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mercoledì 20 novembre 2013

D.Gallo e Moni Ovadia

COMPAGNI
Io, ebreo, suo capo spirituale marxista
di Moni Ovadia

   Quando certi alti prelati lo apostrofavano dicendogli: “Un buon sacerdote deve avere un direttore spirituale!”, allora lui rispondeva: “Ma io ce l’ho, è un ebreo, si chiama Moni Ovadia!”. (...) Il messaggio di Cristo è un messaggio radicale. E la radicalità sta proprio nell’annunciare che “gli ultimi saranno i primi”. Attenzione, però, solitamente la più celebre delle beatitudini viene tradotta dal greco così: “Beati gli ultimi perché saranno i primi”. Ricordandovi che Gesù parlava e predicava in aramaico, ma pregava in ebraico, desidero soffermarmi sulla parola ashrey’, tradotta nell’italiano con “beato” o anche “felice”. La radice ebraica ashrey’ contiene in sé un significato di felicità dinamico più che statico. Prendendola un po’ alla larga provo a spiegare questa interpretazione con un’idea di felicità che apparteneva a Karl Marx. Il grande filosofo di Tre-viri era un uomo che amava stare in famiglia. Nel corso delle riunioni con amici, in casa Marx, si faceva solitamente un gioco di società che consisteva in dieci domande rivolte a ciascuno degli astanti. Una delle domande era: “Che cosa è per te la felicità?”. Quando essa veniva rivolta a Marx, magari da una delle sue figlie, il celebre rivoluzionario rispondeva convinto: “Felicità per me è lottare”. Ecco allora che un traduttore geniale delle Scritture, André Chouraqui, primo ebreo che abbia mai tradotto i Vangeli, traduce la celebre beatitudine non “beati gli ultimi”, ma “in marcia gli ultimi che saranno i primi”. Questa traduzione porta a far emergere il senso rivoluzionario della predicazione cristica. La felicità è movimento, è lotta. Proprio collocandosi in questo orizzonte, il Gallo riusciva a essere uno e trino – e scusate se mi permetto l’irriverenza, ma essa è privilegio del saltimbanco – era cioè in continua tensione dialettica fra la pienezza del suo essere umano in carne e ossa, il “compagno” partigiano, militante per l’uguaglianza e la giustizia sociale, e il suo essere cristiano-cattolico, cioè luminosamente credente e uomo di chiesa. La sua radicalità umana e cristiana – e in suo onore voglio usare anch’io una radicalità di linguaggio, contro la melassa conformista sparsa a profusione di questi tempi – lo rese “divisivo”! Proprio come Gesù Cristo! Se Gesù fosse stato “unitivo”, non sarebbe finito su una croce, ma avrebbe avuto un posto d’onore nel Parlamento italiano. Don Andrea mi ha insegnato cosa vuol dire essere compagno, prima di lui non lo sapevo. Compagno è parola da tempo bandita, come fosse una parola infame della burocrazia stalinista. Non è così. Ha una radice cristiana: cum panis. Il compagno è colui con cui spezzi il pane. Solo in seguito il movimento operaio ha proiettato il termine nella sua grandezza fino all’orizzonte di quella giustizia sociale che promana dal lavoro come status di nobiltà. Ebbene, qual è il pane che si spezza come cristiani, come ebrei, come compagni, come democratici? È il pane della giustizia sociale! È questo il pane che dobbiamo spezzare, perché senza giustizia sociale, il tanto parlare di equità è solo un raggiro, uno strumento di confusione e perversione. L’unica volta che ho pregato in una chiesa è stato con lui. Sì, io, ebreo agnostico, ho pregato col Gallo. (...) Una domenica dovevo andare a pranzo da lui, come facevo spesso. Andrea stava terminando di celebrare la messa, entrai in chiesa restandomene in fondo, ma lui mi vide con la coda dell’occhio e mi chiamò: “Stiamo per dire il Padre nostro”. Lui e tutti i suoi parrocchiani si tenevano per mano stando in cerchio, e allora m’invitò: “Vieni qua, che tanto questa preghiera ha radici ebraiche e va bene anche per te”.
(segnalato da Luciana)


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