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mercoledì 27 dicembre 2006

Welby e i vecchi peccati della Chiesa

Una volta la chiesa escludeva dalle funzioni sacre e dai camposanti prostitute, suicidi, attori. Capitò a un mio arcibisnonno della compagnia Tamberlani, ai tempi della dilacerazione tra Stato e Chiesa, come Jemolo definì quei decenni. Oggi accade ai fautori di nuove libertà civili, ed è segno che non solo “il secol si rinnova”, come cantava Carducci, ma anche la chiesa.


Con Welby s’è rinnovata in peggio, perché il cardinale Ratzinger aveva formulato un giudizio sulla fine della vita molto diverso da quello ora espresso da papa. Segno, come hanno scritto in tanti, che la chiesa si sente assediata e teme che la minima concessione, invece di procurarle alleati nella competizione mondiale delle religioni e delle culture, apra valichi nelle sue mura ai cavalli (chi sa perché “nemici”) del libero pensiero. La segreteria della Cisl, per Natale, ha regalato un bel libro di Anna Vanzan, La storia velata (Edizioni Lavoro) ossia “le donne dell’Islam nell’immaginario italiano”. E’ una rivisitazione di otto secoli di menzogne o di mezze verità raccontate in Occidente e in Italia dai viaggiatori “cristiani” sulla sensualità, la lascivia, la lussuria delle donne islamiche (arabe, africane, asiatiche), prefigurazione terrena dell’aldilà delle Huri (non paradisus sed lupanar, secondo l’ascetico abate Sperandio). In questo modo, spiega l’autrice del testo, si preparavano i popoli cristiani alla disistima del nemico islamico e si favoriva la mobilitazione per le crociate (non si sa se per godere di quelle lascivie o per ripulirle col ferro e col fuoco).

l’Italia non è diventata liberale, e lo sconta ogni giorno; la Chiesa è sempre più chiusa a difesa, e cammina spesso con la testa all’indietro per correggere qualcosa del suo passato anziché della sua linea presente. Mondo cattolico e mondo laico hanno cercato invano “compromessi storici”, perché le forze politiche non possono intendersi (a parte gli interessi) se una di esse si ispira a un’autorità morale che sta ferma non solo ai principi ultimi, come è logico che stia, ma ai commi dei catechismi.

(Federico Orlando su "Articolo 21")

Leggi l'articolo


Aggiornamento del 9.1.2007


Durante l'eucaristia domenicale del 24 dicembre, quasi in contemporanea con il funerale laico, la comunità di base di san Paolo di Roma ha pregato per "l'ultimo viaggio" di Welby; e ugualmente ha fatto la comunità di base dell'Isolotto di Firenze, durante la veglia di Natale. E Maria Bonafade, moderatora della Tavola valdese, partecipando al funerale laico in piazza, ha detto di non comprendere "l'indisponibilità del Vicariato cattolico di Roma a celebrare un funerale cristiano per Welby". "Crediamo infatti, come cristiani evangelici, che la Parola della Grazia e dell'Amore di Dio possa essere annunciata di fronte ad ogni morte". (luca kocci)


Trovato qui

Welby e i vecchi peccati della Chiesa

Una volta la chiesa escludeva dalle funzioni sacre e dai camposanti prostitute, suicidi, attori. Capitò a un mio arcibisnonno della compagnia Tamberlani, ai tempi della dilacerazione tra Stato e Chiesa, come Jemolo definì quei decenni. Oggi accade ai fautori di nuove libertà civili, ed è segno che non solo “il secol si rinnova”, come cantava Carducci, ma anche la chiesa.


Con Welby s’è rinnovata in peggio, perché il cardinale Ratzinger aveva formulato un giudizio sulla fine della vita molto diverso da quello ora espresso da papa. Segno, come hanno scritto in tanti, che la chiesa si sente assediata e teme che la minima concessione, invece di procurarle alleati nella competizione mondiale delle religioni e delle culture, apra valichi nelle sue mura ai cavalli (chi sa perché “nemici”) del libero pensiero. La segreteria della Cisl, per Natale, ha regalato un bel libro di Anna Vanzan, La storia velata (Edizioni Lavoro) ossia “le donne dell’Islam nell’immaginario italiano”. E’ una rivisitazione di otto secoli di menzogne o di mezze verità raccontate in Occidente e in Italia dai viaggiatori “cristiani” sulla sensualità, la lascivia, la lussuria delle donne islamiche (arabe, africane, asiatiche), prefigurazione terrena dell’aldilà delle Huri (non paradisus sed lupanar, secondo l’ascetico abate Sperandio). In questo modo, spiega l’autrice del testo, si preparavano i popoli cristiani alla disistima del nemico islamico e si favoriva la mobilitazione per le crociate (non si sa se per godere di quelle lascivie o per ripulirle col ferro e col fuoco).

l’Italia non è diventata liberale, e lo sconta ogni giorno; la Chiesa è sempre più chiusa a difesa, e cammina spesso con la testa all’indietro per correggere qualcosa del suo passato anziché della sua linea presente. Mondo cattolico e mondo laico hanno cercato invano “compromessi storici”, perché le forze politiche non possono intendersi (a parte gli interessi) se una di esse si ispira a un’autorità morale che sta ferma non solo ai principi ultimi, come è logico che stia, ma ai commi dei catechismi.

(Federico Orlando su "Articolo 21")

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Aggiornamento del 9.1.2007


Durante l'eucaristia domenicale del 24 dicembre, quasi in contemporanea con il funerale laico, la comunità di base di san Paolo di Roma ha pregato per "l'ultimo viaggio" di Welby; e ugualmente ha fatto la comunità di base dell'Isolotto di Firenze, durante la veglia di Natale. E Maria Bonafade, moderatora della Tavola valdese, partecipando al funerale laico in piazza, ha detto di non comprendere "l'indisponibilità del Vicariato cattolico di Roma a celebrare un funerale cristiano per Welby". "Crediamo infatti, come cristiani evangelici, che la Parola della Grazia e dell'Amore di Dio possa essere annunciata di fronte ad ogni morte". (luca kocci)


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martedì 26 dicembre 2006



Veglia dell’Isolotto

Natale 2006

note di cronaca


Sono 37 anni che la Comunità dell’Isolotto celebra il Natale con una veglia che si ispira al presepio vivente di Greccio: le persone in carne ed ossa sono l’icona attuale di Gesù. E quest’anno la Veglia dell’Isolotto ha voluto testimoniare che la maternità di Maria s’incarna nella maternità delle tante “Marie” che vengono da lontano in cerca di speranza, di un futuro per i loro figli, madri spesso sole, donne con storie intense e di grande coraggio. Ma si incarna anche nelle esperienze, emozioni, problemi, fatiche delle madri della comunità, del quartiere, della città-mondo.

Le madri, è stato detto da alcune testimonianze, si sentono e sono un po’ tutte "straniere/migranti". Come la madre di Gesù, straniera a Betlemme, dove “per lei non ci fu posto” e si trovò a partorire in una stalla. Dare la vita è un'esperienza che pone in condizione obiettiva di estraneità rispetto alla cultura dell’alienazione, dell'esclusione, della guerra, e al tempo stesso dare la vita è dare impulso alla cultura del dono, dell’accoglienza, della nonviolenza, della pace universale. La cultura femminile, il "dare vita" non solo ai figli propri, è sognare un mondo in cui "il bambino lattante possa stendere la sua mano nella tana della vipera" come dice Isaia. Per questo la pace è donna.

La memoria della nascita di Gesù è stata fatta da un gruppo di bambini in forma di racconto. Tale racconto è stato elaborato in un laboratorio educativo, sulla base dei dati contenuti nei Vangeli anche apocrifi. Soprattutto il racconto della nascita di Gesù è stato inserito con pari dignità in una serie di altri racconti di nascite e di relazioni madri/figli, secondo una linea educativa che vuole dare consapevolezza dell’umanità piena del “Figlio dell’uomo”.

Non è mancata un’espressione di apprezzamento per la testimonianza alta e coraggiosa che ha dato Piergiorgio Welby e di solidarietà verso l’anziana madre Luciana e verso il suo desiderio, ufficialmente negato, di un accompagnamento ecclesiale del suo figliolo. Se il morire è un rinascere, come crede con forza la fede cristiana - è stato detto al momento della eucarestia -, la madre di Welby nel suo vivere questo “secondo parto” di suo figlio trova accoglienza piena qui all’Isolotto.

Dopo che per 37 anni il luogo della Veglia è stata la piazza dell’Isolotto, luogo aperto, precario, senza confini, quest’anno si è svolta, con una eccezionale partecipazione, nelle “Baracche”, luogo storico della solidarietà fin dall’alluvione. La Comunità ha voluto però dare un segno di continuità realizzando un percorso dalla piazza alle Baracche con una serie lumi e grandi pannelli magicamente dipinti dall’artista curdo Fuad Aziz, recanti simbologie di mani materne che cullano, carezzano, suonano nenie, nutrono, abbracciano.


Firenze 25 dicembre 2006



Veglia dell’Isolotto

Natale 2006

note di cronaca


Sono 37 anni che la Comunità dell’Isolotto celebra il Natale con una veglia che si ispira al presepio vivente di Greccio: le persone in carne ed ossa sono l’icona attuale di Gesù. E quest’anno la Veglia dell’Isolotto ha voluto testimoniare che la maternità di Maria s’incarna nella maternità delle tante “Marie” che vengono da lontano in cerca di speranza, di un futuro per i loro figli, madri spesso sole, donne con storie intense e di grande coraggio. Ma si incarna anche nelle esperienze, emozioni, problemi, fatiche delle madri della comunità, del quartiere, della città-mondo.

Le madri, è stato detto da alcune testimonianze, si sentono e sono un po’ tutte "straniere/migranti". Come la madre di Gesù, straniera a Betlemme, dove “per lei non ci fu posto” e si trovò a partorire in una stalla. Dare la vita è un'esperienza che pone in condizione obiettiva di estraneità rispetto alla cultura dell’alienazione, dell'esclusione, della guerra, e al tempo stesso dare la vita è dare impulso alla cultura del dono, dell’accoglienza, della nonviolenza, della pace universale. La cultura femminile, il "dare vita" non solo ai figli propri, è sognare un mondo in cui "il bambino lattante possa stendere la sua mano nella tana della vipera" come dice Isaia. Per questo la pace è donna.

La memoria della nascita di Gesù è stata fatta da un gruppo di bambini in forma di racconto. Tale racconto è stato elaborato in un laboratorio educativo, sulla base dei dati contenuti nei Vangeli anche apocrifi. Soprattutto il racconto della nascita di Gesù è stato inserito con pari dignità in una serie di altri racconti di nascite e di relazioni madri/figli, secondo una linea educativa che vuole dare consapevolezza dell’umanità piena del “Figlio dell’uomo”.

Non è mancata un’espressione di apprezzamento per la testimonianza alta e coraggiosa che ha dato Piergiorgio Welby e di solidarietà verso l’anziana madre Luciana e verso il suo desiderio, ufficialmente negato, di un accompagnamento ecclesiale del suo figliolo. Se il morire è un rinascere, come crede con forza la fede cristiana - è stato detto al momento della eucarestia -, la madre di Welby nel suo vivere questo “secondo parto” di suo figlio trova accoglienza piena qui all’Isolotto.

Dopo che per 37 anni il luogo della Veglia è stata la piazza dell’Isolotto, luogo aperto, precario, senza confini, quest’anno si è svolta, con una eccezionale partecipazione, nelle “Baracche”, luogo storico della solidarietà fin dall’alluvione. La Comunità ha voluto però dare un segno di continuità realizzando un percorso dalla piazza alle Baracche con una serie lumi e grandi pannelli magicamente dipinti dall’artista curdo Fuad Aziz, recanti simbologie di mani materne che cullano, carezzano, suonano nenie, nutrono, abbracciano.


Firenze 25 dicembre 2006

Piergiorgio Welby




Il video e l'audio del funerale qui.

Parla Mina, la moglie.



Parte finale.


 

Piergiorgio Welby




Il video e l'audio del funerale qui.

Parla Mina, la moglie.



Parte finale.


 

domenica 24 dicembre 2006

Welby

.. il Dio che ha rifiutato a Welby, come a decine di malati terminali, il diritto di essere aiutato a morire con dignità, il Dio a cui si appellano le forze politiche d'ispirazione cristiana contrarie a qualsiasi legge che regoli con saggezza l'eutanasia e altri aspetti dell'etica come le coppie di fatto, la fecondazione assistita, ecc., è lo stesso tenero bambinello del Natale, portatore di una profezia di universale rinascita? Sì, bisogna ammetterlo è lo stesso Dio. L'identificazione di Gesù col Dio onnipotente, creatore e padrone assoluto della vita e della morte, è frutto di una codificazione iniziata fin dai primi secoli dell'era cristiana, con qualche aggancio già nei Vangeli. Sta proprio in quella identificazione, la chiave della grande vittoria del cristianesimo e il suo affermarsi come religione dell'Impero. Il Dio della codificazione dogmatica cristiana scioglie i cuori quando è nella mangiatoia, incute terrore quando è sul trono simbolico dell'onnipotenza. Al fondo dei problemi etici che agitano il nostro tempo c'è questo Dio tenero per certi aspetti e terrificante per altri. Il cristianesimo codificato, al cui interno sempre c'è stata una ricerca alternativa condannata però come eretica, ha umanizzato Dio onnipotente ma non l'ha detronizzato.


Continua qui


L'ultimo saluto a Piergiorgio, invece, sarà una cerimonia laica. L'idea era di celebrarlo in Campidoglio. Il Comune, però, ha fatto sapere che raramente viene concessa quella piazza per i funerali, e ha offerto il Pantheon o piazza Campo de' Fiori. La famiglia ha preferito dare appuntamento alle 10,30 di domenica mattina in piazza don Bosco. Per Marco Pannella, leader dei Radicali, si tratta, in fondo, di «una grande occasione perché il popolo possa esprimere una profonda e laica religiosità», contro «questa persecuzione che continua, anche sul cadavere di Piero». Da parte di una chiesa che si comporta «come una minoranza assediata, che ha rinunciato a convincere e vuole solo ordinare».

Continua qui


«In Senato stiamo preparando una legge sul testamento biologico. Uno strumento però che colma solo una parte del vuoto legislativo sui temi di fine vita e che lascia fuori casi come quello di Welby».


prima come medico e poi come politico, sento una frustrazione violenta per il dramma che Welby e la sua famiglia stanno vivendo. Per loro è una risposta terribile. La politica, i medici e adesso anche la giustizia spendono parole assennate per approfondimenti intellettuali anche importanti e interessanti, ma non sono in grado di dare risposte concrete.


come medico penso che la valutazione non possa che essere personale: solo il paziente può decidere se l'intervento chirurgico o la chemioterapia o l'emodialisi che gli potrebbero salvare la vita sono accettabili e appropriati o se li rifiuta perché li considera accanimento terapeutico. Nel caso di Welby si tratta di accanimento terapeutico perché lui stesso, da anni, lo considera tale.


Le norme che garantiscono il diritto all'autodeterminazione nella scelta della cura ci sono: sia nella Costituzione, agli articoli 32 e 13, che nella dichiarazione comunitaria di Oviedo sui temi della bioetica cui si rifanno tutti i paesi europei. Ma è anche vero, come ha scritto il giudice, che manca il diritto positivo, una norma chiara che possa esaudire le richieste di Welby.


L'articolo intero qui


Coraggio, amici: i sogni si realizzano; senza questa possibilità, la natura non ci spingerebbe a farne. John Updike

Welby

.. il Dio che ha rifiutato a Welby, come a decine di malati terminali, il diritto di essere aiutato a morire con dignità, il Dio a cui si appellano le forze politiche d'ispirazione cristiana contrarie a qualsiasi legge che regoli con saggezza l'eutanasia e altri aspetti dell'etica come le coppie di fatto, la fecondazione assistita, ecc., è lo stesso tenero bambinello del Natale, portatore di una profezia di universale rinascita? Sì, bisogna ammetterlo è lo stesso Dio. L'identificazione di Gesù col Dio onnipotente, creatore e padrone assoluto della vita e della morte, è frutto di una codificazione iniziata fin dai primi secoli dell'era cristiana, con qualche aggancio già nei Vangeli. Sta proprio in quella identificazione, la chiave della grande vittoria del cristianesimo e il suo affermarsi come religione dell'Impero. Il Dio della codificazione dogmatica cristiana scioglie i cuori quando è nella mangiatoia, incute terrore quando è sul trono simbolico dell'onnipotenza. Al fondo dei problemi etici che agitano il nostro tempo c'è questo Dio tenero per certi aspetti e terrificante per altri. Il cristianesimo codificato, al cui interno sempre c'è stata una ricerca alternativa condannata però come eretica, ha umanizzato Dio onnipotente ma non l'ha detronizzato.


Continua qui


L'ultimo saluto a Piergiorgio, invece, sarà una cerimonia laica. L'idea era di celebrarlo in Campidoglio. Il Comune, però, ha fatto sapere che raramente viene concessa quella piazza per i funerali, e ha offerto il Pantheon o piazza Campo de' Fiori. La famiglia ha preferito dare appuntamento alle 10,30 di domenica mattina in piazza don Bosco. Per Marco Pannella, leader dei Radicali, si tratta, in fondo, di «una grande occasione perché il popolo possa esprimere una profonda e laica religiosità», contro «questa persecuzione che continua, anche sul cadavere di Piero». Da parte di una chiesa che si comporta «come una minoranza assediata, che ha rinunciato a convincere e vuole solo ordinare».

Continua qui


«In Senato stiamo preparando una legge sul testamento biologico. Uno strumento però che colma solo una parte del vuoto legislativo sui temi di fine vita e che lascia fuori casi come quello di Welby».


prima come medico e poi come politico, sento una frustrazione violenta per il dramma che Welby e la sua famiglia stanno vivendo. Per loro è una risposta terribile. La politica, i medici e adesso anche la giustizia spendono parole assennate per approfondimenti intellettuali anche importanti e interessanti, ma non sono in grado di dare risposte concrete.


come medico penso che la valutazione non possa che essere personale: solo il paziente può decidere se l'intervento chirurgico o la chemioterapia o l'emodialisi che gli potrebbero salvare la vita sono accettabili e appropriati o se li rifiuta perché li considera accanimento terapeutico. Nel caso di Welby si tratta di accanimento terapeutico perché lui stesso, da anni, lo considera tale.


Le norme che garantiscono il diritto all'autodeterminazione nella scelta della cura ci sono: sia nella Costituzione, agli articoli 32 e 13, che nella dichiarazione comunitaria di Oviedo sui temi della bioetica cui si rifanno tutti i paesi europei. Ma è anche vero, come ha scritto il giudice, che manca il diritto positivo, una norma chiara che possa esaudire le richieste di Welby.


L'articolo intero qui


Coraggio, amici: i sogni si realizzano; senza questa possibilità, la natura non ci spingerebbe a farne. John Updike

sabato 23 dicembre 2006

 


Un onore per noi Baraccheverdi essere il Presepe del Natale 2006, qui all'Isolotto.

Terremo al caldo mamme e bambini.



Un augurio pieno di speranza

                                      

Natività: essere madri oggi.


E’ questo il tema su cui si svolgerà la Veglia di Natale della Comunità dell’Isolotto a Firenze, che inizierà alle ore 22,30 del 24 dicembre 2006.


Quest’anno, per la prima volta dopo quasi quarant’anni, anziché in piazza la faremo alle "Baracche", in via degli Aceri 1.


La Veglia si svolgerà in collaborazione con l’Associazione "F.a.t.e" impegnata da tempo nell’accoglienza e ascolto di madri sole, immigrate, che arrivano a Firenze per gravi motivi familiari o per motivi legati alla cure sanitarie dei bambini molto spesso malati. Un modo di celebrare la natività dalla parte delle madri, delle tante Marie, che vengono da lontano in cerca di speranza, di un futuro migliore per i loro figli. Le loro storie di madri si intrecceranno con le esperienze, le emozioni, i problemi, la fatica di tutti noi: madri, figli, padri del quartiere, della città-mondo.


La memoria della maternità di Maria e della nascita di Gesù verrà fatta da un gruppo di bambini in forma di racconto. Tale racconto è stato elaborato in un laboratorio educativo, sulla base dei dati contenuti dei Vangeli anche apocrifi. Soprattutto il racconto della nascita di Gesù è stato inserito con pari dignità in una serie di altri racconti di nascite e di relazioni madri/figli, secondo una linea educativa che vuole dare consapevolezza dell’umanità del "figlio dell’uomo", liberando Gesù e sua madre dalle mitizzazioni, le quali hanno avuto un loro significato nella storia ma che oggi vanno rielaborate.


"Maternità" è un argomento forte e intrigante. Essere madri non è solo dare la vita in senso biologico. E già questo è il grande miracolo che si rinnova ad ogni concepimento, gestazione e parto. Ma essere madri coinvolge e rigenera e ricrea tutti gli aspetti dell’esistenza della specie umana: la trasmissione del Dna in primo luogo, ma di uguale importanza è anche la trasmissione del senso della vita, del perché si vive, un perché da tutti noi succhiato col latte materno, la trasmissione della memoria della specie, la sapienza secolare, la capacità di adattamento e di relazione, gli strumenti di comunicazione (la parola, la lingua materna …), la prima messa in moto delle capacità di riconoscere e gestire i sentimenti e di procurarsi i mezzi di sussitenza (pensiamo anche solo alla ricerca del seno materno per succhiare il latte, il pianto della fame, primo nostro grande impegno, dopo il respiro, appena usciti dal ventre materno!)…


Essere madri è dare luce, calore, sicurezza, protezione, tenerezza. Quante cose ci sarebbero da dire, che fanno parte della esperienza di tutti noi: delle madri, dei figli e anche dei padri!


Ma tutto questo ha un risvolto di rischio: il pericolo della maternità di essere di ostacolo alla libera crescita dei figli imprigionandoli in una "abbraccio" soffocante; la fatica di dover tagliare ogni giorno, anzi ogni momento, in senso figurato, il cordone ombelicale; la sofferenza e i sensi di colpa del dover dire dei "no"; il rischio di trasmettere oltre ai valori anche i disvalori della società; il peso di educare alla diversità e non all’omologazione; la difficoltà nel trovare luoghi e relazioni per socializzare i problemi educativi e per vivere la maternità in forma aperta e non come possesso esclusivo, maternità verso tutti i bambini e non solo verso il "mio" figlio/a.


Al fondo di tutto c’è un problema di "accoglienza" della maternità, del "dare vita". Forse lo stesso racconto della natività che leggiamo nel Vangelo più che un racconto storico è l’eco del senso del rifiuto ancestrale che la società "bene" di ogni tempo oppone alla maternità nei suoi valori più alti, al "dare vita" non solo in senso biologico ma in senso culturale ed esistenziale. La cultura patriarcale sfrutta, come si sa bene, la donna, la sua capacità biologica di dare vita, ma rifiuta la cultura femminile della maternità. E così Maria si trovò a partorire in una stalla perché "per lei non c’era posto nell’albergo". Ma nel Vangelo c’è anche il senso dell’accoglienza verso la vita che nasce espresso da realtà emarginate dalla stessa società "bene", ad esempio i pastori.


E questo dell’accoglienza verso la maternità è oggi un problema particolarmente grave poiché oggi il senso della vita si fonda sul possesso, sul danaro, sul successo individuale, sulla competizione di tutti contro tutti, sull’avere anziché sull’essere, fino a poter dire estremizzando un po’ che la società in cui si realizza oggi la maternità è dominata dalla tendenza a dare la morte piuttosto che la vita. Per cui le madri, costrette ad andare contro corrente per dare vita in senso pieno, si sentono un po’ straniere tutte e non solo quelle che vengono qui da paesi lontani. Le madri sono coccolate, gli si danno sussidi e sostegni, ma sono poco più che contentini perché la loro vita si fa sempre più difficile.


Le madri, ci siamo detti negli incontri per preparare la Veglia, si sentono e sono tutte "straniere/migranti". Dare la vita è un'esperienza che pone in condizione obiettiva di estraneità rispetto alla cultura dell’alienazione, dell'esclusione, della guerra, e al tempo stesso dare la vita è dare impulso alla transizione (la migrazione) sognata e voluta da tante e da tanti verso una cultura della vita, della nonviolenza, della pace universale. L’emersione della cultura femminile, il "dare vita", il sognare un mondo in cui "il bambino lattante possa stendere la sua mano nella tana della vipera" (la profezia di Isaia), l’affermarsi della soggettività femminile in ogni ambito della società, sono la nostra principale risorsa. La pace è donna.


                                                                La Comunità dell’Isolotto Natale 2006


 Nativity: being a mother today.


The theme for this year’s Christmas Eve vigil of the Comunità dell’Isolotto in Florence, beginning at 10.30 pm on 24 December 2006.


For the first time in almost 40 years, instead of in the open air it will be held at the "Baracche", in via degli Aceri 1.


The celebration will be held jointly with the “F.a.t.e” association which is involved in welcoming and listening to single and immigrant mothers who come to Florence for serious family reasons or because their children are often ill and in need of medical care. This is a way of celebrating how the Nativity is perceived by mothers, the many Marys, who come from far away in search of hope and a better future for their children. Their stories of motherhood blend in with the experiences, emotions, problems and trials of us all, mothers, sons, and fathers of the neighbourhood and of the city-world.


The memory of the motherhood of Mary and the birth of Jesus will be recited by a group of children in the form of a story. This story was written in an educational laboratory and is based on information contained in the Gospels, including the Apocrypha. In particular, the story of the birth of Jesus was given the same status within the stories of other births and son-mother relationships in accordance with an educational approach that seeks to heighten awareness of the humanity of “the son of man” and which frees Jesus and his mother from the realms of myth which have had importance throughout history but which should be reviewed today.


 “Maternity” is a heady, intriguing issue. Being a mother does not only involve giving life in the biological sense – itself a great miracle repeated with every conception, gestation and birth. It also implies the regeneration and recreation of every single factor of the existence of humankind; first and foremost the passing on of DNA but, equally, the passing on of the sense of life, of why we live, the why that we all drink with our mother’s milk, the passing on of the memory of the species, the knowledge gained over the millennia, the ability to adapt and relate to others, the tools of communication (speech, mother tongue…) the first moves towards recognising and handling feelings and the spirit of survival (like the search for the mother’s breast to suck, the cry of hunger, our first big job as soon as we come into the world after starting to breathe!)…


Being a mother means giving light, warmth, security, protection and tenderness and much, much more which are part of us all – mothers, sons but fathers too!


But there is an element of risk in all this. The danger of motherhood being a hindrance to the free growth of children by imprisoning them in a suffocating “embrace”. The fatigue of having to metaphorically cut the umbilical cord every day, or even every minute. The suffering and feelings of guilt that come from having to say “no”. The danger of passing on the negative values of society as well as the positive ones. The burden of educating towards a culture of diversity instead of rubber stamped homologation. The difficulty of finding places and relationships for socializing the problems of education and for experiencing maternity openly and not as an exclusive possession, a maternity towards all children and not just towards “my” son or daughter.


Underneath it all there lies the issue of “welcoming” maternity, the “giving of life”. Perhaps more than just a chronicle of history, the story of the Nativity that we read in the Gospel echoes the ancestral sense of rejection that the established society of every era has erected to oppose the noblest values of maternity, not only the giving of life in the biological sense, but also the cultural and existential aspects too. We know how patriarchal cultures exploit women and their biological capacity to give life while spurning the female culture of maternity. And this is why Mary had to give birth in a stable “because for her there was no room at the inn”. But the Gospel also has the spirit of welcoming life being born, expressed by those who are marginalised by established society, for example the shepherds.


And this issue of welcoming maternity is a particularly thorny problem today because the sense of life is based on possession, money, individual success, on a free-for-all competition and on having rather than being, even to the point, perhaps rather extreme, that the society in which maternity takes place today is dominated by the tendency to give death rather than life. This is why all mothers, not just those who come from far away, have to struggle against the current to give life in its fullest sense. Mothers are cosseted, given grants and support but these are little more than sweeteners because their real life gets increasingly hard.


In preparing for this Christmas Eve vigil, we agreed that all mothers are and feel “foreigners and migrants”. Giving life is something that objectively sets the mother apart from the culture of alienation, exclusion and war, while giving life means giving strength to a transition (migration) dreamed of and sought after by many women and men towards a culture of life, non-violence and universal peace. The emergence of female culture, the “giving of life”, dreaming a world in which “The infant will play near the hole of the cobra, and the young child put his hand into the viper's nest.” (the prophesy of Isaiah 11:1-10), the affirmation of female subjectivity in every part of society, are our greatest resource. Peace is a woman.


The Comunità dell’Isolotto


Christmas 2006


(Thanks to Donald Bathgate for the translation)

 


Un onore per noi Baraccheverdi essere il Presepe del Natale 2006, qui all'Isolotto.

Terremo al caldo mamme e bambini.



Un augurio pieno di speranza

                                      

Natività: essere madri oggi.


E’ questo il tema su cui si svolgerà la Veglia di Natale della Comunità dell’Isolotto a Firenze, che inizierà alle ore 22,30 del 24 dicembre 2006.


Quest’anno, per la prima volta dopo quasi quarant’anni, anziché in piazza la faremo alle "Baracche", in via degli Aceri 1.


La Veglia si svolgerà in collaborazione con l’Associazione "F.a.t.e" impegnata da tempo nell’accoglienza e ascolto di madri sole, immigrate, che arrivano a Firenze per gravi motivi familiari o per motivi legati alla cure sanitarie dei bambini molto spesso malati. Un modo di celebrare la natività dalla parte delle madri, delle tante Marie, che vengono da lontano in cerca di speranza, di un futuro migliore per i loro figli. Le loro storie di madri si intrecceranno con le esperienze, le emozioni, i problemi, la fatica di tutti noi: madri, figli, padri del quartiere, della città-mondo.


La memoria della maternità di Maria e della nascita di Gesù verrà fatta da un gruppo di bambini in forma di racconto. Tale racconto è stato elaborato in un laboratorio educativo, sulla base dei dati contenuti dei Vangeli anche apocrifi. Soprattutto il racconto della nascita di Gesù è stato inserito con pari dignità in una serie di altri racconti di nascite e di relazioni madri/figli, secondo una linea educativa che vuole dare consapevolezza dell’umanità del "figlio dell’uomo", liberando Gesù e sua madre dalle mitizzazioni, le quali hanno avuto un loro significato nella storia ma che oggi vanno rielaborate.


"Maternità" è un argomento forte e intrigante. Essere madri non è solo dare la vita in senso biologico. E già questo è il grande miracolo che si rinnova ad ogni concepimento, gestazione e parto. Ma essere madri coinvolge e rigenera e ricrea tutti gli aspetti dell’esistenza della specie umana: la trasmissione del Dna in primo luogo, ma di uguale importanza è anche la trasmissione del senso della vita, del perché si vive, un perché da tutti noi succhiato col latte materno, la trasmissione della memoria della specie, la sapienza secolare, la capacità di adattamento e di relazione, gli strumenti di comunicazione (la parola, la lingua materna …), la prima messa in moto delle capacità di riconoscere e gestire i sentimenti e di procurarsi i mezzi di sussitenza (pensiamo anche solo alla ricerca del seno materno per succhiare il latte, il pianto della fame, primo nostro grande impegno, dopo il respiro, appena usciti dal ventre materno!)…


Essere madri è dare luce, calore, sicurezza, protezione, tenerezza. Quante cose ci sarebbero da dire, che fanno parte della esperienza di tutti noi: delle madri, dei figli e anche dei padri!


Ma tutto questo ha un risvolto di rischio: il pericolo della maternità di essere di ostacolo alla libera crescita dei figli imprigionandoli in una "abbraccio" soffocante; la fatica di dover tagliare ogni giorno, anzi ogni momento, in senso figurato, il cordone ombelicale; la sofferenza e i sensi di colpa del dover dire dei "no"; il rischio di trasmettere oltre ai valori anche i disvalori della società; il peso di educare alla diversità e non all’omologazione; la difficoltà nel trovare luoghi e relazioni per socializzare i problemi educativi e per vivere la maternità in forma aperta e non come possesso esclusivo, maternità verso tutti i bambini e non solo verso il "mio" figlio/a.


Al fondo di tutto c’è un problema di "accoglienza" della maternità, del "dare vita". Forse lo stesso racconto della natività che leggiamo nel Vangelo più che un racconto storico è l’eco del senso del rifiuto ancestrale che la società "bene" di ogni tempo oppone alla maternità nei suoi valori più alti, al "dare vita" non solo in senso biologico ma in senso culturale ed esistenziale. La cultura patriarcale sfrutta, come si sa bene, la donna, la sua capacità biologica di dare vita, ma rifiuta la cultura femminile della maternità. E così Maria si trovò a partorire in una stalla perché "per lei non c’era posto nell’albergo". Ma nel Vangelo c’è anche il senso dell’accoglienza verso la vita che nasce espresso da realtà emarginate dalla stessa società "bene", ad esempio i pastori.


E questo dell’accoglienza verso la maternità è oggi un problema particolarmente grave poiché oggi il senso della vita si fonda sul possesso, sul danaro, sul successo individuale, sulla competizione di tutti contro tutti, sull’avere anziché sull’essere, fino a poter dire estremizzando un po’ che la società in cui si realizza oggi la maternità è dominata dalla tendenza a dare la morte piuttosto che la vita. Per cui le madri, costrette ad andare contro corrente per dare vita in senso pieno, si sentono un po’ straniere tutte e non solo quelle che vengono qui da paesi lontani. Le madri sono coccolate, gli si danno sussidi e sostegni, ma sono poco più che contentini perché la loro vita si fa sempre più difficile.


Le madri, ci siamo detti negli incontri per preparare la Veglia, si sentono e sono tutte "straniere/migranti". Dare la vita è un'esperienza che pone in condizione obiettiva di estraneità rispetto alla cultura dell’alienazione, dell'esclusione, della guerra, e al tempo stesso dare la vita è dare impulso alla transizione (la migrazione) sognata e voluta da tante e da tanti verso una cultura della vita, della nonviolenza, della pace universale. L’emersione della cultura femminile, il "dare vita", il sognare un mondo in cui "il bambino lattante possa stendere la sua mano nella tana della vipera" (la profezia di Isaia), l’affermarsi della soggettività femminile in ogni ambito della società, sono la nostra principale risorsa. La pace è donna.


                                                                La Comunità dell’Isolotto Natale 2006


 Nativity: being a mother today.


The theme for this year’s Christmas Eve vigil of the Comunità dell’Isolotto in Florence, beginning at 10.30 pm on 24 December 2006.


For the first time in almost 40 years, instead of in the open air it will be held at the "Baracche", in via degli Aceri 1.


The celebration will be held jointly with the “F.a.t.e” association which is involved in welcoming and listening to single and immigrant mothers who come to Florence for serious family reasons or because their children are often ill and in need of medical care. This is a way of celebrating how the Nativity is perceived by mothers, the many Marys, who come from far away in search of hope and a better future for their children. Their stories of motherhood blend in with the experiences, emotions, problems and trials of us all, mothers, sons, and fathers of the neighbourhood and of the city-world.


The memory of the motherhood of Mary and the birth of Jesus will be recited by a group of children in the form of a story. This story was written in an educational laboratory and is based on information contained in the Gospels, including the Apocrypha. In particular, the story of the birth of Jesus was given the same status within the stories of other births and son-mother relationships in accordance with an educational approach that seeks to heighten awareness of the humanity of “the son of man” and which frees Jesus and his mother from the realms of myth which have had importance throughout history but which should be reviewed today.


 “Maternity” is a heady, intriguing issue. Being a mother does not only involve giving life in the biological sense – itself a great miracle repeated with every conception, gestation and birth. It also implies the regeneration and recreation of every single factor of the existence of humankind; first and foremost the passing on of DNA but, equally, the passing on of the sense of life, of why we live, the why that we all drink with our mother’s milk, the passing on of the memory of the species, the knowledge gained over the millennia, the ability to adapt and relate to others, the tools of communication (speech, mother tongue…) the first moves towards recognising and handling feelings and the spirit of survival (like the search for the mother’s breast to suck, the cry of hunger, our first big job as soon as we come into the world after starting to breathe!)…


Being a mother means giving light, warmth, security, protection and tenderness and much, much more which are part of us all – mothers, sons but fathers too!


But there is an element of risk in all this. The danger of motherhood being a hindrance to the free growth of children by imprisoning them in a suffocating “embrace”. The fatigue of having to metaphorically cut the umbilical cord every day, or even every minute. The suffering and feelings of guilt that come from having to say “no”. The danger of passing on the negative values of society as well as the positive ones. The burden of educating towards a culture of diversity instead of rubber stamped homologation. The difficulty of finding places and relationships for socializing the problems of education and for experiencing maternity openly and not as an exclusive possession, a maternity towards all children and not just towards “my” son or daughter.


Underneath it all there lies the issue of “welcoming” maternity, the “giving of life”. Perhaps more than just a chronicle of history, the story of the Nativity that we read in the Gospel echoes the ancestral sense of rejection that the established society of every era has erected to oppose the noblest values of maternity, not only the giving of life in the biological sense, but also the cultural and existential aspects too. We know how patriarchal cultures exploit women and their biological capacity to give life while spurning the female culture of maternity. And this is why Mary had to give birth in a stable “because for her there was no room at the inn”. But the Gospel also has the spirit of welcoming life being born, expressed by those who are marginalised by established society, for example the shepherds.


And this issue of welcoming maternity is a particularly thorny problem today because the sense of life is based on possession, money, individual success, on a free-for-all competition and on having rather than being, even to the point, perhaps rather extreme, that the society in which maternity takes place today is dominated by the tendency to give death rather than life. This is why all mothers, not just those who come from far away, have to struggle against the current to give life in its fullest sense. Mothers are cosseted, given grants and support but these are little more than sweeteners because their real life gets increasingly hard.


In preparing for this Christmas Eve vigil, we agreed that all mothers are and feel “foreigners and migrants”. Giving life is something that objectively sets the mother apart from the culture of alienation, exclusion and war, while giving life means giving strength to a transition (migration) dreamed of and sought after by many women and men towards a culture of life, non-violence and universal peace. The emergence of female culture, the “giving of life”, dreaming a world in which “The infant will play near the hole of the cobra, and the young child put his hand into the viper's nest.” (the prophesy of Isaiah 11:1-10), the affirmation of female subjectivity in every part of society, are our greatest resource. Peace is a woman.


The Comunità dell’Isolotto


Christmas 2006


(Thanks to Donald Bathgate for the translation)

venerdì 22 dicembre 2006

La scuola popolare qui alle baraccheverdi

(raccontata da un protagonista) 

Proverò a raccontarvi la storia della Scuola Popolare. Subito dopo l’alluvione un gruppo composto, per quello che  ricordo ora, da Elio Pasca, Paolo Bencivenni, Leonardo Angeloni, Orlando Tanara, Giampaolo Taurini, Bianca Elia, Giovanni Cipani e il sottoscritto, discutemmo l’idea di far nascere nella Parrocchia (allora eravate ancora parroci) una scuola popolare sull’esempio di quella di don Milani.

Don Milani, che io conoscevo da diverso tempo,  aveva suggerito più di una volta a me e a Vittorio Lampronti di far nascere una scuola popolare a Firenze e possibilmente alla Galileo o alla Pignone.

Questo gruppo decise di recarsi a Barbiana per parlare con don Lorenzo, ci andammo sicuramente due o tre volte e nonostante i modi un po’ bruschi di don Milani ci fu dato pieno appoggio a questa nostra idea.

A Firenze poi discutemmo come fare a lanciare l’idea della Scuola Popolare all’Isolotto e siccome a Maggio del ’67 uscì il libro “Lettera ad una Professoressa” decidemmo di diffonderlo nel nostro ambiente e ne comprammo alla LEF alcune centinaia di copie pagandole e rivendendole a 500 £. (il prezzo di copertina era di 700 £). L’idea ebbe un bel successo tanto che potemmo aumentare il numero dei professori per la futura Scuola Popolare. (Mario Bencivenni, Serena Sibani Zolo, Alfredo Lunghini, Stefano Lippi, Giovanni Cipani, due ragazze Americane che insegnavano l’inglese, Eliseo Ventura,  Maurizio Ranieri, Aldo Pasca, ed altri che non ricordo).

Il secondo passo fu di discutere che tipo di scuola fare e qui ci furono numerosi scontri con Giampaolo Taurini che voleva una scuola legata alla politica (dei partiti) mentre noi decidemmo di farla rivolta ai problemi della condizione sociale , del lavoro e della cultura popolare. Questa decisione ci fece capire che per fare una scuola nozionistica e di solo recupero sarebbe stato sufficiente un solo anno scolastico mentre per la scuola che volevamo fare noi occorrevano, come poi decidemmo, due anni scolastici.

Infine l’ultimo problema erano i locali, c’erano le baracche verdi di proprietà del Comune e c’era la Parrocchia con i suoi locali, ne parlammo con Enzo il quale ci suggerì di sentire l’Amministrazione Comunale se ci poteva affittare le baracche. Mi recai dall’Assessore e l’affitto ci fu concesso per 10.000.£. annui che furono pagate dalla Scuola Popolare almeno fino a quando ci sono stato io (1972). Un altro problema fu di separare la zona di ricreazione (Campo di pallavolo e di calcio) dalla zona della scuola perché era una continua invasione di palloni e di ragazzi che disturbavano. Mi recai in Comune e l’economato ci fornì i pali e la rete per fare la recinzione, cosa che mettemmo in opera con i ragazzi della Scuola Popolare.     

Prima di incominciare la scuola decidemmo di fare alcune iniziative di promozione e la più riuscita fu quella con il cantautore Ivan Della Mea. Nella baracca centrale c’era una ressa incredibile di giovani, annunciammo l’inizio della Scuola Popolare per il Settembre (1967) e poi Ivan suonò fino a mezzanotte, la mattina dopo ci furono le proteste della gente per la troppa confusione.

A Settembre mettemmo dei manifestini nei bar e all’edicola per annunciare che sarebbe nata una scuola popolare per il recupero di coloro che non avevano raggiunto la licenza della scuola media; la scuola avrebbe tenuto lezione dal Lunedì al Venerdì dalle ore 21 alle ore 23, sarebbe  durata due anni e alla fine coloro che avevano partecipato avrebbero sostenuto l’esame alla scuola media statale. Fu un successo incredibile, si iscrissero 28 “allievi” di tutte le età dai 18 ai 60 anni. Noi “insegnanti” eravamo emozionati, tutte le sere ci riunivamo per discutere i contenuti didattici della scuola e per preparare i locali, ci volle una intera giornata per sistemare il gabinetto che era quasi impraticabile e la cassetta dell’acqua non ne voleva sapere di funzionare!    

La prima classe tenne le lezioni nei locali dove ora c’è la segreteria della Comunità. Per tutto l’anno scolastico (da Settembre a Giugno) fu un grande dibattito, un grande confronto. Oltre gli insegnanti fissi di ogni sera c’erano spesso gli interventi esterni, uno dei più interessanti fu del Prof. Domenico Maselli sulla storia delle religioni, la sua partecipazione durò alcune serate e per lui fu un grande sacrificio perché abitava A Lucca.     

Molta attenzione fu riservata anche alla lezione  sulla Costituzione tenuta da Danilo Zolo, mentre venne una sera a parlare dell’esperienza della parrocchia dell’Isolotto, Enzo Mazzi.

Finimmo l’anno scolastico con 25 alunni, tre si erano persi perché per i più giovani era veramente una grande fatica fare scuola tutte le sere. Ricordo in particolare che  Giuseppe lo perdemmo due volte e per due volte lo recuperammo al bar di via Torcicoda. Quando  prese la licenza di scuola media ci festeggiò con tale entusiasmo che ne fummo sbalorditi.

Nel 1968 si ripresentarono puntualmente coloro che avevano fatto il primo anno, ma con grande stupore c’erano altri 30 ragazzi nuovi che volevano fare la Scuola Popolare, avevamo voglia di spiegare che non potevano partecipare alle lezioni della classe che aveva iniziato l’anno precedente, la loro insistenza fu così tanta che decidemmo  di fare scuola con due classi, una prima ed una seconda, il problema fu di trovare i nuovi insegnanti ma ci riuscimmo e l’anima di questa seconda classe furono la Sandrina Cammelli e suo marito Giuliano Dolfi.

Così la scuola si era raddoppiata ed ogni anno continuammo con due classi indipendenti l’una dall’altra ma con lo stesso metodo e lo stesso risultato.

Comunque in quell’anno portammo la prima classe all’esame alla scuola media statale, preparammo molto bene l’esame (alcuni ragazzi fecero “ripasso” in casa della Sandra Zani) ed incontrammo a più riprese il preside della Barsanti il quale fu molto disponibile e ci fece incontrare più di una volta con i professori che avrebbero fatto l’esame. Il risultato fu un grande successo e  i ragazzi che si presentarono, cosa che con due classi avvenne tutti gli anni, furono regolarmente promossi.

La scuola, dopo il 1969, si collocò nelle due aule staccate dal complesso principale, mentre negli altri locali subentrò la Comunità che era uscita dai locali della Parrocchia essendo state restituite le chiavi della chiesa al Vicario Mons. Panerai.

Il fenomeno delle Scuole Popolari era dilagato in tutta Italia e la nostra scuola aveva rapporti con tantissime scuole che ci scrivevano in maniera molto assidua, tanto che ci venne l’idea di fare un convegno nazionale sulle Scuole Popolari. Per realizzare il convegno cercai un contatto con Michele Gesualdi, ragazzo di Barbiana, il quale a quei tempi faceva il sindacalista alla CISL e teneva a Sesto Fiorentino, dove abitava, una scuola popolare.

La reazione di Gesualdi fu negativa e molto aspra, lui disse non avrebbe mai collaborato con noi dell’Isolotto perché facevamo scuola nell’interesse del partito comunista. Evidentemente in quel  momento nel mondo cattolico ci descrivevano come dei comunisti.

Il Convegno ebbe una grande affluenza  sia da nord che da sud Italia e ricordo che c’erano posizioni le più disparate, dai rivoluzionari ai pacifisti, la maggioranza erano cattolici ma comunque questa partecipazione  ci fece capire che il fenomeno delle scuole popolari aveva una diffusione impressionante.

Negli anni settanta venne attuata la proposta delle 150 ore, mi ricordo che ne andammo a discutere, con molte difficoltà, alla Camera del Lavoro in Borgo dei Greci, con Sacconi. Noi della Scuola Popolare consigliammo di fare le 150 ore in due anni scolastici, ma il sindacato voleva una scuola nozionistica che fosse in grado di far ottenere la licenza di scuola media nel più breve tempo possibile, come poi è avvenuto.

Nel 1973 fui trasferito, dalla società nella quale lavoravo, ad Arezzo per cui lasciai la Scuola Popolare dopo sei anni di intenso lavoro e l’eredità diretta fu presa da Paolo Bencivenni il quale  ha riferito che la scuola durò fino al 1975/76 e successivamente si trasformò nel comitato di gestione della Biblioteca di quartiere.

Complessivamente quindi la Scuola Popolare dell’Isolotto è durata 10 anni (1967-1976) e ha avuto circa 400 alunni, dei quali sicuramente il 90% ha conseguito la licenza della scuola media, comunque tutti hanno avuto un grande segno di solidarietà umana, e  hanno capito che la Comunità dell’Isolotto sapeva farsi carico dei problemi della propria gente. 



Vorrei raccontarvi, in finale, la storia di tre allievi: Sergio, Michela e Otello.

Sergio era un sindacalista della fabbrica Moranduzzo e Michela la sua ragazza, si iscrissero nel 1970 ed erano tra i più impegnati. Sergio aveva già la licenza di scuola media ma nei due anni non ne parlò mai, lui faceva tutte le sere la scuola per aiutare la sua ragazza Michela la quale proveniva dal meridione  dove lavorava in famiglia badando le pecore. Divenimmo amici e li ho a lungo seguiti, dopo la scuola media  Michela si è diplomata nella scuola media superiore e ora fa l’infermiera in ospedale ed è felicemente sposata con due bambini.

Otello aveva cinquantanni ed era  commesso presso un negozio di accessori d’auto, lui non aveva bisogno della licenza di scuola media ma studiava lo stesso, nonostante il sacrificio, per la sua dignità e per sua figlia la quale faceva la scuola media superiore, per esserle come un esempio nel dovere dello studio.

Otello fu per la Scuola Popolare  un grande stimolo di solidarietà, dopo due anni morì per un tumore e noi tutti della scuola ci impegnammo ad aiutare economicamente, per qualche tempo, la sua famiglia.   

    Giancarlo Zani

La scuola popolare qui alle baraccheverdi

(raccontata da un protagonista) 

Proverò a raccontarvi la storia della Scuola Popolare. Subito dopo l’alluvione un gruppo composto, per quello che  ricordo ora, da Elio Pasca, Paolo Bencivenni, Leonardo Angeloni, Orlando Tanara, Giampaolo Taurini, Bianca Elia, Giovanni Cipani e il sottoscritto, discutemmo l’idea di far nascere nella Parrocchia (allora eravate ancora parroci) una scuola popolare sull’esempio di quella di don Milani.

Don Milani, che io conoscevo da diverso tempo,  aveva suggerito più di una volta a me e a Vittorio Lampronti di far nascere una scuola popolare a Firenze e possibilmente alla Galileo o alla Pignone.

Questo gruppo decise di recarsi a Barbiana per parlare con don Lorenzo, ci andammo sicuramente due o tre volte e nonostante i modi un po’ bruschi di don Milani ci fu dato pieno appoggio a questa nostra idea.

A Firenze poi discutemmo come fare a lanciare l’idea della Scuola Popolare all’Isolotto e siccome a Maggio del ’67 uscì il libro “Lettera ad una Professoressa” decidemmo di diffonderlo nel nostro ambiente e ne comprammo alla LEF alcune centinaia di copie pagandole e rivendendole a 500 £. (il prezzo di copertina era di 700 £). L’idea ebbe un bel successo tanto che potemmo aumentare il numero dei professori per la futura Scuola Popolare. (Mario Bencivenni, Serena Sibani Zolo, Alfredo Lunghini, Stefano Lippi, Giovanni Cipani, due ragazze Americane che insegnavano l’inglese, Eliseo Ventura,  Maurizio Ranieri, Aldo Pasca, ed altri che non ricordo).

Il secondo passo fu di discutere che tipo di scuola fare e qui ci furono numerosi scontri con Giampaolo Taurini che voleva una scuola legata alla politica (dei partiti) mentre noi decidemmo di farla rivolta ai problemi della condizione sociale , del lavoro e della cultura popolare. Questa decisione ci fece capire che per fare una scuola nozionistica e di solo recupero sarebbe stato sufficiente un solo anno scolastico mentre per la scuola che volevamo fare noi occorrevano, come poi decidemmo, due anni scolastici.

Infine l’ultimo problema erano i locali, c’erano le baracche verdi di proprietà del Comune e c’era la Parrocchia con i suoi locali, ne parlammo con Enzo il quale ci suggerì di sentire l’Amministrazione Comunale se ci poteva affittare le baracche. Mi recai dall’Assessore e l’affitto ci fu concesso per 10.000.£. annui che furono pagate dalla Scuola Popolare almeno fino a quando ci sono stato io (1972). Un altro problema fu di separare la zona di ricreazione (Campo di pallavolo e di calcio) dalla zona della scuola perché era una continua invasione di palloni e di ragazzi che disturbavano. Mi recai in Comune e l’economato ci fornì i pali e la rete per fare la recinzione, cosa che mettemmo in opera con i ragazzi della Scuola Popolare.     

Prima di incominciare la scuola decidemmo di fare alcune iniziative di promozione e la più riuscita fu quella con il cantautore Ivan Della Mea. Nella baracca centrale c’era una ressa incredibile di giovani, annunciammo l’inizio della Scuola Popolare per il Settembre (1967) e poi Ivan suonò fino a mezzanotte, la mattina dopo ci furono le proteste della gente per la troppa confusione.

A Settembre mettemmo dei manifestini nei bar e all’edicola per annunciare che sarebbe nata una scuola popolare per il recupero di coloro che non avevano raggiunto la licenza della scuola media; la scuola avrebbe tenuto lezione dal Lunedì al Venerdì dalle ore 21 alle ore 23, sarebbe  durata due anni e alla fine coloro che avevano partecipato avrebbero sostenuto l’esame alla scuola media statale. Fu un successo incredibile, si iscrissero 28 “allievi” di tutte le età dai 18 ai 60 anni. Noi “insegnanti” eravamo emozionati, tutte le sere ci riunivamo per discutere i contenuti didattici della scuola e per preparare i locali, ci volle una intera giornata per sistemare il gabinetto che era quasi impraticabile e la cassetta dell’acqua non ne voleva sapere di funzionare!    

La prima classe tenne le lezioni nei locali dove ora c’è la segreteria della Comunità. Per tutto l’anno scolastico (da Settembre a Giugno) fu un grande dibattito, un grande confronto. Oltre gli insegnanti fissi di ogni sera c’erano spesso gli interventi esterni, uno dei più interessanti fu del Prof. Domenico Maselli sulla storia delle religioni, la sua partecipazione durò alcune serate e per lui fu un grande sacrificio perché abitava A Lucca.     

Molta attenzione fu riservata anche alla lezione  sulla Costituzione tenuta da Danilo Zolo, mentre venne una sera a parlare dell’esperienza della parrocchia dell’Isolotto, Enzo Mazzi.

Finimmo l’anno scolastico con 25 alunni, tre si erano persi perché per i più giovani era veramente una grande fatica fare scuola tutte le sere. Ricordo in particolare che  Giuseppe lo perdemmo due volte e per due volte lo recuperammo al bar di via Torcicoda. Quando  prese la licenza di scuola media ci festeggiò con tale entusiasmo che ne fummo sbalorditi.

Nel 1968 si ripresentarono puntualmente coloro che avevano fatto il primo anno, ma con grande stupore c’erano altri 30 ragazzi nuovi che volevano fare la Scuola Popolare, avevamo voglia di spiegare che non potevano partecipare alle lezioni della classe che aveva iniziato l’anno precedente, la loro insistenza fu così tanta che decidemmo  di fare scuola con due classi, una prima ed una seconda, il problema fu di trovare i nuovi insegnanti ma ci riuscimmo e l’anima di questa seconda classe furono la Sandrina Cammelli e suo marito Giuliano Dolfi.

Così la scuola si era raddoppiata ed ogni anno continuammo con due classi indipendenti l’una dall’altra ma con lo stesso metodo e lo stesso risultato.

Comunque in quell’anno portammo la prima classe all’esame alla scuola media statale, preparammo molto bene l’esame (alcuni ragazzi fecero “ripasso” in casa della Sandra Zani) ed incontrammo a più riprese il preside della Barsanti il quale fu molto disponibile e ci fece incontrare più di una volta con i professori che avrebbero fatto l’esame. Il risultato fu un grande successo e  i ragazzi che si presentarono, cosa che con due classi avvenne tutti gli anni, furono regolarmente promossi.

La scuola, dopo il 1969, si collocò nelle due aule staccate dal complesso principale, mentre negli altri locali subentrò la Comunità che era uscita dai locali della Parrocchia essendo state restituite le chiavi della chiesa al Vicario Mons. Panerai.

Il fenomeno delle Scuole Popolari era dilagato in tutta Italia e la nostra scuola aveva rapporti con tantissime scuole che ci scrivevano in maniera molto assidua, tanto che ci venne l’idea di fare un convegno nazionale sulle Scuole Popolari. Per realizzare il convegno cercai un contatto con Michele Gesualdi, ragazzo di Barbiana, il quale a quei tempi faceva il sindacalista alla CISL e teneva a Sesto Fiorentino, dove abitava, una scuola popolare.

La reazione di Gesualdi fu negativa e molto aspra, lui disse non avrebbe mai collaborato con noi dell’Isolotto perché facevamo scuola nell’interesse del partito comunista. Evidentemente in quel  momento nel mondo cattolico ci descrivevano come dei comunisti.

Il Convegno ebbe una grande affluenza  sia da nord che da sud Italia e ricordo che c’erano posizioni le più disparate, dai rivoluzionari ai pacifisti, la maggioranza erano cattolici ma comunque questa partecipazione  ci fece capire che il fenomeno delle scuole popolari aveva una diffusione impressionante.

Negli anni settanta venne attuata la proposta delle 150 ore, mi ricordo che ne andammo a discutere, con molte difficoltà, alla Camera del Lavoro in Borgo dei Greci, con Sacconi. Noi della Scuola Popolare consigliammo di fare le 150 ore in due anni scolastici, ma il sindacato voleva una scuola nozionistica che fosse in grado di far ottenere la licenza di scuola media nel più breve tempo possibile, come poi è avvenuto.

Nel 1973 fui trasferito, dalla società nella quale lavoravo, ad Arezzo per cui lasciai la Scuola Popolare dopo sei anni di intenso lavoro e l’eredità diretta fu presa da Paolo Bencivenni il quale  ha riferito che la scuola durò fino al 1975/76 e successivamente si trasformò nel comitato di gestione della Biblioteca di quartiere.

Complessivamente quindi la Scuola Popolare dell’Isolotto è durata 10 anni (1967-1976) e ha avuto circa 400 alunni, dei quali sicuramente il 90% ha conseguito la licenza della scuola media, comunque tutti hanno avuto un grande segno di solidarietà umana, e  hanno capito che la Comunità dell’Isolotto sapeva farsi carico dei problemi della propria gente. 



Vorrei raccontarvi, in finale, la storia di tre allievi: Sergio, Michela e Otello.

Sergio era un sindacalista della fabbrica Moranduzzo e Michela la sua ragazza, si iscrissero nel 1970 ed erano tra i più impegnati. Sergio aveva già la licenza di scuola media ma nei due anni non ne parlò mai, lui faceva tutte le sere la scuola per aiutare la sua ragazza Michela la quale proveniva dal meridione  dove lavorava in famiglia badando le pecore. Divenimmo amici e li ho a lungo seguiti, dopo la scuola media  Michela si è diplomata nella scuola media superiore e ora fa l’infermiera in ospedale ed è felicemente sposata con due bambini.

Otello aveva cinquantanni ed era  commesso presso un negozio di accessori d’auto, lui non aveva bisogno della licenza di scuola media ma studiava lo stesso, nonostante il sacrificio, per la sua dignità e per sua figlia la quale faceva la scuola media superiore, per esserle come un esempio nel dovere dello studio.

Otello fu per la Scuola Popolare  un grande stimolo di solidarietà, dopo due anni morì per un tumore e noi tutti della scuola ci impegnammo ad aiutare economicamente, per qualche tempo, la sua famiglia.   

    Giancarlo Zani


  1. Una storia fata di storie

  2. Le  Baracche.

    Anno 1962….era una mattina di settembre limpida e solare quando in lambretta arrivai alla scuola delle Baracche Verdi dell’Isolotto per scegliere la sede. Avevo ventidue anni e insegnavo da tre.

    Le baracche dell’Isolotto, della Casella, di Rovezzano, di Novoli. Queste erano le scuole di una città fuori le mura, le baracche delle periferie, dello sviluppo urbanistico senza regole, della speculazione edilizia senza programmazione dei servizi, l’altra faccia della Amministrazione La Pira . Quella di Pontello e soci. Quella stessa parte che a metà degli anni ’60 riuscirà ad emarginarlo dalla scena politica.

    La scuola nelle baracche di via degli Aceri e il primo sciopero per la scuola organizzato dai genitori per iniziativa di un comitato messo su da quelli della Parrocchia e della Casa del Popolo.

    Una storia fatta di Isolotto e dintorni. I confini dell’Isolotto variano, la frontiera si sposta. I comunisti  del quartiere chiamano via Pio Fedi, il confine tre il Q4 e il Q5, “l’Ussuri” come i fiume che divide la Cina dall’URSS.

    Una storia policentrica fatta di Scuole,  di  Parrocchie e di Comunità di base, di Case del Popolo e di feste dell’Unità, di Scout e di Humanitas. Una storia fatta di storie.

  3. La storia dell’Isolotto è nei suoi luoghi: le baracche, le piazze, i bar e i cortili…

    Le baracche di via degli Aceri: scuole, centro di soccorso per l’alluvione, scuola popolare, doposcuola, comunità. Le baracche di viale dei Pini: biblioteca, comitato di gestione ieri e oggi, le baracche degli invalidi, quelle degli scout, gli stand di bandone della Festa dell’Unità nel prato di via Maccari. Da aprile a settembre si sta bene fuori.

    E’ la stagione dei poveri e noi lo siamo. La precarietà è la nostra forza.

    E’ qui che decido di rimanere prima a fare scuola poi a stare di casa con la Paola e i bambini.

    Le baracche sono in mezzo alle case . Si sente la gente che passa, gli odori e i rumori, e loro ci vedono fare scuola.  Franco Quercioli

  4. NB. Questa è una parte dell'intervento pronunciato da Franco Quarcioli, al convegno del 2 dicembre 2006 su "Le radici della partecipazione: Firenze e il suo territorio” tenuto nella palestraa della scuola "La Montagnola" dell'Isolotto.

    Titolo del convegno:

    “La Scuola e il Quartiere: l’esperienza dell’Isolotto”

    Il segno dei Movimenti: il senso di una ricerca

  5. PS. Il maestro Franco appartiene al gruppo dei maestri storici che son passati qui da noi Baraccheverdi nei tempi eroici, quando eravamo davvero verdi di legno verniciato e non rosse di mattone "imprunetino" come ora siamo, più fresche d'estate e calde d'inverno come in questo momento che scriviamo, ore 11 di venerdi 22 dicembre 2006, solstizio d'inverno, grazie all'impianto di riscaldamento con tanto di termostato. Ma allora erano altri tempi, si veniva dal recente dopoguerra, tutti erano più pronti e temprati "a sofferir tormenti e caldi e geli". Nello stesso tempo pronti e temprati a mettersi insieme, fare comunità e romper le scatole agli Amministratori fino a che furono convinti che sulla Montagnola era meglio costruire una scuola piuttosto che un night club. Nella scuola della Montagnola c'è oggi una grande gigantografia dove si vede una tenda piazzata nel mezzo della collina con accanto bambini delle elementari e proprio il maestro Franco.

    Da ricordare insieme agli altri maestri storici Mauro Sbordoni, Graziella Soldani, Sergio Rusic, Luciano Gori, Mario Vezzani...



  1. Una storia fata di storie

  2. Le  Baracche.

    Anno 1962….era una mattina di settembre limpida e solare quando in lambretta arrivai alla scuola delle Baracche Verdi dell’Isolotto per scegliere la sede. Avevo ventidue anni e insegnavo da tre.

    Le baracche dell’Isolotto, della Casella, di Rovezzano, di Novoli. Queste erano le scuole di una città fuori le mura, le baracche delle periferie, dello sviluppo urbanistico senza regole, della speculazione edilizia senza programmazione dei servizi, l’altra faccia della Amministrazione La Pira . Quella di Pontello e soci. Quella stessa parte che a metà degli anni ’60 riuscirà ad emarginarlo dalla scena politica.

    La scuola nelle baracche di via degli Aceri e il primo sciopero per la scuola organizzato dai genitori per iniziativa di un comitato messo su da quelli della Parrocchia e della Casa del Popolo.

    Una storia fatta di Isolotto e dintorni. I confini dell’Isolotto variano, la frontiera si sposta. I comunisti  del quartiere chiamano via Pio Fedi, il confine tre il Q4 e il Q5, “l’Ussuri” come i fiume che divide la Cina dall’URSS.

    Una storia policentrica fatta di Scuole,  di  Parrocchie e di Comunità di base, di Case del Popolo e di feste dell’Unità, di Scout e di Humanitas. Una storia fatta di storie.

  3. La storia dell’Isolotto è nei suoi luoghi: le baracche, le piazze, i bar e i cortili…

    Le baracche di via degli Aceri: scuole, centro di soccorso per l’alluvione, scuola popolare, doposcuola, comunità. Le baracche di viale dei Pini: biblioteca, comitato di gestione ieri e oggi, le baracche degli invalidi, quelle degli scout, gli stand di bandone della Festa dell’Unità nel prato di via Maccari. Da aprile a settembre si sta bene fuori.

    E’ la stagione dei poveri e noi lo siamo. La precarietà è la nostra forza.

    E’ qui che decido di rimanere prima a fare scuola poi a stare di casa con la Paola e i bambini.

    Le baracche sono in mezzo alle case . Si sente la gente che passa, gli odori e i rumori, e loro ci vedono fare scuola.  Franco Quercioli

  4. NB. Questa è una parte dell'intervento pronunciato da Franco Quarcioli, al convegno del 2 dicembre 2006 su "Le radici della partecipazione: Firenze e il suo territorio” tenuto nella palestraa della scuola "La Montagnola" dell'Isolotto.

    Titolo del convegno:

    “La Scuola e il Quartiere: l’esperienza dell’Isolotto”

    Il segno dei Movimenti: il senso di una ricerca

  5. PS. Il maestro Franco appartiene al gruppo dei maestri storici che son passati qui da noi Baraccheverdi nei tempi eroici, quando eravamo davvero verdi di legno verniciato e non rosse di mattone "imprunetino" come ora siamo, più fresche d'estate e calde d'inverno come in questo momento che scriviamo, ore 11 di venerdi 22 dicembre 2006, solstizio d'inverno, grazie all'impianto di riscaldamento con tanto di termostato. Ma allora erano altri tempi, si veniva dal recente dopoguerra, tutti erano più pronti e temprati "a sofferir tormenti e caldi e geli". Nello stesso tempo pronti e temprati a mettersi insieme, fare comunità e romper le scatole agli Amministratori fino a che furono convinti che sulla Montagnola era meglio costruire una scuola piuttosto che un night club. Nella scuola della Montagnola c'è oggi una grande gigantografia dove si vede una tenda piazzata nel mezzo della collina con accanto bambini delle elementari e proprio il maestro Franco.

    Da ricordare insieme agli altri maestri storici Mauro Sbordoni, Graziella Soldani, Sergio Rusic, Luciano Gori, Mario Vezzani...


venerdì 15 dicembre 2006

L'Isolotto è uno storico quartiere popolare

Anpas, al via il cantiere della nuova sede. Cantiere in via Pio Fedi a Firenze. Domenica la posa delle prima pietra 

 

Alle ore 10 di domenica 17 dicembre si terrà a Firenze, nel cantiere di via Pio Fedi, la cerimonia di posa della prima pietra della nuova sede di Anpas nazionale e Anpas Toscana.

Il terreno si trova nel Quartiere 4 (Isolotto) ed è stato concesso dal Comune di Firenze.

Un luogo significativo: l'Isolotto è uno storico quartiere popolare con una forte presenza di realtà associative e di volontariato e storia e tradizioni di grande attenzione alle politiche sociali, all'infanzia, alle politiche giovanili ed agli anziani di cui la “nuova casa” Anpas diventerà importante punto di riferimento.

 

 Trovato qui

L'Isolotto è uno storico quartiere popolare

Anpas, al via il cantiere della nuova sede. Cantiere in via Pio Fedi a Firenze. Domenica la posa delle prima pietra 

 

Alle ore 10 di domenica 17 dicembre si terrà a Firenze, nel cantiere di via Pio Fedi, la cerimonia di posa della prima pietra della nuova sede di Anpas nazionale e Anpas Toscana.

Il terreno si trova nel Quartiere 4 (Isolotto) ed è stato concesso dal Comune di Firenze.

Un luogo significativo: l'Isolotto è uno storico quartiere popolare con una forte presenza di realtà associative e di volontariato e storia e tradizioni di grande attenzione alle politiche sociali, all'infanzia, alle politiche giovanili ed agli anziani di cui la “nuova casa” Anpas diventerà importante punto di riferimento.

 

 Trovato qui

giovedì 14 dicembre 2006


In quante lingue lo dobbiamo dire?


Italiano - non mi sento obbligato a credere che lo stesso Dio che ci ha dotato di sensi, ragione e intelletto, pretenda che non li utilizziamo

Albanese -
nuk ndihem i detyruar të besoj se vetë Zoti që na ka dhënë shqisat, arësyen dhe zgjuarsinë, pretendon që të mos i përdorim

Aragonese -
no me siento obligato a creyer que ro mesmo Dios que nos adotó sentitos, ragón y esmo pretenda que no ros empleguemos

Asturiano -
nun me siento obligáu a creer que'l mesmu Dios que nos dotó de sentíos, razón ya intelectu pretenda que nun los utilicemos

Basco -
ez naiz behartuta sentitzen, zentzumenak, arrazoia eta adimena eman zigun Jainko berberak erabil ez ditzugan nahi duela sinestera

Bolognese -
a n um sént brîSa ublighè ed cràdder che cal Dío ch'al s à dè i séns, al giudézzi e al capéss, al pretannda pò ch'a n i druvâmen brîSa

Bresciano -
so ubligat a creder che Dio, che el m'a dat i sensi, la resù e el co, el volès che i dopres mja

Bretone -
ne gav ket din ez eo ret krediñ ez eo mennozh an hevelep Doue hag en deus hon donezonet gant ar skiant, gant ar poell ha gant ar spered, ec'h ankounac'hafemp penaos ober ganto

Calabrese -
nun mi sientu obbligatu a credi ca lu stessu Dio ca n'ha datu sensi, raggiuni e 'ntellettu, pritenni ca nun li usamu

Catalano -
no em sento obligat a creure que Déu mateix, que ens va dotar de sentits, raó i intel·lecte, pretengui que no els utilitzem

Croato -
ne osjecam se obveznim vjerovati da je isti Bog koji nas je opremio osjecajem, razumom i intelektom ~elio da se time zaboravimo slu⁾iti

Danese -
jeg føler mig ikke forpligtet til at tro, at den samme Gud, der har givet os fornuft, forstand og intellekt, ikke mente, at vi skulle gøre brug af disse egenskaber

Esperanto -
mi ne min sentas devigita kredi ke sama Dio kiu havigis sensojn, racion kaj intelekton al ni intencis ke ni forgesu uzi ilin

Estone -
ma ei tunne end kohustatud olevat uskuma, et samal Jumalal, kes on õnnistanud meid tunnete ja intellektiga, oleks meiega see plaan olnud, et me neid omadusi kasutada unustaksime

Fiammingo -
ik voel mij niet geroepen om te geloven dat de God die ons begiftigd heeft met rede, gezond verstand en intellect, ons heeft voorbestemd om die niet te gebruiken

Finlandese -
en tunne olevani velvollinen uskomaan että sama Jumala, joka on antanut meille aistit, järjen ja ymmärryksen, ei haluaisi meidän käyttävän niitä

Friulano -
no mi sint costret a crodi che il stess Diu che nus à dât i sens, reson e intelet, al pratindi che no ju doprin

Galiziano -
non me sinto obrigado a crer que o mesmo Deus que nos dotou de sentidos, razón e intelecto pretenda que non os empreguemos

Gallese -
ni theimlaf ei bod yn rhaid credu mai bwriad yr un Duw ag a'n cynysgaeddodd â synnwyr, â rheswm ac â deallusrwydd, yw inni anghofio sut i'w defnyddio

Giudeo Spagnolo -
no me siento ovligado a kreyer ke el mizmo Dio ke mos doto de sentidos, razon i sehel pretenda ke no los utilizemos

Griko Salentino -
en ime obligào na pistèzzo ti o Teò ka mas èdiche tu ssenzu, ti rragiùna ce to noìsi, tèli ka en è nna dòlumesta

Inglese -
I do not feel obliged to believe that the same God who has endowed us with sense, reason, and intellect has intended us to forget their use

Italiano -
non mi sento obbligato a credere che lo stesso Dio che ci ha dotato di sensi, ragione e intelletto, pretenda che non li utilizziamo

Latino -
non sentio mhi credendum esse ipsum deum qui in nobis sensum rationemque posuit nos usum oblivisci voluisse

Latvian -
negribu ticet, ka tas pats Dievs, kurš apveltija mus ar apzinu, sapratu un intelektu, ir paredzejis, ka mes aizmirsisim tos pielietot

Leonese -
nun me sientu obligáu a pensare que'l mesmu Dious que nos dotóu de sensu, razón ya inteleutu quiera que nun los empleguemos

Limburghese -
ich kan lêstig geleeve dat God èn den hiemel os hiëse, rië ên verstand hèt gegaeve, ên tegeleik hèt gewild dat ve daaj nie zooë gebreike

Lombardo -
se senti minga obligaa a cred che quell Signor che'l m'ha daa bon sens e reson el voeubbia che nun je doperom nò

Mantovano -
a n'am senti obligà a credar che 'l stes Signor ch'al sà dat i sensi, la ragion e l'inteligensa, al pretenda po dopo ch'a i a na dropema mia

Mapunzugun -
rüf gageniegelan ñi feyentuael feyti dios tayin eluetew ta logko, rakizuam ka kimün fewla tayin pünenuafiel

Modenese -
an m'sèint mènga ublighê a cràdder che ch'al Dio ch'al s'ha regalê i sèins, al capèss e l'inteligèinza al pretànda pò ch'àn'i druvàmma mènga

Napoletano -
nun me sento ubbrecato a crerere c' 'o stesso Ddio ca ce ha dutato 'e senze, raggione e gnegnero, pretenne che nun ll'ausammo

Occitano -
me sentisse pas oblijat de creire que lo meteis dieu que nos dotèt de sens, rason e intellècte pretenda que los utilizam pas

Olandese -
ik voel me niet gedrongen aan te nemen dat dezelfde god die ons heeft begiftigd met gevoel, rede en intellect, de bedoeling had dat we deze niet zouden gebruiken

Papiamento -
mi no ta sintími obligá pa kere ku e mes Dios ku a dunanos sintí, rason i intelekto, por pretendé pa nos lubidá nan uso

Parmigiano -
an me sent miga costrett a credor che col medesim Sgnor ch'al sa doné i sens, la razón e la inteligensa, al pretenda che laséma lí d'utilizaria

Piemontese -
i më sent nen obligà à chërde che 'l midem De ch'a l'ha da-ne ij sens, la rason e l'inteligensa a veula peu' ch'i-j dòvro nen

Polacco -
nie czuje sie zobowiazany do wiary, ze ten sam Bóg, który wyposazyl nas w rozwage, rozsadek i rozum, chce bysmy z nich nie korzystali

Portoghese -
não me sinto obrigado a acreditar que o mesmo Deus que nos dotou de sentidos, razão e intelecto pretenda que não os utilizemos

Portoghese Brasiliano -
não me sinto obrigado a acreditar que o mesmo Deus que nos dotou de sentidos, razão e intelecto pretenda que não os utilizemos

Reggiano -
am sèint mia oblighèe a crèder che al stèss Dio ch'al s'à dee i sintimèint e al zrvèll al pertènda pò che an ni drovòma mia

Sardo -
no m'intendo obrigadu a creer chi Deus matessi, chi nos at dadu sentidu, resone e mente, pretendat chi no los impreemus

Spagnolo -
no me siento obligado a creer que el mismo dios que nos dotó de sentidos, razón e intelecto pretenda que no los utilicemos

Svedese -
jag känner mig inte förpliktad att tro att samma Gud som försett oss med sinnen, förnuft och fattningsförmåga, inte menade att vi skulle göra bruk av dem

Swahili -
sifikiri inanilazimu kuamini kwamba yule Mungu anayetujalia uelewa, hisia na akili ndiye anayekusudia tusizitumie

Tedesco -
ich fühle mich nicht verpflichtet zu glauben, dass der selbe Gott, der uns Verstand, Vernunft und Intellekt gegeben hat, verlangt, diese Gaben nicht zu benutzen

Ungherese -
nem tartom kötelességemnek azt hinni, hogy ugyanaz az Isten, aki érzékeléssel, értelemmel és intellektussal ruházott fel bennünket azt akarná, hogy azokat ne használjuk

Veneziano -
no me sénto mìa obligà a pensar che propio Dio, che 'l ne ga dà i sensi, la raxon e 'l servelo, po' el pretenda che no li doparémo



L'ha detto proprio lui. Coraggio Italia.


In quante lingue lo dobbiamo dire?


Italiano - non mi sento obbligato a credere che lo stesso Dio che ci ha dotato di sensi, ragione e intelletto, pretenda che non li utilizziamo

Albanese -
nuk ndihem i detyruar të besoj se vetë Zoti që na ka dhënë shqisat, arësyen dhe zgjuarsinë, pretendon që të mos i përdorim

Aragonese -
no me siento obligato a creyer que ro mesmo Dios que nos adotó sentitos, ragón y esmo pretenda que no ros empleguemos

Asturiano -
nun me siento obligáu a creer que'l mesmu Dios que nos dotó de sentíos, razón ya intelectu pretenda que nun los utilicemos

Basco -
ez naiz behartuta sentitzen, zentzumenak, arrazoia eta adimena eman zigun Jainko berberak erabil ez ditzugan nahi duela sinestera

Bolognese -
a n um sént brîSa ublighè ed cràdder che cal Dío ch'al s à dè i séns, al giudézzi e al capéss, al pretannda pò ch'a n i druvâmen brîSa

Bresciano -
so ubligat a creder che Dio, che el m'a dat i sensi, la resù e el co, el volès che i dopres mja

Bretone -
ne gav ket din ez eo ret krediñ ez eo mennozh an hevelep Doue hag en deus hon donezonet gant ar skiant, gant ar poell ha gant ar spered, ec'h ankounac'hafemp penaos ober ganto

Calabrese -
nun mi sientu obbligatu a credi ca lu stessu Dio ca n'ha datu sensi, raggiuni e 'ntellettu, pritenni ca nun li usamu

Catalano -
no em sento obligat a creure que Déu mateix, que ens va dotar de sentits, raó i intel·lecte, pretengui que no els utilitzem

Croato -
ne osjecam se obveznim vjerovati da je isti Bog koji nas je opremio osjecajem, razumom i intelektom želio da se time zaboravimo služiti

Danese -
jeg føler mig ikke forpligtet til at tro, at den samme Gud, der har givet os fornuft, forstand og intellekt, ikke mente, at vi skulle gøre brug af disse egenskaber

Esperanto -
mi ne min sentas devigita kredi ke sama Dio kiu havigis sensojn, racion kaj intelekton al ni intencis ke ni forgesu uzi ilin

Estone -
ma ei tunne end kohustatud olevat uskuma, et samal Jumalal, kes on õnnistanud meid tunnete ja intellektiga, oleks meiega see plaan olnud, et me neid omadusi kasutada unustaksime

Fiammingo -
ik voel mij niet geroepen om te geloven dat de God die ons begiftigd heeft met rede, gezond verstand en intellect, ons heeft voorbestemd om die niet te gebruiken

Finlandese -
en tunne olevani velvollinen uskomaan että sama Jumala, joka on antanut meille aistit, järjen ja ymmärryksen, ei haluaisi meidän käyttävän niitä

Friulano -
no mi sint costret a crodi che il stess Diu che nus à dât i sens, reson e intelet, al pratindi che no ju doprin

Galiziano -
non me sinto obrigado a crer que o mesmo Deus que nos dotou de sentidos, razón e intelecto pretenda que non os empreguemos

Gallese -
ni theimlaf ei bod yn rhaid credu mai bwriad yr un Duw ag a'n cynysgaeddodd â synnwyr, â rheswm ac â deallusrwydd, yw inni anghofio sut i'w defnyddio

Giudeo Spagnolo -
no me siento ovligado a kreyer ke el mizmo Dio ke mos doto de sentidos, razon i sehel pretenda ke no los utilizemos

Griko Salentino -
en ime obligào na pistèzzo ti o Teò ka mas èdiche tu ssenzu, ti rragiùna ce to noìsi, tèli ka en è nna dòlumesta

Inglese -
I do not feel obliged to believe that the same God who has endowed us with sense, reason, and intellect has intended us to forget their use

Italiano -
non mi sento obbligato a credere che lo stesso Dio che ci ha dotato di sensi, ragione e intelletto, pretenda che non li utilizziamo

Latino -
non sentio mhi credendum esse ipsum deum qui in nobis sensum rationemque posuit nos usum oblivisci voluisse

Latvian -
negribu ticet, ka tas pats Dievs, kurš apveltija mus ar apzinu, sapratu un intelektu, ir paredzejis, ka mes aizmirsisim tos pielietot

Leonese -
nun me sientu obligáu a pensare que'l mesmu Dious que nos dotóu de sensu, razón ya inteleutu quiera que nun los empleguemos

Limburghese -
ich kan lêstig geleeve dat God èn den hiemel os hiëse, rië ên verstand hèt gegaeve, ên tegeleik hèt gewild dat ve daaj nie zooë gebreike

Lombardo -
se senti minga obligaa a cred che quell Signor che'l m'ha daa bon sens e reson el voeubbia che nun je doperom nò

Mantovano -
a n'am senti obligà a credar che 'l stes Signor ch'al sà dat i sensi, la ragion e l'inteligensa, al pretenda po dopo ch'a i a na dropema mia

Mapunzugun -
rüf gageniegelan ñi feyentuael feyti dios tayin eluetew ta logko, rakizuam ka kimün fewla tayin pünenuafiel

Modenese -
an m'sèint mènga ublighê a cràdder che ch'al Dio ch'al s'ha regalê i sèins, al capèss e l'inteligèinza al pretànda pò ch'àn'i druvàmma mènga

Napoletano -
nun me sento ubbrecato a crerere c' 'o stesso Ddio ca ce ha dutato 'e senze, raggione e gnegnero, pretenne che nun ll'ausammo

Occitano -
me sentisse pas oblijat de creire que lo meteis dieu que nos dotèt de sens, rason e intellècte pretenda que los utilizam pas

Olandese -
ik voel me niet gedrongen aan te nemen dat dezelfde god die ons heeft begiftigd met gevoel, rede en intellect, de bedoeling had dat we deze niet zouden gebruiken

Papiamento -
mi no ta sintími obligá pa kere ku e mes Dios ku a dunanos sintí, rason i intelekto, por pretendé pa nos lubidá nan uso

Parmigiano -
an me sent miga costrett a credor che col medesim Sgnor ch'al sa doné i sens, la razón e la inteligensa, al pretenda che laséma lí d'utilizaria

Piemontese -
i më sent nen obligà à chërde che 'l midem De ch'a l'ha da-ne ij sens, la rason e l'inteligensa a veula peu' ch'i-j dòvro nen

Polacco -
nie czuje sie zobowiazany do wiary, ze ten sam Bóg, który wyposazyl nas w rozwage, rozsadek i rozum, chce bysmy z nich nie korzystali

Portoghese -
não me sinto obrigado a acreditar que o mesmo Deus que nos dotou de sentidos, razão e intelecto pretenda que não os utilizemos

Portoghese Brasiliano -
não me sinto obrigado a acreditar que o mesmo Deus que nos dotou de sentidos, razão e intelecto pretenda que não os utilizemos

Reggiano -
am sèint mia oblighèe a crèder che al stèss Dio ch'al s'à dee i sintimèint e al zrvèll al pertènda pò che an ni drovòma mia

Sardo -
no m'intendo obrigadu a creer chi Deus matessi, chi nos at dadu sentidu, resone e mente, pretendat chi no los impreemus

Spagnolo -
no me siento obligado a creer que el mismo dios que nos dotó de sentidos, razón e intelecto pretenda que no los utilicemos

Svedese -
jag känner mig inte förpliktad att tro att samma Gud som försett oss med sinnen, förnuft och fattningsförmåga, inte menade att vi skulle göra bruk av dem

Swahili -
sifikiri inanilazimu kuamini kwamba yule Mungu anayetujalia uelewa, hisia na akili ndiye anayekusudia tusizitumie

Tedesco -
ich fühle mich nicht verpflichtet zu glauben, dass der selbe Gott, der uns Verstand, Vernunft und Intellekt gegeben hat, verlangt, diese Gaben nicht zu benutzen

Ungherese -
nem tartom kötelességemnek azt hinni, hogy ugyanaz az Isten, aki érzékeléssel, értelemmel és intellektussal ruházott fel bennünket azt akarná, hogy azokat ne használjuk

Veneziano -
no me sénto mìa obligà a pensar che propio Dio, che 'l ne ga dà i sensi, la raxon e 'l servelo, po' el pretenda che no li doparémo



L'ha detto proprio lui. Coraggio Italia.