Sono 150. Ogni mattina si alzano, bevono un caffè e vanno a
monitorare i check point dell’esercito israeliano nei Territori Palestinesi
Occupati. Sono le donne dell’organizzazione israeliana Machsom Watch. Tra loro
Daniela Yoel, ospite di un incontro romano, fra donne.
di Cecilia Dalla Negra
In una fredda mattina di febbraio di 11 anni fa cinque donne
si avvicinano al check point 300, tra Betlemme e Gerusalemme.
Non sanno bene cosa fare: ci sono i soldati con gli M-16, i
palestinesi in fila, fa freddo.
Si fermano, indecise su come comportarsi, ma sicure che sia
necessario agire. Quando il soldato chiede loro cosa sono venute a fare laggiù,
la più intraprendente si guarda intorno: verso la colonia di Har Homa il sole
splende. “Beh, siamo venute a goderci questa bella giornata”.
Così Yehudit Keshet racconta l’inizio – “magari non
esplosivo” – del lungo percorso di Machsom Watch, l’organizzazione femminile
israeliana che da anni presidia i check point (in lingua ebraica machsom - http://www.machsomwatch.org/en)
per denunciare le violenze e gli abusi contro i cittadini palestinesi nei
Territori Occupati.
Se c’è un oppresso c’è anche un oppressore. Quello che
troppo spesso manca è qualcuno che si incarichi di monitorare l’oppressione.
Quelle cinque “pioniere” diventano in breve cinquecento: è
il 2001, è in corso la Seconda Intifada. Un periodo terribile, che vede il
moltiplicarsi continuo di check point e posti di blocco israeliani.
“C’è un’occupazione là fuori: è feroce e immorale: dobbiamo
stare dalla parte di chi la oppone, senza esclusione di colpi”, sostiene quel
gruppo di donne, che sceglie di non ammettere uomini “perché non sono capaci di
mantenere il controllo davanti ai militari”.
Sono loro a commettere abusi e violazioni contro una
popolazione civile cui è negata la libertà. Le donne diMachsom Watch sono
realiste: capiscono di non poter vincere contro la forza del governo e le armi
dell’esercito: ma possono almeno testimoniare quelle violazioni, fungere da
deterrente verso i soldati, essere l’occhio attento che guarda, registra,
denuncia.
La spilla con l’occhio aperto che portano addosso diventerà
conosciuta: loro, in breve, una fastidiosa spina nel fianco dei militari.
I loro report, aggiornati quotidianamente, vengono inviati a
stampa e governo nel tentativo di rendere evidente un fatto: nessuno, in
futuro, potrà dire “io non sapevo”.
È anche la convinzione di Daniela Yoel, una delle ‘nonne’ di
Machsom Watch, ospite insieme a Luisa Morgantini, ex vice presidente del
Parlamento Europeo, di un incontro organizzato da Associazione per la Pace alla
Casa Internazionale delle Donne di Roma.
Daniela ogni mattina da 11 anni si sveglia, prende il caffè
e va a presidiare un check point: proprio perché “in Israele la gente ogni
mattina si sveglia, prende il caffè e non vuole saperne niente di quello che
succede al di là del muro”.
Ebrea ortodossa osservante, Daniela appartiene alla prima
generazione nata in terra di Palestina da genitori immigrati: “Israele per me e
quelli della mia generazione ha un significato enorme”, spiega.
“Perché forse come ebrea non mi sentirò a mio agio da
nessuna parte; ma come israeliana ho una patria, e la patria è quella di cui ci
si può anche vergognare”.
È una concezione particolare la sua, religiosa praticante in
un contesto di attivismo per i diritti umani come quello di Machsom Watch, per
la maggior parte laico e femminista.
“Come religiosa mangio kosher: per spiegare la schizofrenia
nella quale vivo racconto sempre che non posso parlare con quelli con cui posso
mangiare, e non posso mangiare con quelli con cui posso parlare”. Perché la
verità è che “Israele è un paese di destra, e le persone che mi circondano non
vogliono sapere quello che il governo fa in loro nome”.
Non è così per lei, che 11 anni fa ha scelto di dedicare il
tempo che la pensione da studiosa le concedeva per presidiare i posti di blocco
che l’esercito del suo paese impone e controlla.
“Un giorno di molti anni fa venni a sapere che una donna
palestinese, incinta di due maschi, era stata bloccata a un check point mentre
cercava di raggiungere l’ospedale. Fermata dai soldati, fu costretta a
partorire in strada, per terra. Entrambi i suoi bambini morirono, e le fu
concesso di passare solo quando fu evidente che anche lei stava per morire”.
Una storia di ordinaria amministrazione nei Territori, di
disumana quotidianità. Che la colpisce, perché “in quello stesso periodo anche
mia nuora era incinta di due maschi. Che sono nati normalmente in un ospedale,
e che oggi sono i miei nipoti. Da quel momento non ho potuto fare a meno di
pensare a quale enorme differenza ci fosse tra queste due esperienze; a che
tipo di trauma quella donna palestinese ha dovuto affrontare”.
Ma, soprattutto, “al fatto che se fossi stata presente,
forse i soldati l’avrebbero lasciata passare”.
Perché in una mente educata “all’odio, alla violenza e al
machismo”, come quella dei militari, e in un paese “in cui il simbolo della
società è l’erezione nazionale”, vale più un concittadino israeliano che ti
osserva di centinaia di palestinesi “a cui viene rubata una cosa molto più
preziosa di qualsiasi bene materiale: il tempo. Qualcosa che una volta portata
via non può più essere restituita”.
Il tempo negato di uno spostamento, all’apparenza banale, da
casa al posto di lavoro. “Non si capisce per quale ragione i palestinesi
debbano avere speciali permessi anche solo per andare a dormire”.
Daniela Yoel, come tanti altri attivisti israeliani per i
diritti umani, è considerata dai suoi compatrioti una self-hating jew, una di
quegli ebrei che devono necessariamente odiare loro stessi per poter criticare
il proprio stato.
Un’accusa che respinge: “E’ vero il contrario. Nella parola
‘indignazione’ è contenuto il termine ‘dignità’: è per rispetto e amore verso
me stessa che devo denunciare le ingiustizie. È scritto persino nel Talmud. E
se chi ci governa in questo modo sostiene di essere ebreo, allora io non sono
ebrea”.
“Stare in disparte non è possibile, se testimoni dolore è
tuo dovere cercare di alleviarlo”.
È una lettura mossa dal profondo attaccamento a valori
religiosi quella di Yoel. Lei, che nel suo paese è minoranza di una minoranza,
ben consapevole della sproporzione di forze in campo.
“Non posso vincere contro il governo e l’esercito, ma posso
portare il mio corpo e miei occhi laddove ci sono violazioni. Non si combatte
una battaglia solo per vincerla, ma anche perché la causa è giusta”, sostiene.
Quello palestinese è un territorio barbaramente depredato,
lo dimostra anche il filmato che mostra a una platea attenta, quasi tutta al
femminile. È stato girato dalle donne di Machsom Watch nei pressi della colonia
di Efrat, tra Betlemme e Gerusalemme. Sul sottofondo musicale di una preghiera
cabalistica si muovono le ruspe israeliane che distruggono una vallata e i suoi
albicocchi, proprietà di contadini palestinesi. Al loro posto verranno
costruite le fognature a cielo aperto necessarie alla colonia.
“La preghiera chiede a Dio che il grido degli ebrei sia
ascoltato. Adesso la situazione è un po’ cambiata”, commenta.
“Gli architetti del male sono pochissimi, ma hanno bisogno
di gente che non vuole sapere. Accadde così anche al mio popolo: noi non
possiamo permetterci di dire ‘io non sapevo’, come fecero altri con 6 milioni
di ebrei”.
E se un paradosso crudele mostra un popolo a lungo senza
radici sradicare quelle altrui, distruggendo alberi, terra e storia, diventa
importante agire per fermare la violenza.
“Chi sarebbe disposto a lasciar andare la sua preda se non
c’è nessuno che lo costringa a farlo? Quello che chiedo è che ognuno faccia
pressione sui propri governi. Non solo per i palestinesi, ma per salvare
Israele da se stesso”.
Una battaglia impari, che va comunque combattuta secondo le
donne di Machsom Watch.
Ecco perché alla domanda “voi cosa fate” hanno una sola
risposta da dare: “Tutto quello che possiamo”.
27 novembre 2012
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