Un caro saluto a Beniamino Deidda, neo pensionato, da parte di tutti noi, Comunità dell'Isolotto. Sei un bel personaggio, ti consideriamo uno di noi come noi vorremmo essere tanti di te: tanti, tutti come te. Abbiamo ancora nella mente il tuo intervento della biblioteca delle Oblate quando presentammo il libro "Il processo dell'Isolotto". Lo rinfreschiamo qui dopo il bell'articolo di Franca Selvatici, pubblicato su La Repubblica. (le sottolineature sono nostre)
Il procuratore generale Deidda lascia - Ha indagato su amianto e sicurezza
«E' giunto il momento di concludere e di salutarvi con un abbraccio collettivo». Quando il procuratore generale Beniamino Deidda ha terminato il suo discorso di addio, nell' aula della corte di assise di appello del palazzo di giustizia di Novoli molti avevano gli occhi rossi. Ieri Deidda è andato in pensione per raggiunti limiti di età, dopo quasi 50 anni trascorsi in magistratura e dopo essere stato uno dei protagonisti della storia giudiziaria italiana, con le sue inchieste sull' amianto, sulle malattie professionali e sugli incidenti sul lavoro e i suoi interventi determinanti: come nel 2009, quando era procuratore generale di Trieste e fu fermo nell' esigere il rispetto delle sentenze e della Costituzione nella vicenda di Eluana Englaro, a cui fu finalmente consentita una morte dignitosa. «Specialmente durante la mia attività di dirigente degli uffici - ha ricordato - ho avuto la fortuna di costituire gruppi così uniti da poter affrontare qualsiasi difficoltà». Un lavoro di squadra che ha voluto realizzare anche nell' intero distretto toscano, dove è stato al fianco dei colleghi impegnati nelle inchieste più complesse: come quelle sulla strage dei Georgofili, sul disastro ferroviario di Viareggio, sul naufragio della Concordia, sulla cricca dei grandi appalti. «Io non posso fare un bilancio della mia vita professionale - ha detto - posso solo dire quali sono state le ispirazioni costanti nella mia attività di giudice e di pubblico ministero»: 1) «La scoperta della Costituzione e delle sue implicazioni nel lavoro di magistrato», con l' adesione alla nascente Magistratura Democratica. 2) «Fare entrare aria fresca e trasparenza all' interno di una corporazione che somigliava molto ad una casta». 3) La convinzione che «il diritto ha senso quando costituisce un argine all' egoismo e al privilegio e quando è in grado di tutelare le minoranze dallo strapotere delle maggioranze». Ai giovani colleghi, ai quali si appresta a insegnare nella Scuola della magistratura di Castelpulci, Deidda ricorda che «ogni giorno un numero notevole di magistrati è sotto l' esame degli utenti della giustizia». «I giudici cialtroni, i pubblici ministeri superficiali, i giudici che trattano male le parti e i loro avvocati, quelli che non studiano le carte, i pavidi attentano ogni giorno all' immagine della magistratura». «I magistrati hanno in mano un potere terribile, da far tremare quelli che sono più consapevoli. Possono toglierti la libertà, possono incidere sul patrimonio, possono rovinarti la vita. Un potere terribile che in ogni stato di diritto deve essere rigorosamente esercitato secondo le regole. Ma è decisivo sapere al servizio di chi verrà esercitato questo potere». E' la Costituzione a indicarlo: «Rendere uguali quelli che le circostanze della vita hanno reso più deboli, più fragili, più indifesi e meno uguali degli altri. Ridare pari dignità a quelli che le dinamiche sociali ed economiche hanno reso insopportabilmente diseguali. Questo è il compito principale del giudice, che riassume tutti gli altri. Se non sapremo essere la garanzia dei più deboli, la nostra funzione sarà inutile. Se lo dimenticheremo, il nostro mestiere non saprà più di nulla».
FRANCA SELVATICI
Il
processo dell’Isolotto
Intervento
di Beniamino Deidda (sintesi)
Quella
dell’Isolotto è stata un’esperienza che ha mostrato come ci si potesse
sottrarre alla mediazione della gerarchia e dell’autorità; come ci si potesse organizzare e rivendicare gli
spazi della propria libertà senza chiedere il permesso ai governi, ai
cardinali, al potere e ai capi. E’ cominciata con l’esperienza dell’Isolotto –
e ancora prima – una fase della vita democratica non ancora esplorata, nella
quale il potere come tale non era più avvolto dal fascino che possiedono le
cose indiscutibili. Per la prima volta nell’Italia repubblicana si sperimentava
quanto fosse vera l’intuizione del Kelsen secondo cui l’idea di democrazia è
inconciliabile con la figura del capo al quale si assegnano funzioni di
rappresentanza del volere del popolo. Per
la prima volta il popolo si riappropriava della sua sovranità e la esprimeva
senza l’intermediazione del potere.
La comunità
dell’Isolotto inoltre presentava un’altra caratteristica che la rendeva assai temibile per il potere
costituito. Mentre altre esperienze più ideologizzate si ritagliavano per
definizione uno spazio contrapposto ad altre forze ideologiche, quella
dell’Isolotto non presentava un’evidente piattaforma ideologica: raccoglieva indifferentemente
religiosi e laici, cattolici e atei, comunisti e democristiani di sinistra,
radicali progressisti ed extraparlamentari. Si proponeva
insomma di riunire tutti senza discriminazioni ideologiche in una comunità
solidale intorno ad un progetto di rinnovamento religioso e sociale insieme.
Per intendere bene il senso dell’azione repressiva
della Magistratura bisogna pensare che ci si trovava di fronte ad una società
di credenti e non credenti che in modo autonomo si sostituiva alla società dei
poteri costituiti, creando dal basso una comunione libera e non autoritaria.
...il “reato”
vero che la magistratura intendeva perseguire era la voglia e la maturità di
partecipare alla vita religiosa politica e sociale. Vorrebbe dire in sostanza non cogliere il nesso
strettissimo che correva tra quel tentativo di rinnovare la Chiesa e il suo
rapporto con i fedeli e i movimenti di lotta e di liberazione che infiammavano
tutto il mondo civile. Questa è stata la ragione vera per la quale la
Magistratura si è intromessa in una questione che apparentemente non la
riguardava: la contestazione
dell’Isolotto non metteva in pericolo l’ordine pubblico, non dava luogo a
manifestazioni di violenza, non attentava alla pace o alla tranquillità delle
persone. Eppure il potere si sentiva in pericolo. Lo mostravano segni
tradizionali ed inequivocabili: si muovono i fascisti; i giornali dei padroni
sparano colonne di fuoco, i benpensanti scuotono il capo e dicono che così non
si può andare avanti. Ecco perché la magistratura si intromette formulando
imputazioni, a pensarci bene, grottesche: “istigazione a delinquere”. E chi
veniva istigato? In quella comunità erano tutti istigatori. “Turbamento di
funzione religiosa”. I teologi al tempo non fecero fatica a dire che l’unica
funzione religiosa in atto era quella dei fedeli riuniti in preghiera in
piazza. Imputazioni grottesche, dunque, che rispondevano ad una logica molto
diversa da quella che sosteneva i due articoli del codice penale. Il senso vero
lo colse padre Balducci quando scrisse: “tutti i regimi oppressivi,
quale che sia la loro ideologia, sono sempre portati a prendere accordi con il
clero...”. Da un lato l’autoritarismo della Curia aveva bisogno dell’aiuto dello
Stato; dall’altro lo Stato con il suo braccio secolare correva in aiuto della
Curia perché sentiva e sapeva che era in discussione anche l’autoritarismo
dello Stato.
...
La magistratura ha reagito all’esperienza
dell’Isolotto come, immediatamente prima e immediatamente dopo, ha reagito ad
altri fenomeni, magari meno clamorosi, che essa ha considerato “eversivi”
dell’ordine costituito. Si pensava che il pericolo venisse dalle iniziative
dal basso, dalle organizzazioni spontanee, dalle esperienze che incidevano
sulle gerarchie del potere.
C’è stato un piccolo strascico della vicenda
dell’Isolotto che riguarda chi vi parla.
L’episodio è noto dentro la magistratura ma
sconosciuto all’opinione pubblica. Nei giorni in cui venivano rese note le
imputazioni si era tenuta all’Isolotto un’assemblea alla quale avevo partecipato
prendendo la parola. Pochi giorni dopo il Consiglio Giudiziario di Firenze
aveva all’ordine del giorno la mia promozione a magistrato di Tribunale. Il
Consiglio Giudiziario a maggioranza formulò parere negativo con una
motivazione, come risulta dal verbale della seduta, che suonava sostanzialmente
così: “non può continuare ad appartenere all’ordine giudiziario un magistrato
che in una pubblica manifestazione prenda la parola per esprimere la propria
solidarietà agli imputati”. Per fortuna il Consiglio Superiore della
Magistratura, che doveva decidere sulla mia permanenza in carriera, fu di
parere contrario, ritenendo che quell’episodio fosse né più né meno che la
legittima manifestazione del pensiero, garantita dalla Costituzione. A sua
volta il Procuratore Generale fiorentino, che a quell’epoca era Mario Calamari,
rischiò il trasferimento da parte del Consiglio Superiore . E’ passato molto
tempo, Magistratura Democratica esiste ancora ed è in buona salute, ma le
contraddizioni non si sono ancora sopite. Il
fatto che il giovane magistrato, che si voleva cacciare allora, sia poi
diventato Procuratore Generale di Firenze è forse solo uno scherzo del destino
oppure il frutto dell’astuzia della storia. Ma le contraddizioni rimangono
tutte, sia pure in termini diversi.
Ed è questa in fondo la ragione per la quale
della vicenda dell’Isolotto e del suo processo è necessario continuare a
parlare per “contrastare la strategia
dell’oblio” - come ha scritto nel suo bellissimo saggio Enzo Mazzi. “Non per
esumare un cadavere, continuava Enzo, ma
per dar vita al presente e al futuro attraverso la creatività della memoria”.
Beniamino
Deidda biblioteca delle Oblate Firenze 22 marzo 2012
CHE SI VERGOGNI!!!
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