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giovedì 25 aprile 2013

Dalla teocrazia alla democrazia


Dalla teocrazia alla democrazia. Dal potere esercitato in nome di Dio a quello emancipato da riferimenti ultraterreni; dalle società pre-moderne fondate sui miti e sul sacro, alla società moderna occidentale desacralizzata, secolarizzata e post-religiosa. Questo il tema su cui rifletteremo
domenica 28 aprile alle ore 10,30 all'assemblea della Comunità dell'Isolotto,in via degli Aceri 1-Firenze
L'interrogativo è:  regge oggi questa rappresentazione, oppure anche nella nostra società è presente una dimensione religiosa, magari nella forma di una nuova religione? Secondo Walter Benjamin la religione del nostro tempo è il capitalismo. Si è così aperto un dibattito fra chi sostiene essere la nostra una società non religiosa, secolarizzata e desacralizzata, e chi, al contrario, riconduce la secolarizzazione ad un insieme di credenze che costituiscono una vera e propria “mitologia programmata”.

 Domenica 28 Aprile 2013 – Elena, Maria, Giulia, Sergio, Gianpaolo, Roberto

 

 Disincanto del mondo, demitizzazione, secolarizzazione o  “mitologia programmata”?                                      

            E’ la nostra una società post-religiosa oppure si basa anch’essa su un
                sostrato religioso, magari nella forma di una nuova religione?


                                                                       I
La tesi che la secolarizzazione sia il contrassegno della società occidentale nel nostro tempo, sia insomma lo specifico della modernità, ha conosciuto indubbiamente un notevole successo, esercitando una vera e propria egemonia culturale, non senza però un qualche contrasto. Nota è la contrapposizione fra la tesi di Karl Löwith (Significato e fine della storia- 1949) - per la quale la modernità non è altro che l’escatologia cristiana secolarizzata, e quella di Hans Blumemberg (La legittimità dell’età moderna 1966) che vede la modernità affermarsi contro il cristianesimo.  Su queste tematiche il dibattito è proseguito anche negli anni successivi. In proposito appare interessante la discussione sviluppatsi in Francia a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 del ‘900.
La concezione che con lo sviluppo delle tecniche e delle procedure democratiche ci si stia movendo verso una società estranea alla religione, post-religiosa potremmo dire, è sostenuta da Marcel Gauchet (Vedere Le désenchantement du monde – Une Histoire politique de la religion – 1985 – - Il disincanto del mondo – Una storia politica della religione e l’articolo dello stesso Dalla teocrazia alla democrazia in Micromega 2/1992).
Scrive, infatti, Gauchet che “L’avvento di un potere democratico nell’Occidente moderno non può essere compreso altro che nell’ambito di un processo di uscita dalla religione”. Perfino una società che “al limite…non comprendesse  che dei credenti” sarebbe comunque “una società al di là del religioso”. E ciò perché si è dissolta la concezione di un mondo strettamente fondato sul proprio passato, sulle proprie origini tramandate dal pensiero mitico elaborato in forme simboliche.
Nelle società religiose, infatti, il potere ha un fondamento meta-sociale e quindi esterno alla collettività e fuori portata per gli esseri umani chiamati solo ad obbedire alle imposizioni ricevute dall’alto, la cui memoria viene perennemente rinnovata dal racconto mitico. Si tratta quindi di un’alienazione di potenza al di fuori della società, nelle divinità di cui parlano le religioni ed i miti, che viene rappresentata simbolicamente come base dell’ordine sociale allo scopo di legittimare l’esercizio di potere dei dominanti sui dominati, in modo che quest’ultimi accettino la loro condizione di inferiorità. “Il religioso è originariamente un modo di istituzione della società, un tipo di legame fra gli esseri umani attraverso l’ineguaglianza, ineguaglianza di essenza sacrale, legame attraverso una gerarchia che ripercuote ovunque nel mondo terreno la superiorità ultima dell’al di là. Gerarchia la cui chiave di volta è costituita dal potere sacro.” “Religione, per condensare il concetto in una parola,   è  eteronomia, e il sacro è la figura in cui l’eteronomia si materializza, si incarna in maniera sensibile”.
Nelle società moderne, al contrario, con la formazione dello Stato, il fondamento del potere è trasportato dall’al di là all’al di qua, e immesso all’interno della formazione sociale stessa, senza riferimento ad alcuna dipendenza da una realtà esterna superiore. Questo non vuol dire che anche nel mondo moderno non sia presente la frattura fra dominanti e dominati. Solo che ora essa deve essere giustificata con argomenti logici, razionali, senza alcun richiamo a simboli mitici, giacché il mondo è stato disincantato, cioè depurato delle incrostazioni mitico-sacrali che bloccavano qualsiasi apertura al cambiamento. Così “Questa radicale trasformazione fa passare la legittimazione del legame collettivo dall’extra-sociale a l’intra-sociale, dal passato fondatore all’avvenire indeterminato, dalla ragione teologica all’ideologia“. Per questo, uscendo dalla teocrazia, le società moderne si sono sviluppate gradatamente con l’attivazione di una forte pratica di critica sociale e politica, orientandosi così verso la democrazia, cioè verso la legittimazione popolare dell’esercizio del potere. Certo non è scomparso il pericolo che “risiede nell’insidioso operare di un ultimo residuo di forme sacrali all’interno delle democrazie”. Comunque, per concludere, il dato rilevante di connotazione della società moderna consiste nella fine della religione nel ruolo di strutturare lo spazio sociale. Si può dire, allora, che “La società moderna non è una società senza religione, è una società che si è costituita nelle sue articolazioni principali con la metabolizzazione della funzione religiosa”. Comunque “Mondo terreno e aldilà cessano di costituire insieme uno stesso essere…. Questo mondo e l’altro mondo cessano, se si vuole, di formare in ultima istanza un solo mondo… Questo mondo costituisce in se stesso una realtà. E’ chiuso in se stesso. Dio è del tutto altrove ”.
Anche i monoteismi mantengono questa esteriorità del fondamento collettivo della società, però non la collocano più fuori dal tempo, nel mito delle origini e della sacralità della natura, ma in un Dio interamente separato dal mondo. Si instaura così una separazione nuova fra naturale e soprannaturale, fra il mondo umano e quello di Dio, aprendo quindi la possibilità di un rapporto nuovo fra l’essere umano e la natura, disincantata, demitizzata, desacralizzata. Con la ritirata di Dio il mondo da realtà donata, come era, diviene una realtà da costruire, e quindi si apre all’essere umano sia sul piano della conoscenza che su quello dell’azione pratica. Comunque anche con i monoteismi il mondo rimane magico, per cui “la sfera visibile continua ad essere abitata da potenze invisibili” ed “affollata di sacralità”. In conclusione, di per sé stesso, il monoteismo non è sufficiente a produrre il disincanto del mondo. E’ il cristianesimo con l’Incarnazione che apre questa prospettiva. “Se Dio si fa uomo per rivolgersi agli uomini,…invece di parlare loro direttamente per bocca di un profeta, vuol dire per un verso che egli appartiene radicalmente ad un luogo distinto dalla sfera degli uomini, e per l’altro, che questa sfera è dotata di una consistenza che la chiude relativamente su se stessa. Una consistenza tale che colui che vi penetra, anche se si tratta di Dio, deve adottarne le regole”.
Certamente la Chiesa ha usato l’Incarnazione per riunire gerarchicamente l’al di qua con l’al di là, proponendosi come mediatrice assoluta. Ma questa mediazione fra il sacro ed il profano, fra il cielo e la terra, si presenta altamente problematica in rapporto al fatto che la mediazione storica realizzatasi una volta per tutte è quella di Cristo. In conseguenza di ciò “Non è l’Incarnazione che genera il moto del secolo, è il moto del secolo che risveglierà il fondamentale contenuto dell’Incarnazione consentendole di agire”, nel senso di riconoscere validità all’autonomia degli esseri umani.
Gauchet non ignora il ritorno del religioso, ma lo vede come effetto del crollo delle grandi speranze racchiuse nel sogno di un futuro radioso, di una società migliore di quella presente. Di conseguenza “Nel fondo del cosiddetto ritorno del religioso vi è soprattutto la riappropriazione identitaria del passato in sostituzione di un futuro che sfugge

La tesi contrapposta alla precedente è sostenuta da due politologi – M.D.Pierrot e G.Rist ed un antropologo – F.Sabelli – nello scritto La Mythologie programmée- L’économie des croyances dans la société noderne (La mitologia programmata – L’economia delle credenze nella società moderna.
Gli autori riprendono la concezione di un sociologo francese Durkheim esposta in un’opera rimasta famosa – Le forme elementari della vita religiosa – pubblicata nel 1912. Vi si sostiene che la religione può esistere al di fuori di ogni istituzione specializzata, al di fuori di ogni riconoscimento formale di una divinità o di una pluralità di dei. La religione esprime la società, nel senso di assicurarne la coerenza e la stabilità, in quanto diffonde fra i suoi membri i medesimi valori di fondo, i medesimi pregiudizi e la medesima tradizione, portandoli a condividere comportamenti che rendono possibile la loro convivenza, in modo da permettere la coesione sociale. Si tratta, quindi, di un insieme di credenze comuni ad una determinata collettività. Di conseguenza, ogni società è governata da credenze largamente condivise, che sarebbe pericoloso rimettere in questione, ed è in questo senso che si può considerare religiosa. Pertanto, non esistono religioni senza società, ma neppure società senza religioni. Anche una società di atei, che senz’altro non crede in Dio, ma non per questo sarebbe senza religione e credenze. In sostanza, il fenomeno religioso non consiste in verità accettate a titolo individuale, ma in una rappresentazione collettiva che si impone a tutti come se essa provenisse dall’esterno e che serve a sigillare l’unità del gruppo. Ciò che determina le pratiche sociali non è allora il contenuto di ciò che si crede, bensì il fatto stesso di credere.
Anche la nostra società non sfugge a questa regola. Vi sussistono infatti credenze sociali, nonostante l’incredulità individuale, tanto che si possono inquadrare come forme religiose anche la laicità e la secolarizzazione. Pertanto il disincanto del mondo e la demitizzazione non sono che apparenti, in quanto ciò che non è riconosciuto come religioso è nondimeno vissuto come tale. Basti pensare ai fondamenti della modernità: l’individualismo, la razionalità calcolatrice ed utilitaristica, la produzione e la crescita economica, il dominio sulla natura e via dicendo.
A questo punto gli autori presentano una serie di credenze, non riconosciute ufficialmente come tali, e di pratiche connesse, definite come insieme “mitologia programmata”. “La mitologia programmata è un sistema di credenze socialmente condivise, collettivamente costruite dall’immaginario sociale, utilizzando i materiali forniti dalla storia (navetta spaziale, programma televisivo, evento politico, diritti dell’uomo ,una pubblicità, una scoperta scientifica, ecc.) che permette di rendere socialmente accettabili le pratiche moderne e di presentarle in funzione di un avvenire posto come legittimo e necessario”. Essa agisce sul piano esistenziale, nel senso di restituire all’individuo una parte del senso di cui è stato privato dalla demitizzazione e dalla desacralizzazione compiuta dagli intellettuali a partire dall’Illuminismo. I suoi principali gestori sono lo Stato ed il capitale.
A questo punto gli autori prendono ad analizzare una serie di queste credenze e delle pratiche che vi sono connesse.
Una consiste nel passaggio dalla ragione alla razionalità basata su una logica utilitaristica come rapporto fra mezzi e fini in senso economico. Il suo centro è l’impresa che, oltre a produrre merci, crea una credenza mitologica, presentando il sistema economico come espressione di una verità sulla natura umana, e quindi ponendosi come fabbrica della cultura quotidiana e laboratorio di sperimentazione culturale. Anche la “carta di credito” funziona come forza identitaria, che apre al mondo della ricchezza senza denaro e senza limitazioni di spesa. Entrando in questo mondo di opulenza generalizzata “voi non sarete mai soli” recita una pubblicità dell’American Express. A sua volta la “bioetica” è giudicata come uno strumento di sacralizzazione crescente delle biotecnologie, nel senso di avallare il programma di dominio sul vivente, in un contesto dove dalla scienza si tende a passare alla tecnoscienza. Anche molte cerimonie moderne, legate a feste laiche, recuperano strutture mitologiche antiche in modo da rendere credibili nuovi valori e indiscutibile la riorganizzazione delle pratiche. Le stesse “Esposizioni internazionali” esaltano la potenza economica del mondo industriale, diventando fucina di desideri collettivi, laboratori della società di consumo. Le “Dichiarazione dei diritti”, hanno anch’esse un carattere religioso, compresa quella del 1948. Essendo sistematicamente violata essa vale come principio morale o semplice raccomandazione, col carattere di promessa, di utopia, di mito, caso mai come programma da realizzare.
Anche “l’amore per l’umanità” ha il carattere del mito religioso. Con la crisi della socialità a gestione statale ha preso spazio e riconoscimento la carità individuale. Campione di ciò è la figura di Madre Teresa di Calcutta, scoperta e costruita programmaticamente come mito allo scopo di rendere accettabile il ripristino di pratiche sociali risalenti ad un lontano passato, di soffocare ogni critica sull’efficacia di questa forma di carità e, soprattutto, di non rimettere in discussione i meccanismi che generano la povertà. Sul piano strettamente ecclesiastico, essa rappresenta una teologia preconciliare, strettamente legata al principio gerarchico ed alle posizioni vaticane in materia di sessualità e dei mezzi anticoncezionali artificiali. Infine l’ultimo mito preso in considerazione è quello della solidarietà Nord-Sud. Essa è presentata come una sorte di religione di salvezza per i popoli del terzo mondo sottomessi a forze malefiche (la povertà, il basso sviluppo economico), la crescita delle differenze in termini di Pil con i paesi ricchi, la mentalità irrazionale, l’analfabetismo ecc. In base alla “credenza” nello sviluppo economico di tipo occidentale, presentato come irreversibile ed ineluttabile, lo scopo è quello di immetterli in quel processo economico, incentrato sulla concorrenza che assicurerebbe il loro progresso. In sostanza, il mito dell’universalismo e dell’umanitarismo dissimulano, magari anche in maniera non consapevole, il progetto di diffondere le forme economiche tipiche dell’Occidente capitalista e quindi i suoi interessi. Se ciò fosse dichiarato apertamente non sarebbe accettabile, ma lo diviene perché la sua legittimità è basata su una credenza condivisa.
Per concludere, gli autori ribadiscono che, nonostante le apparenze, la nostra società “moderna o “post-moderna” è una società che ha tradizione come tutte le altre, e le figure della “mitologia programmata” sopra illustrate mostrano i nostri riti, le nostre cerimonie, i nostri feticci, i nostri personaggi sacri che, oggi come una volta, suscitano adesione, rinforzano il consenso, esercitano la loro obbligatorietà, sono performativi, benché talvolta incontrino resistenze. Il paradosso è che una società che pretende distaccarsi da ogni religione, deve ricorrervi incessantemente per imporre la legittimità del suo programma.


                                                                       II

 Nel presente panorama filosofico italiano e non solo, sta occupando un rilievo notevole la discussione sul rapporto fra la religione cristiana ed il capitalismo. Il tema era già stato al centro della riflessione di Max Weber , secondo il quale il calvinismo aveva fornito il contributo decisivo allo sviluppo dello spirito capitalistico dei paesi anglosassoni e dell’Olanda (Vedere L’etica protestante e lo spirito del capitalismo- 1904/5). Altri storici e sociologi si sono poi confrontati col problema, ridimensionando però la radicalità della tesi weberiana.
Il problema ha ritrovato attualità di fronte alle condizioni sociali e culturali nelle quali si trova oggi la nostra società, che vedono trionfare un vero e proprio totalitarismo economicistico, con l’economia (mercati finanziari, investitori ecc.) che sottrae ai singoli ed alle comunità il controllo del proprio destino. In altre parole, al posto di un Dio trascendente come regolatore dall’alto della vita individuale e collettiva, troviamo la pervasività totalizzante del mercato capitalistico, innalzato a condizione naturale ed a-storica, quindi necessaria ed immutabile, di fronte al quale si dichiara impossibile qualsiasi prospettiva di cambiamento e di governo democratico. Di nuovo quindi un potere trascendente, incontrollato ed incontrollabile
Non desta perciò meraviglia se un frammento giovanile di Walter Benjamin, scritto nel 1921, torna oggi al centro di una riflessione che trova nel pensiero di alcuni filosofi italiani un interessante sviluppo. Fra gli altri, due nomi spiccano per importanza: quello di Giorgio Agamben (Vedere il libro Il Regno e la Gloria- Per una genealogia teologica dell’economia e del governo – Boringhieri 2009) e Elettra Stimilli (Vedere il libro Il debito del vivente – Ascesi e capitalismo – ed. Quodlibet 2011).
Benjamin assegna a questo suo scritto il significativo titolo di Capitalismo come religione e scrive:
Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento di quelle stesse preoccupazioni, di quelle pene ed inquietudini a cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni…Il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che sia mai esistita. In essa tutto ha significato solo in immediata relazione al culto, non conosce una specifica dogmatica, una teologia…A questa concrezione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto…
Dopo avere indicato altre caratteristiche della religione capitalistica e avere annotato che “Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova magnificamente espresso nella filosofia di Nietsche”, Benjamin conclude: “Il capitalismo – come va dimostrato, non solo rispetto al calvinismo, ma anche riguardo alle altre tendenze cristiane ortodosse – in Occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, il capitalismo”.
Questo parallelismo fra cristianesimo e capitalismo costituisce una rilevante novità anche rispetto a Marx. Sebbene quest’ultimo abbia stabilito connessioni fra cristianesimo e modo di produzione capitalistico, tuttavia la religione rimane ancora per lui quella tradizionale: “La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità. Essa è l’oppio del popolo” (Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel). In sostanza la religione trova la sua ragion d’essere proprio nell’oppressione, nella mancanza di umanità e di spiritualità che contrassegna il capitalismo. Non sembra quindi presente in Marx l’idea che questo capitalismo disumano possa svolgere la stessa funzione sociale della religione
A commento dello scritto di Benjamin, Stimilli scrive: “La tesi di Benjamin, secondo cui il capitalismo è la religione del nostro tempo, appare...in qualche modo realizzata. Pensare al capitalismo come all’ultima forma di religione può forse aiutare a comprendere anche il dirompente ritorno del religioso, a cui si è assistito negli ultimi anni. Nuove istanze religiose sono emerse all’interno del mondo cosiddetto ‘moderno’, coinvolgendo direttamente gli assetti politici internazionali e attirando prepotentemente l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma una risposta convincente al problema del rinnovato dominio dell’ambito religioso sul piano pubblico della politica non è stata ancora veramente data. Che tale ritorno sia connesso al perpetuarsi di una guerra, che invece di essere originata da un conflitto di civiltà, sia, in realtà, piuttosto alimentata da un vero e proprio scontro economico planetario, sembra solo una conferma della profetica intuizione di Benjamin. Una prospettiva che voglia confrontarsi in maniera radicale con tale questione, non può lasciare nell’ombra quanto il paradigma della secolarizzazione, di fatto, si sia rivelato sempre più inadeguato per una lettura del presente e come sia apparso del tutto riduttivo nei confronti di un fenomeno prepotentemente emergente come quello religioso ”.



                               



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