartenenze culturali e l’altrettanto lenta costruzione condivisa della “comunità oltre i confini”.

Sia le rom che le volontarie sono donne legate alla cultura antica della cura. Che è stata annullata dalla cultura della in-curanza per le persone e le cose in nome del dominio del danaro e del profitto. Una globale e profonda rimozione delle persone è infatti il sacrificio richiesto dalla nuova religione del dio danaro. Le donne della società industrializzata e le donne della società rom hanno così perso la loro soggettività e il loro ruolo. I loro segreti e le loro competenze non servono più nella cultura delle pillole per ogni disturbo, delle trovate tecnologiche per ogni sogno e bisogno, dei prodotti a prezzi sempre più stracciati frutto della schiavizzazione di persone anch’esse stracciate come i frutti della loro fatica. L’usa e get­ta ha coperto di rifiuti non solo la faccia della terra ma anche la memoria, i segreti, le competenze accumulate in millenni di cultura della cura, dell’attenzione amorosa per la vita, del­la preoccupazione e responsabilità verso le persone. E così le donne della società del consumo divennero preda della depres­sione e le donne rom dell’accattonaggio.

Tutto questo è sotto i nostri occhi. Ma siamo anche testimoni di una crisi senza sbocco. Così non può durare. Passiamo da un’emergenza all’altra. E di nuovo, come in altri momenti tra­gici della storia, la soggettività femminile riemerge alla ricerca di varchi e di barlumi nella notte.

In alternativa all’usa e getta, in-curante di tutto pur di rea­lizzare il mitico profitto, fa di nuovo capolino, in forma quasi impercettibile, come le piccole gemme degli anemoni nei prati ancora impregnati del gelo invernale, la cura delle cose che èanche almeno indirettamente cura delle persone, anzi da que­sta fondamentalmente deriva. Cura delle cose e cura delle per­sone stanno sempre insieme.

Non buttar via, non disprezzare le cose, non sprecare natura e lavoro. Recuperare. Questa cura delle persone e delle cose, da sempre praticata nelle società conviviali, contiene una pro­fonda filosofia di vita, indica una vera e propria svolta di civil­tà. Intorno al riemergere di gemme di cura, piccole esperienze, incerti tentativi, ricerca a tentoni di varchi che consentano di rianimare la speranza in questo tempo di crisi profonda, si può aggregare un’altra società, più comunitaria, più aperta, carat­terizzata non da ciò che può spendere e sprecare, ma da quanto sa fare e quanto sa aiutarsi e farsi aiutare. Non sarà così eroico come ‘rovesciare i potenti dai loro troni’, ma c’è molto il senso di ‘innalzare i senza potere’. Chi lo fa contribuisce alla salute del nostro povero pianeta e dei viventi che lo popolano molto di più di quanto non capiti a molti dottori della legge ambientali-sta. Diceva queste cose fra gli altri un testimone della cultura ambientalista, Alex Langer, nel 1992, parlando a Lione in un incontro per gli ottant’anni dell’abbé Pierre.

Ma c’è dell’altro. Questa cultura della cura è anche storicamen­te all’origine del cooperativismo e tuttora ne è l’anima. Le coo­perative sono nate in alternativa al capitalismo padronale che considerava l’operaio come merce funzionale anch’essa al pro­fitto. La dignità umana del “socio” era il valore supremo della cooperazione. E di conseguenza anche la dignità del lavoro e dei prodotti del lavoro. L’interesse per le persone e per le cose al primo posto. Il grande successo anche economico della coo­perazione ha dimostrato che non c’è incompatibilità fra cura e sviluppo. Ma oggi la cooperazione rischia di essere ingoiata dal nuovo capitalismo degli gnomi senza volto. Se vuol salvare l’anima la cooperazione deve anch’essa rinnovarsi, quasi rina­scere. Non basta che offra merci in concorrenza spietata con un mercato globale impazzito. Né tanto meno basta che offra servizi anonimi agli enti pubblici a prezzi concorrenziali che obbligano a trascurare la dignità e talvolta i diritti dei soci lavo­ratori. La cooperazione deve ritrovare la via della cura apren­dosi ai servizi diretti alle persone e alla natura. La Cooperati-va sociale Samarcanda, assumendo il compito di far crescere il Laboratorio Kimeta è un esempio di cooperazione solidale al servizio delle persone e non del mercato. Quando la coopera­zione segue un tale orientamento può rivendicare il sostegno da parte dello Stato e degli Enti pubblici. La Pubblica Ammini­strazione infatti non riesce a soddisfare adeguatamente, come sarebbe suo dovere istituzionale, i diritti sociali dei cittadini. La cooperazione ha il valore aggiunto della solidarietà nella trasparenza e nella laicità. E giusto quindi che venga sostenuta nel momento che offre servizi sociali con quel valore aggiunto che solo lei, cioè solo la cooperazione può dare. “I beni privati (i prodotti commerciali) offerti dalle imprese capitaliste sono più che sufficienti a soddisfare i desideri più futili e strampalati”. Lo scrive un osservatore esperto e attento come Giorgio Ruffo­lo su «la Repubblica» (8 gennaio 2006). E ne deduce la seguente indicazione di orientamento per la cooperazione: “C’è invece una crescente scarsità relativa di beni sociali.... Sarebbe pro­prio questo il terreno sul quale la natura genetica solidaristica e democratica del movimento cooperativo potrebbe trovare una rinnovata fioritura”.

La stireria e piccola sartoria del Laboratorio Kimeta sono, nel­l’intenzione e nei fatti, servizi sociali offerti alle persone, atti­vità di cura per le persone e per le cose. La clientela è costituita da famiglie che non possono permettersi la donna di servizio, da single magari con lavoro e figli, da anziani soli, da giovani che tentano i primi approcci con l’autonomia dalla famiglia. I prezzi sono calcolati non in base al metro del profitto, ma in base a un difficile equilibrio fra dignità di chi offre il servizio e di chi ne usufruisce. Il laboratorio è in espansione, ma non ancora al pareggio. Il sostegno istituzionale ci è indispensabile e forse costituisce un diritto. Lo stesso movimento cooperativo che non volesse perdere l’anima in una svolta storica cruciale dovrebbe guardare a esperienze simili come a una risorsa posi­tiva e promettente.

 

L’abbiamo presa larga, abbiamo volato alto, non per presunzio­ne. Siamo ben consapevoli della nostra piccolezza e del nostro trovarci di continuo sul pericoloso crinale fra resistere e soc­combere. Abbiamo allargato il discorso parlando di orizzonti nuovi perché crediamo nella legge delle formiche. E’evidente infatti che la crisi della società moderna sta riaprendo la di­scussione sui fondamenti, sul senso dello sviluppo, della cresci­ta e del consumo, sulla “razionalità” del mercato, sugli stili di vita individuali e collettivi, sulla nostra quotidianità. Fine del tempo dei dinosauri che non hanno bocche abbastanza grandi per la loro insaziabile avidità. A chi è affidata la speranza? Solo le formiche, sempre calpestate e sempre riemergenti, possono dare continuità alla vita.




Copie delle pubblicazioni si possono richiedere presso:

Regione Toscana Giunta Regionale - Direzione Generale politiche formative e beni culturali

PORTO FRANCO.Toscana. Terra dei popoli e delle culture

Via G. Modena 13- 50121 Firenze

Tel. 0554384127-129-122

Fax 0554384100



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