COMPAGNI
Io, ebreo, suo capo spirituale marxista
di Moni Ovadia
Quando certi alti prelati lo apostrofavano
dicendogli: “Un buon sacerdote deve avere un direttore spirituale!”, allora lui
rispondeva: “Ma io ce l’ho, è un ebreo, si chiama Moni Ovadia!”. (...) Il
messaggio di Cristo è un messaggio radicale. E la radicalità sta proprio
nell’annunciare che “gli ultimi saranno i primi”. Attenzione, però, solitamente
la più celebre delle beatitudini viene tradotta dal greco così: “Beati gli
ultimi perché saranno i primi”. Ricordandovi che Gesù parlava e predicava in
aramaico, ma pregava in ebraico, desidero soffermarmi sulla parola ashrey’,
tradotta nell’italiano con “beato” o anche “felice”. La radice ebraica ashrey’
contiene in sé un significato di felicità dinamico più che statico. Prendendola
un po’ alla larga provo a spiegare questa interpretazione con un’idea di
felicità che apparteneva a Karl Marx. Il grande filosofo di Tre-viri era un uomo che amava stare in famiglia. Nel
corso delle riunioni con amici, in casa Marx, si faceva solitamente un gioco di
società che consisteva in dieci domande rivolte a ciascuno degli astanti. Una
delle domande era: “Che cosa è per te la felicità?”. Quando essa veniva rivolta
a Marx, magari da una delle sue figlie, il celebre rivoluzionario rispondeva
convinto: “Felicità per me è lottare”. Ecco allora che un traduttore geniale
delle Scritture, André Chouraqui, primo ebreo che abbia mai tradotto i Vangeli,
traduce la celebre beatitudine non “beati gli ultimi”, ma “in marcia gli ultimi che
saranno i primi”. Questa traduzione porta a far emergere il senso
rivoluzionario della predicazione cristica. La felicità è movimento, è lotta.
Proprio collocandosi in questo orizzonte, il Gallo riusciva a essere uno e
trino – e scusate se mi permetto l’irriverenza, ma essa è privilegio del
saltimbanco – era cioè in continua tensione dialettica fra la pienezza del suo
essere umano in carne e ossa, il “compagno” partigiano, militante per
l’uguaglianza e la giustizia sociale, e il suo essere cristiano-cattolico,
cioè luminosamente credente e uomo di chiesa. La sua radicalità umana e
cristiana – e in suo onore voglio usare anch’io una radicalità di linguaggio,
contro la melassa conformista sparsa a profusione di questi tempi – lo rese
“divisivo”! Proprio come Gesù Cristo! Se Gesù fosse stato “unitivo”, non
sarebbe finito su una croce, ma avrebbe avuto un posto d’onore nel Parlamento
italiano. Don Andrea mi ha insegnato cosa vuol dire essere compagno, prima di
lui non lo sapevo. Compagno è parola da tempo bandita, come fosse una parola
infame della burocrazia stalinista. Non è così. Ha una radice cristiana: cum
panis. Il compagno è colui con cui spezzi il pane. Solo in seguito il movimento
operaio ha proiettato il termine nella sua grandezza fino all’orizzonte di
quella giustizia sociale che promana dal lavoro come status di nobiltà. Ebbene, qual è il pane che si spezza come cristiani,
come ebrei, come compagni, come democratici? È il pane della giustizia sociale!
È questo il pane che dobbiamo spezzare, perché senza giustizia sociale, il
tanto parlare di equità è solo un raggiro, uno strumento di confusione e
perversione. L’unica volta che ho pregato in una chiesa è stato con lui. Sì,
io, ebreo agnostico, ho pregato col Gallo. (...) Una domenica dovevo andare a
pranzo da lui, come facevo spesso. Andrea stava terminando di celebrare la
messa, entrai in chiesa restandomene in fondo, ma lui mi vide con la coda
dell’occhio e mi chiamò: “Stiamo per dire il Padre nostro”. Lui e tutti i suoi
parrocchiani si tenevano per mano stando in cerchio, e allora m’invitò: “Vieni
qua, che tanto questa preghiera ha radici ebraiche e va bene anche per te”.
(segnalato da Luciana)
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