Opportunità pastorale
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By Sherif El Sebaie on Religioni
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By Sherif El Sebaie on Religioni
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La città del fiore
Domenica 4 novembre 2007, anniversario dell'alluvione, alle ore 10,15 in via degli Aceri 1 a Firenze, alle "Baracche", sarà presentato il libro "La città del fiore" che contiene una favola scritta da Enzo Mazzi e magicamente illustrata dall'artista curdo Fuad Aziz, pubblicata dalla Regione Toscana per trasmettere alle generazioni più giovani la memoria dell'alluvione del 1966.
L’incontro sarà introdotto da Claudia Daurù della Comunità dell’Isolotto. Parteciperanno Paolo Cocchi, Assessore alla Cultura della Regione Toscana e Simonetta Soldani, docente si storia contemporanea all’Università di Firenze. Saranno presenti gli autori e i Presidenti del Consiglio del Q4 e del Consiglio Comunale. I bambini della Comunità leggeranno brani del libro, mentre su uno schermo saranno proiettate le immagini di Fuad. Ai presenti sarà offerta una copia del libro.
Un secondo incontro di presentazione, specificamente per alunni, insegnanti e genitori, si farà lunedì 5 novembre 2007 al mattino nella Scuola elementare della Montagnola in via G. da Montorsoli 1 Firenze. Leggerà la favola l'attore Antonio Masi.
*********
Ad ogni anniversario dell'alluvione si moltiplicano le iniziative, convegni, pubblicazioni, mostre, manifestazioni. In questi quarant’anni però ci sembra che non ci sia traccia di una iniziativa specifica per favorire la trasmissione della memoria alle nuove generazioni e in particolare ai bambini.
Per questo la Regione Toscana e la Comunità dell’Isolotto hanno preso l’iniziativa di pubblicare una favola magicamente illustrata dall’artista curdo Fuad Aziz, scritta da Enzo Mazzi, intitolata "La città del fiore", da diffondere nelle scuole e per quanto è possibile anche nelle famiglie.
L’intento era ed è quello di trasmettere con modalità e linguaggi rispettosi delle modalità di apprendimento, della fantasia e creatività dei bambini non solo la memoria dell’evento drammatico ma quella della straordinaria esperienza che si sviluppò nei quartieri fiorentini invasi dall'acqua e dal fango. La violenza della natura fu vinta ancora una volta dalla colomba e dall'arcobaleno, come nel mito del diluvio; fu vinta cioè dal volo alto dell'iniziativa di base e dall’inarcarsi tutti insieme dei cittadini, dal dispiegarsi della solidarietà popolare, dall'integrazione feconda fra realtà sociali e fra persone di aree ideologiche e culturali diverse. Non fu però un fatto isolato: si intrecciava con grandi trasformazioni culturali a livello mondiale e si legava ad importanti tappe della storia recente della città. La liberazione di Firenze, le prime giunte comunali, la stagione politica lapiriana, le lotte operaie degli anni 50-60, l'alluvione e i Comitati di quartiere, le scuole popolari, le mobilitazioni per la pace e per un "nuovo mondo possibile" sono tante radici di un'unica trama storica animata dai valori, dall'intelligenza, dalla cultura popolare della gente dei quartieri fiorentini. E’ questa trama positiva che anche i bambini devono conoscere con le modalità che sono loro proprie. Non la solidarietà come eccezione favorita da eventi drammatici, ma la solidarietà come trama profonda della vita e della storia.
E non si tratta solo di trasmettere memoria ma di intrecciarla col presente e di favorire un’apertura delle coscienze infantili ai temi della solidarietà, del protagonismo di base, del rapporto di autonomia critica rispetto ai condizionamenti dello sconfinato egoismo individuale senza prospettive né speranza.
La Comunità dell'Isolotto
La città del fiore
Domenica 4 novembre 2007, anniversario dell'alluvione, alle ore 10,15 in via degli Aceri 1 a Firenze, alle "Baracche", sarà presentato il libro "La città del fiore" che contiene una favola scritta da Enzo Mazzi e magicamente illustrata dall'artista curdo Fuad Aziz, pubblicata dalla Regione Toscana per trasmettere alle generazioni più giovani la memoria dell'alluvione del 1966.
L’incontro sarà introdotto da Claudia Daurù della Comunità dell’Isolotto. Parteciperanno Paolo Cocchi, Assessore alla Cultura della Regione Toscana e Simonetta Soldani, docente si storia contemporanea all’Università di Firenze. Saranno presenti gli autori e i Presidenti del Consiglio del Q4 e del Consiglio Comunale. I bambini della Comunità leggeranno brani del libro, mentre su uno schermo saranno proiettate le immagini di Fuad. Ai presenti sarà offerta una copia del libro.
Un secondo incontro di presentazione, specificamente per alunni, insegnanti e genitori, si farà lunedì 5 novembre 2007 al mattino nella Scuola elementare della Montagnola in via G. da Montorsoli 1 Firenze. Leggerà la favola l'attore Antonio Masi.
*********
Ad ogni anniversario dell'alluvione si moltiplicano le iniziative, convegni, pubblicazioni, mostre, manifestazioni. In questi quarant’anni però ci sembra che non ci sia traccia di una iniziativa specifica per favorire la trasmissione della memoria alle nuove generazioni e in particolare ai bambini.
Per questo la Regione Toscana e la Comunità dell’Isolotto hanno preso l’iniziativa di pubblicare una favola magicamente illustrata dall’artista curdo Fuad Aziz, scritta da Enzo Mazzi, intitolata "La città del fiore", da diffondere nelle scuole e per quanto è possibile anche nelle famiglie.
L’intento era ed è quello di trasmettere con modalità e linguaggi rispettosi delle modalità di apprendimento, della fantasia e creatività dei bambini non solo la memoria dell’evento drammatico ma quella della straordinaria esperienza che si sviluppò nei quartieri fiorentini invasi dall'acqua e dal fango. La violenza della natura fu vinta ancora una volta dalla colomba e dall'arcobaleno, come nel mito del diluvio; fu vinta cioè dal volo alto dell'iniziativa di base e dall’inarcarsi tutti insieme dei cittadini, dal dispiegarsi della solidarietà popolare, dall'integrazione feconda fra realtà sociali e fra persone di aree ideologiche e culturali diverse. Non fu però un fatto isolato: si intrecciava con grandi trasformazioni culturali a livello mondiale e si legava ad importanti tappe della storia recente della città. La liberazione di Firenze, le prime giunte comunali, la stagione politica lapiriana, le lotte operaie degli anni 50-60, l'alluvione e i Comitati di quartiere, le scuole popolari, le mobilitazioni per la pace e per un "nuovo mondo possibile" sono tante radici di un'unica trama storica animata dai valori, dall'intelligenza, dalla cultura popolare della gente dei quartieri fiorentini. E’ questa trama positiva che anche i bambini devono conoscere con le modalità che sono loro proprie. Non la solidarietà come eccezione favorita da eventi drammatici, ma la solidarietà come trama profonda della vita e della storia.
E non si tratta solo di trasmettere memoria ma di intrecciarla col presente e di favorire un’apertura delle coscienze infantili ai temi della solidarietà, del protagonismo di base, del rapporto di autonomia critica rispetto ai condizionamenti dello sconfinato egoismo individuale senza prospettive né speranza.
La Comunità dell'Isolotto
Comunità Isolotto
Spunti per la riflessione dell’incontro comunitario di
domenica 28 novembre 2007
a cura del gruppo: Tina – Carmen – Luciana – Francesca .- Marco
Per la prossima domenica proponiamo di riflettere sul significato – i contenuti – le caratteristiche – la conduzione – la prassi di questo nostro incontro settimanale.
Il desiderio di approfondimento nasce da alcune problematiche emerse in questo primo periodo dopo la pausa estiva:
- il bisogno di rinnovare ed attualizzare i linguaggi, a partire dal padrenostro;
- il disagio di relegare il momento della condivisione del pane alla fine della discussione, in uno spazio di tempo frettoloso e deconcentrato;
- le riflessioni sempre molto interessanti del gruppo che introduce non hanno a disposizione un tempo sufficiente all’ approfondimento con interventi dei presenti che desiderano dare il proprio contributo;
- la ripetitività della scansione nel modo di condurre l’incontro non si è arricchita di
elementi nuovi, creativi, coinvolgenti anche sul piano della corporeità;
- i ruoli e l’assunzione di responsabilità dei singoli e dei gruppi non trovano abbastanza spazio per la comunicazione;
- il desiderio di comunicazione spontanea interpersonale non trova una risposta adeguata per la limitatezza del tempo a disposizione, spesso non si riesce nemmeno a salutarsi.
Non vogliamo fare prima di tutto una discussione organizzativa, ma prenderci i tempi necessari per approfondire il significato di questo nostro stare insieme a partire dal percorso che abbiamo fatto in questi quaranta anni e dalla specificità di gesti – parole – riti e messaggi con cui abbiamo fatto memoria dell’esperienza cristiana .
Proprio per entrare dentro ciascun aspetto problematico pensiamo di fare riferimento
ad alcune parole chiave:
RITUALITA’- RITO
Ci chiediamo:
come e perché nascono i riti;
i riti sono importanti nel nostro vissuto quotidiano;
i riti sono un peso e una schiavitù –sono rassicuranti – sono utili – sono socializzanti – sono escludenti;
i riti sono una caratterizzazione di identità;
quali sono i riti della società moderna;
i riti sono statici, fissi, vanno mantenuti così come sono, vanno attualizzati;
il nostro incontro settimanale ha una sua identità rituale;
il rito nella piazza…e il rito in una stanza….quali differenze e similitudini.
EUCARESTIA – CONDIVISIONE
- Mangiare insieme sarebbe una condivisione certamente più concreta e significativa ma purtroppo più faticosa e difficile da realizzare ( alcune comunità comunque riescono a farlo).
- Ripetere il segno simbolico dello spezzare il pane mantiene comunque una carica emotiva?
- Sottrarci alla convivialità del mangiare insieme è un impoverimento?
- Accompagnare lo spezzare il pane con gesti di comunicazione e corporeità sarebbe un modo significativo e più coinvolgente oppure una forzatura innaturale dato che non siamo abituati a gesti affettivi?
- I momenti della memoria della cena eucaristica, della lettura corale di un testo, avrebbero bisogno di essere accompagnati da uno spazio di silenzio –riflessione -rilassamento…senza troppa frettolosità, dopo tante parole?……
- La lettura corale delle parole della eucaristia la sentiamo coinvolgente e significativa al fine di condividere la responsabilità del gesto che andiamo a compiere?
MINISTERI – SERVIZIO – ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’
Riflettiamo su:
- continuità – costanza dell’impegno
- pesantezza ed insofferenza per un impegno troppo assillante
- gioia e gratificazione nel sentirsi utile
- soddisfazione nello svolgere un ruolo e nel rendere un servizio
- frustrazione per non essere valorizzato dagli altri
- difficoltà a collaborare o ad entrare in feeling
- mancanza di collaborazione
-altro
PREGHIERA – PADRE NOSTRO
l’argomento è già stato introdotto domenica scorsa attraverso un’analisi sulla parola che cambia…che si rinnova…come e perché, vorremmo approfondire:
- il padre nostro come preghiera che significato ha per noi (su questo abbiamo tutta la raccolta delle discussioni che facemmo in comunità nel 1997)?
- quale è il significato vero e originario delle parole del padrenostro?
- per rispettare il suo messaggio originale possiamo noi oggi ripetere le parole di allora?
- cambiare le parole per renderne attuale il messaggio?
- mantenere le parole per conservare una tradizione e una memoria storica?
- conservare le parole per non creare disagio a chi è abituato?
- cambiare le parole per esprimere insieme, coralmente,atteggiamenti interiori, convinzioni, disponibilità, accoglienza reciproca?
- la lettura corale di brani e riflessioni condivise è per noi significante?
Come vedete i materiali di riflessione sono molti, se ci farà piacere ne affronteremo un po’ alla volta, senza fretta. Abbiamo creduto opportuno inviarvi questa scheda perché chi vorrà partecipare alla discussione avrà il tempo di rifletterci e magari arricchire questi spunti con riflessioni personali o ricerche di testi di approfondimento.
L’obbiettivo potrebbe essere:
- dare maggiore spazio alla creatività personale o di gruppo,
- trovare un tempo più comodo e sereno da trascorrere insieme (pensiamo, per esempio, anziché la domenica mattina trovarci la domenica pomeriggio dalle 17 alle19),
- riscoprire la nostra identità alla luce anche di una maggiore convivialità.
Comunità Isolotto
Spunti per la riflessione dell’incontro comunitario di
domenica 28 novembre 2007
a cura del gruppo: Tina – Carmen – Luciana – Francesca .- Marco
Per la prossima domenica proponiamo di riflettere sul significato – i contenuti – le caratteristiche – la conduzione – la prassi di questo nostro incontro settimanale.
Il desiderio di approfondimento nasce da alcune problematiche emerse in questo primo periodo dopo la pausa estiva:
- il bisogno di rinnovare ed attualizzare i linguaggi, a partire dal padrenostro;
- il disagio di relegare il momento della condivisione del pane alla fine della discussione, in uno spazio di tempo frettoloso e deconcentrato;
- le riflessioni sempre molto interessanti del gruppo che introduce non hanno a disposizione un tempo sufficiente all’ approfondimento con interventi dei presenti che desiderano dare il proprio contributo;
- la ripetitività della scansione nel modo di condurre l’incontro non si è arricchita di
elementi nuovi, creativi, coinvolgenti anche sul piano della corporeità;
- i ruoli e l’assunzione di responsabilità dei singoli e dei gruppi non trovano abbastanza spazio per la comunicazione;
- il desiderio di comunicazione spontanea interpersonale non trova una risposta adeguata per la limitatezza del tempo a disposizione, spesso non si riesce nemmeno a salutarsi.
Non vogliamo fare prima di tutto una discussione organizzativa, ma prenderci i tempi necessari per approfondire il significato di questo nostro stare insieme a partire dal percorso che abbiamo fatto in questi quaranta anni e dalla specificità di gesti – parole – riti e messaggi con cui abbiamo fatto memoria dell’esperienza cristiana .
Proprio per entrare dentro ciascun aspetto problematico pensiamo di fare riferimento
ad alcune parole chiave:
RITUALITA’- RITO
Ci chiediamo:
come e perché nascono i riti;
i riti sono importanti nel nostro vissuto quotidiano;
i riti sono un peso e una schiavitù –sono rassicuranti – sono utili – sono socializzanti – sono escludenti;
i riti sono una caratterizzazione di identità;
quali sono i riti della società moderna;
i riti sono statici, fissi, vanno mantenuti così come sono, vanno attualizzati;
il nostro incontro settimanale ha una sua identità rituale;
il rito nella piazza…e il rito in una stanza….quali differenze e similitudini.
EUCARESTIA – CONDIVISIONE
- Mangiare insieme sarebbe una condivisione certamente più concreta e significativa ma purtroppo più faticosa e difficile da realizzare ( alcune comunità comunque riescono a farlo).
- Ripetere il segno simbolico dello spezzare il pane mantiene comunque una carica emotiva?
- Sottrarci alla convivialità del mangiare insieme è un impoverimento?
- Accompagnare lo spezzare il pane con gesti di comunicazione e corporeità sarebbe un modo significativo e più coinvolgente oppure una forzatura innaturale dato che non siamo abituati a gesti affettivi?
- I momenti della memoria della cena eucaristica, della lettura corale di un testo, avrebbero bisogno di essere accompagnati da uno spazio di silenzio –riflessione -rilassamento…senza troppa frettolosità, dopo tante parole?……
- La lettura corale delle parole della eucaristia la sentiamo coinvolgente e significativa al fine di condividere la responsabilità del gesto che andiamo a compiere?
MINISTERI – SERVIZIO – ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’
Riflettiamo su:
- continuità – costanza dell’impegno
- pesantezza ed insofferenza per un impegno troppo assillante
- gioia e gratificazione nel sentirsi utile
- soddisfazione nello svolgere un ruolo e nel rendere un servizio
- frustrazione per non essere valorizzato dagli altri
- difficoltà a collaborare o ad entrare in feeling
- mancanza di collaborazione
-altro
PREGHIERA – PADRE NOSTRO
l’argomento è già stato introdotto domenica scorsa attraverso un’analisi sulla parola che cambia…che si rinnova…come e perché, vorremmo approfondire:
- il padre nostro come preghiera che significato ha per noi (su questo abbiamo tutta la raccolta delle discussioni che facemmo in comunità nel 1997)?
- quale è il significato vero e originario delle parole del padrenostro?
- per rispettare il suo messaggio originale possiamo noi oggi ripetere le parole di allora?
- cambiare le parole per renderne attuale il messaggio?
- mantenere le parole per conservare una tradizione e una memoria storica?
- conservare le parole per non creare disagio a chi è abituato?
- cambiare le parole per esprimere insieme, coralmente,atteggiamenti interiori, convinzioni, disponibilità, accoglienza reciproca?
- la lettura corale di brani e riflessioni condivise è per noi significante?
Come vedete i materiali di riflessione sono molti, se ci farà piacere ne affronteremo un po’ alla volta, senza fretta. Abbiamo creduto opportuno inviarvi questa scheda perché chi vorrà partecipare alla discussione avrà il tempo di rifletterci e magari arricchire questi spunti con riflessioni personali o ricerche di testi di approfondimento.
L’obbiettivo potrebbe essere:
- dare maggiore spazio alla creatività personale o di gruppo,
- trovare un tempo più comodo e sereno da trascorrere insieme (pensiamo, per esempio, anziché la domenica mattina trovarci la domenica pomeriggio dalle 17 alle19),
- riscoprire la nostra identità alla luce anche di una maggiore convivialità.
Per questo la Regione Toscana e la Comunità dell’Isolotto hanno preso l’iniziativa di pubblicare una favola magicamente illustrata dall’artista curdo Fuad Aziz, scritta da Enzo Mazzi, intitolata "La città del fiore", da diffondere nelle scuole e per quanto è possibile anche nelle famiglie.
L’intento era ed è quello di trasmettere con modalità e linguaggi rispettosi delle modalità di apprendimento, della fantasia e creatività dei bambini non solo la memoria dell’evento drammatico ma quella della straordinaria esperienza che si sviluppò nei quartieri fiorentini invasi dall'acqua e dal fango. La violenza della natura fu vinta ancora una volta dalla colomba e dall'arcobaleno, come nel mito del diluvio; fu vinta cioè dal volo alto dell'iniziativa di base e dall’inarcarsi tutti insieme dei cittadini, dal dispiegarsi della solidarietà popolare, dall'integrazione feconda fra realtà sociali e fra persone di aree ideologiche e culturali diverse. Non fu però un fatto isolato: si intrecciava con grandi trasformazioni culturali a livello mondiale e si legava ad importanti tappe della storia recente della città. La liberazione di Firenze, le prime giunte comunali, la stagione politica lapiriana, le lotte operaie degli anni 50-60, l'alluvione e i Comitati di quartiere, le scuole popolari, le mobilitazioni per la pace e per un "nuovo mondo possibile" sono tante radici di un'unica trama storica animata dai valori, dall'intelligenza, dalla cultura popolare della gente dei quartieri fiorentini. E’ questa trama positiva che anche i bambini devono conoscere con le modalità che sono loro proprie. Non la solidarietà come eccezione favorita da eventi drammatici, ma la solidarietà come trama profonda della vita e della storia.
E non si tratta solo di trasmettere memoria ma di intrecciarla col presente e di favorire un’apertura delle coscienze infantili ai temi della solidarietà, del protagonismo di base, del rapporto di autonomia critica rispetto ai condizionamenti dello sconfinato egoismo individuale senza prospettive né speranza.
Il libro sarà presentato e distribuito in un incontro che si terrà il mattino di domenica 4 novembre 2007 alle ore 10,15 alle "Baracche" in via degli Aceri 1 a Firenze, uno dei luoghi storici della solidarietà e dell’intreccio culturale proprio a partire dall’alluvione e fino ad oggi.
L’incontro sarà introdotto da Claudia Daurù della Comunità dell’Isolotto. Parteciperanno Paolo Cocchi, Assessore alla Cultura della Regione Toscana e Simonetta Soldani, docente si storia contemporanea all’Università di Firenze. Saranno presenti gli autori e i Presidenti del Consiglio del Q4 e del Consiglio Comunale. I bambini della Comunità leggeranno brani del libro.
Un secondo incontro di presentazione, specificamente per alunni, insegnanti e genitori, si farà lunedì 5 novembre 2007 al mattino nella Scuola elementare della Montagnola in via G. da Montorsoli 1 Firenze.
La Comunità dell'Isolotto
Per questo la Regione Toscana e la Comunità dell’Isolotto hanno preso l’iniziativa di pubblicare una favola magicamente illustrata dall’artista curdo Fuad Aziz, scritta da Enzo Mazzi, intitolata "La città del fiore", da diffondere nelle scuole e per quanto è possibile anche nelle famiglie.
L’intento era ed è quello di trasmettere con modalità e linguaggi rispettosi delle modalità di apprendimento, della fantasia e creatività dei bambini non solo la memoria dell’evento drammatico ma quella della straordinaria esperienza che si sviluppò nei quartieri fiorentini invasi dall'acqua e dal fango. La violenza della natura fu vinta ancora una volta dalla colomba e dall'arcobaleno, come nel mito del diluvio; fu vinta cioè dal volo alto dell'iniziativa di base e dall’inarcarsi tutti insieme dei cittadini, dal dispiegarsi della solidarietà popolare, dall'integrazione feconda fra realtà sociali e fra persone di aree ideologiche e culturali diverse. Non fu però un fatto isolato: si intrecciava con grandi trasformazioni culturali a livello mondiale e si legava ad importanti tappe della storia recente della città. La liberazione di Firenze, le prime giunte comunali, la stagione politica lapiriana, le lotte operaie degli anni 50-60, l'alluvione e i Comitati di quartiere, le scuole popolari, le mobilitazioni per la pace e per un "nuovo mondo possibile" sono tante radici di un'unica trama storica animata dai valori, dall'intelligenza, dalla cultura popolare della gente dei quartieri fiorentini. E’ questa trama positiva che anche i bambini devono conoscere con le modalità che sono loro proprie. Non la solidarietà come eccezione favorita da eventi drammatici, ma la solidarietà come trama profonda della vita e della storia.
E non si tratta solo di trasmettere memoria ma di intrecciarla col presente e di favorire un’apertura delle coscienze infantili ai temi della solidarietà, del protagonismo di base, del rapporto di autonomia critica rispetto ai condizionamenti dello sconfinato egoismo individuale senza prospettive né speranza.
Il libro sarà presentato e distribuito in un incontro che si terrà il mattino di domenica 4 novembre 2007 alle ore 10,15 alle "Baracche" in via degli Aceri 1 a Firenze, uno dei luoghi storici della solidarietà e dell’intreccio culturale proprio a partire dall’alluvione e fino ad oggi.
L’incontro sarà introdotto da Claudia Daurù della Comunità dell’Isolotto. Parteciperanno Paolo Cocchi, Assessore alla Cultura della Regione Toscana e Simonetta Soldani, docente si storia contemporanea all’Università di Firenze. Saranno presenti gli autori e i Presidenti del Consiglio del Q4 e del Consiglio Comunale. I bambini della Comunità leggeranno brani del libro.
Un secondo incontro di presentazione, specificamente per alunni, insegnanti e genitori, si farà lunedì 5 novembre 2007 al mattino nella Scuola elementare della Montagnola in via G. da Montorsoli 1 Firenze.
La Comunità dell'Isolotto
Laicità
----- Original Message -----
From: Franco Friscia
To: UAAR Circolo di Roma ; LIBERAUSCITA
Sent: Tuesday, October 23, 2007 2:11 AM
Subject: [liberauscita] Fw: 7 DICEMBRE - SIT IN per Luigi Tosti
Venerdì 7 dicembre alle ore 08,00 in Piazza Indipendenza a Roma il Giudice Luigi Tosti sarà nuovamente chiamato in causa dal CSM (dopo che l'udienza del 21 settembre era stata spostata). La sua unica colpa ? … Essere “troppo laico” !
Tutto iniziò quando tra il 2004 ed il 2005 il giudice decise di sospendere le udienze presso il tribunale di Camerino perchè non venne accolta la sua richiesta di rimuovere i crocifissi dalle aule di giustizia (e a tal fine rinunciò anche al proprio stipendio).
Questo gesto gli costò una lunga serie di ritorsioni da parte delle istituzioni per “sospensione pubblico servizio”.
Il Giudice Tosti non ha mai declinato le proprie responsabilità circa le proprie funzioni, ma lo stato italiano si è ben guardato dal riconoscere le proprie responsabilità nel garantire la laicità delle sue istituzioni.
Ancora oggi troppi cittadini si chiedono perchè in un’aula di tribunale debba essere esposto un simbolo religioso e non l’emblema della Repubblica Italiana a cui le nostre leggi e le nostre istituzioni dovrebbero fare riferimento.
Ancora oggi troppi cittadini si chiedono perchè un giudice (che desidera che il principio di laicità dello stato sia rispettato per tutti, soprattutto nelle aule di giustizia) sospende le udienze e viene giustamente perseguito per “interruzione di pubblico servizio”, mentre un farmacista o un medico dipendenti di strutture pubbliche che si dichiarano obiettori (e che finiscono per imporre agli altri i dettami della loro religione) possono tranquillamente sospendere un servizio pubblico senza che questo comporti per loro la minima sanzione.
Il 7 dicembre alle ore 08,00 in Piazza Indipendenza a Roma l’UAAR ci sarà !
Tutte le associazioni sono invitate ad aderire inviando la propria sottoscrizione all’indirizzo roma@uaar.it
Laicità
----- Original Message -----
From: Franco Friscia
To: UAAR Circolo di Roma ; LIBERAUSCITA
Sent: Tuesday, October 23, 2007 2:11 AM
Subject: [liberauscita] Fw: 7 DICEMBRE - SIT IN per Luigi Tosti
Venerdì 7 dicembre alle ore 08,00 in Piazza Indipendenza a Roma il Giudice Luigi Tosti sarà nuovamente chiamato in causa dal CSM (dopo che l'udienza del 21 settembre era stata spostata). La sua unica colpa ? … Essere “troppo laico” !
Tutto iniziò quando tra il 2004 ed il 2005 il giudice decise di sospendere le udienze presso il tribunale di Camerino perchè non venne accolta la sua richiesta di rimuovere i crocifissi dalle aule di giustizia (e a tal fine rinunciò anche al proprio stipendio).
Questo gesto gli costò una lunga serie di ritorsioni da parte delle istituzioni per “sospensione pubblico servizio”.
Il Giudice Tosti non ha mai declinato le proprie responsabilità circa le proprie funzioni, ma lo stato italiano si è ben guardato dal riconoscere le proprie responsabilità nel garantire la laicità delle sue istituzioni.
Ancora oggi troppi cittadini si chiedono perchè in un’aula di tribunale debba essere esposto un simbolo religioso e non l’emblema della Repubblica Italiana a cui le nostre leggi e le nostre istituzioni dovrebbero fare riferimento.
Ancora oggi troppi cittadini si chiedono perchè un giudice (che desidera che il principio di laicità dello stato sia rispettato per tutti, soprattutto nelle aule di giustizia) sospende le udienze e viene giustamente perseguito per “interruzione di pubblico servizio”, mentre un farmacista o un medico dipendenti di strutture pubbliche che si dichiarano obiettori (e che finiscono per imporre agli altri i dettami della loro religione) possono tranquillamente sospendere un servizio pubblico senza che questo comporti per loro la minima sanzione.
Il 7 dicembre alle ore 08,00 in Piazza Indipendenza a Roma l’UAAR ci sarà !
Tutte le associazioni sono invitate ad aderire inviando la propria sottoscrizione all’indirizzo roma@uaar.it
22/10/2007 08:45:00 - 160 letture
Maurizio Chierici: ll diavolo confessore
Non so quale tormento ha sconvolto i cattolici argentini nell’ascoltare le voci dei sopravissuti alle squadre della morte dei generali P2. Imputato il cappellano militare Christian Von Wernich. Le Tv e i fotografi che cercavano di cogliere nel volto un’ombra di imbarazzo ( se non di pentimento ) trovavano occhi di ghiaccio, labbra piegate nel sarcasmo quando, chi uscito vivo dalle prigioni clandestine, spiegava di quale inferno il sacerdote era stato protagonista.. L’ho visto e rivisto in Tv per evitare il luogo comune del colpevole indifferente, ma Von Wernich insisteva nel rappresentarsi come luogo comune senza speranza. Ha confessato i prigionieri che non si erano arresi alla tortura non avendo segreti da raccontare. Li invitava a collaborare perché l’Altissimo lo pretendeva. Chi confidava la verità nascosta - abbandono di ogni credente che si inginocchia - era lontano dal sospetto di un confessore spia dei torturatori. L’accusa ha inchiodato all’ergastolo Von Wernich: 7 omicidi, 32 casi di tortura ripetuta dopo le notizie raccolte nel confessionale e 42 amici spariti nel nulla. Nove anni fa il capitano Scilingo è stato il primo repressore a spiegare con quali parole di consolazione Von Wermich ed altri cappellani militari accompagnavano i condannati a morire sull’aereo che li avrebbe dispersi in mare: la volontà del Signore lo pretendeva, segno dell’ amore col quale proteggeva la patria. < Rassegnati, Dio lo sa >. Nell’interpretazione di questi sacerdoti, la rassegnazione disinfettava dagli insetti maligni la nuova società. Ma non erano insetti e non erano maligni: solo ragazzi che non sopportavano l’oppressione armata.
Ecco perché 30 anni dopo memoria e perdono restano i problemi irrisolti della Chiesa nel continente più cattolico del mondo. Von Wermich non è diventato improvvisamente colpevole otto giorni fa. Subito dopo la sentenza del tribunale, la Chiesa annuncia procedure che gli statuti vaticani contemplano per decidere il destino di un prete del quale si conoscono i delitti da tempo immemorabile. Negli ultimi mesi ogni vescovo ha incontrato ogni giorno su ogni giornale e ogni Tv i racconti dei testimoni e i documenti che provano l’orrore. Non a caso il comunicato della Commissione Episcopale appare cinque minuti dopo l’annuncio dell’ergastolo. Perché cinque minuti dopo e non cinque anni o cinque mesi fa come i credenti pretendevano ? Parole preparate da tempo; poche righe che deludono: < Il vangelo di Cristo impone a noi discepoli una condotta rispettosa verso i fratelli. Un sacerdote cattolico, per azioni e omissioni, si è allontanato dall’esigenze della missione che gli era stata affidata. Chiediamo perdono con pentimento sincero mentre pregiamo Dio nostro Signore di illuminarci per poter compiere la missione di unità e di servizio >. Non una parola di pena per le vittime. La deviazione di Von Wermich rimpicciolisce nella deviazione personale, pecora nera lontana dall’impegno della comunità ecclesiale. Ed è vero, ma il silenzio della comunità ecclesiale resta il peccato inspiegabile che ha riunito tanti vescovi e tanti sacerdoti alcuni di loro prossimi al processo. E dopo la sentenza se ne aggiungono altri. Il vescovo vicario della diocesi di san Miguel, Federico Gogala, visitava giovani donne che stavano per partorire. Nude e incappucciate per non riconoscerlo. Se ne andava col bambino appena nato mentre la madre veniva assassinata. Una suora e un’infermiera stanno testimoniando. E testimoniano le nonne di piazza di Maggio con la prova di una nipote ritrovata, data in adozione dal Movimento Familiare Cristiano vicino al vescovo ausiliare Gocala. Comprensibile l’imbarazzo e il dolore eppure nessuna spiegazione su < omissioni ed azioni > che tormentano il clero argentino, ma anche sacerdoti e cattolici di tutte le americhe latine, e non solo delle americhe. Non hanno saputo affrontare il passato prossimo con la lealtà che obbliga la loro missione. Per il diritto canonico la decisione sul futuro sacerdotale dell’ex cappellano militare è competenza del vescovo della diocesi, monsignor Martin Elizaide, 67 anni, profilo incolore nella gerarchia argentina. Facile pensare che il verdetto risentirà degli umori della conferenza episcopale. La procedura sarà lunga, Martin Elizaide non ha indicato quanto finirà. A Von Wermich è consentito ricorrere al tribunale vaticano se gli sarà proibito di esercitare la funzione ministeriale. Si apre un tempo paradossale. Von Wermich può continuare a confessare, celebrare messa come ogni parroco in pace con Dio; potrà distribuire la comunione agli altri torturatori chiusi nella stessa prigione fino a quando la decisione del vescovo non lo impedirà. Ma glielo proibirà per sempre o < la contrizione palese per il male commesso > potrà risorgerlo a nuova vita restituendogli messa, comunione e confessione? Su Ernesto Cardenal e Manuel D’Escoto, ministri nel governo sandinista, papa Woytila aveva alzato l’indice del rimprovero. Hanno perso la messa per sempre. Ferdinando Cardenal, fratello di Ernesto e gesuita, a 70 anni ha riaffrontato il noviziato con l’umiltà di un seminarista adolescente. Ed è tornato a celebrare dopo la lunga punizione. Loro colpa aver accettato un ruolo politico come è successo in altre regioni, anche in Italia. Baget Bozzo ( don Gianni per i ragazzi ormai bianchi del ’68 ) era diventato parlamentare europeo nel nome di Craxi: gli hanno benevolmente imposto la proibizione del predicare in pubblico. Nel privato restava il prete di sempre. Nessuna sanzione radicale.
I delitti di Von Vernich oscurati da silenzio e complicità aprono un capitolo finora esplorato con imbarazzo: il rapporto tra cappellani militari e dittature, dall’America Centrale a Brasile, Cile, Argentina. Con quale spiritualità si sono rivolti a Dio gomito a gomito con le squadre della morte ? Fedeli ai doveri pastorali o ligi all’obbedienza dovuta che incatena ogni militare ? Fino al processo Von Wernich, ai cappellani militari di Argentina e Cile la Chiesa non ha detto niente. Si sapeva e si sa delle ambiguità a volte degenerate in collaborazione al delitto. Sembra impossibile che i vescovi cappellani militari e i vescovi amici dei vescovi militari siano stati all’oscuro. Possibile che i nunzi apostolici, ambasciatori del Papa, si siano limitati ai sussurri ? Forse i doveri diplomatici e l’amicizia personale con gli strateghi della repressione hanno annacquato nell’ipocrisia l’impegno che impone la fede. Vent’anni dopo, 1996, i vescovi argentini si fanno vivi con un’autocritica superficiale. Nel 2000 chiedono per la prima volta perdono. In Cile il silenzio continua. Alla messa della domenica nella cattedrale castrense di Santiago, vecchi e nuovi militari si accostano all’altare con la devozione di Pinochet.
La storia dei rapporti chiesa-stato ha conosciuto in Argentina momenti che oggi ( solo oggi ) imbarazzano le coscienze. Subito dopo il colpo di stato 1976, il cardinale di Buenos Aires Carlo Aramburu invita i fedeli a collaborare col governo dei generali < i cui membri appaiono assai bene ispirati >. Gran parte dei vescovi e il nunzio apostolico Pio Laghi ( cardinale romano ) assistono alla cerimonia di insediamento del generale Videla. Laghi è il solo diplomatico straniero presente. Perché ? Tre mesi dopo benedice a Tucuman le truppe scatenate nella repressione: < l’autodifesa contro chi vorrebbe far prevalere idee estranee alla nazione… impone misure determinate. In queste circostanze si potrà rispettare il diritto fin dove si potrà >. Anche Benelli, sostituto segretario di stato vaticano, si dichiara < soddisfatto per l’orientamento assunto dal nuovo governo argentino nella sua vocazione cristiana e occidentale >. Paolo VI era stanco, malato. Lo si informa in qualche modo nascondendo quasi tutto. Anche Giovanni Paolo II viene a sapere della tragedia argentina dalle Madri di piazza di Maggio. La Chiesa di Buenos Aires tranquillizzava il Vaticano ma le madri alle quali avevano rubato i ragazzi vengono a Roma sperando di informare il papa. Per sopravvivere lavorano come perpetue o inservienti in collegi religiosi e parrocchie. Ed è così che Giovanni Paolo II, e non un vescovo argentino, pronuncia per primo la parola < desaparecido >. Tardi, purtroppo: 30 mila morti.
Ieri, come oggi, in Argentina e nel continente latino ( Venezuela compreso ) si delineano Chiese che non si capiscono. Tanti preti e qualche vescovo fra le vittime. Romero e dodici religiosi in Salvador. Due vescovi e religiosi assassinati in Argentina. Il primo a morire don Carlos Mugica, fondatore del movimento dei sacerdoti terzomondismi. Poi padre Josè Tedeschi, poi l’intera comunità dei Pallottini: tre preti, due seminaristi. Il vescovo Enrique Angeletti viene ucciso al ritorno da un convegno in Ecuador organizzato dai teologi della liberazione; il vescovo Carlos Ponce muore a San Nicolas in un incidente stradale che la polizia definisce < immaginario >. Due suore francesi violentate, torturate e uccise dal guardiamarina Astiz. L’essere riconosciuto colpevole non ferma la sua carriera: l’indulto del presidente Menem gli permette la divisa immacolata di capitano di vascello. I vescovi Karlic e Novak non sopportano: precedono il mea culpa ufficiale invocando perdono per il male che la Chiesa < non ha impedito, sopportato e in qualche caso aiutato >. Il regime cade eppure certe solidarietà non svaniscono. 24 settembre 1991: il nunzio apostolico Ubaldo Calabresi organizza un ricevimento per festeggiare il dodicesimo anniversario dell’investitura di Giovanni Paolo II. Fra gli invitati i generali Videla, Viola e l’ammiraglio Massera riconosciuti colpevoli dell’uccisione di migliaia persone, ma perdonati e rimessi in libertà dalla legge che < riappacifica il paese >. L’altra Chiesa argentina guarda al futuro in modo diverso. Dopo la condanna di Von Wernich la Commissione Giustizia e Pace assistita dal vescovo Jorge Casaretto ( 71 anni, origini genovesi ) si preoccupa del dolore dei familiari ed esprime pietà per le vittime invitando la giustizia a scoprire quali complicità e quanti tradimenti siano allo radice di una tragedia impossibile da nascondere. Casaretto ha guidato la Caritas negli anni del disastro economico: metà Argentina non sapeva cosa mangiare. Ha aperto mense popolari, bussato alle porte che contano. Von Wernich appartiene all’altra Chiesa. Il suo ergastolo illumina lo scandalo dei sacerdoti che hanno trasformato la confessione in un gadget della tortura. < Era difficile >, sospirava qualche anno fa il vescovo Laguna, portavoce della conferenza episcopale, nella sua stanzetta di Morelos. < Difficile restare fedeli alla promessa e sopravvivere nella paura >. Difficile, ma non impossibile. Cambiando latitudine ecco la storia del cardinale di Praga Miloslav Vlk. Il socialismo reale avevo imposto l’ateismo trasformando la devozione religiosa in un < sentimento privato >. I preti dovevano lavorare per vivere. Per i credenti una sfida andare a messa mentre mani curiose annotavano i nomi sul registro dei sovversivi. Il giovane prete Miloslav Vlk lavava vetri agli angoli delle strade. Ogni tanto perdeva tempo a discorrere coi passanti. Lo racconta nel libro di Sara Regina ( edizione San Paolo: < Da lavavetri a cardinale > ). Chi lo avvicinava voleva confessarsi lontano dagli occhi delle polizie. Col secchio d’acqua in mano, Miloslav Vlk ascoltava e assolveva chiudendo nel cuore le loro parole. Qualcuno dovrebbe mandare il libro a Von Wernich e a chissà quanti cappellani militari dell’altra America ( ma non solo ). Magari capiranno.
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22/10/2007 08:45:00 - 160 letture
Maurizio Chierici: ll diavolo confessore
Non so quale tormento ha sconvolto i cattolici argentini nell’ascoltare le voci dei sopravissuti alle squadre della morte dei generali P2. Imputato il cappellano militare Christian Von Wernich. Le Tv e i fotografi che cercavano di cogliere nel volto un’ombra di imbarazzo ( se non di pentimento ) trovavano occhi di ghiaccio, labbra piegate nel sarcasmo quando, chi uscito vivo dalle prigioni clandestine, spiegava di quale inferno il sacerdote era stato protagonista.. L’ho visto e rivisto in Tv per evitare il luogo comune del colpevole indifferente, ma Von Wernich insisteva nel rappresentarsi come luogo comune senza speranza. Ha confessato i prigionieri che non si erano arresi alla tortura non avendo segreti da raccontare. Li invitava a collaborare perché l’Altissimo lo pretendeva. Chi confidava la verità nascosta - abbandono di ogni credente che si inginocchia - era lontano dal sospetto di un confessore spia dei torturatori. L’accusa ha inchiodato all’ergastolo Von Wernich: 7 omicidi, 32 casi di tortura ripetuta dopo le notizie raccolte nel confessionale e 42 amici spariti nel nulla. Nove anni fa il capitano Scilingo è stato il primo repressore a spiegare con quali parole di consolazione Von Wermich ed altri cappellani militari accompagnavano i condannati a morire sull’aereo che li avrebbe dispersi in mare: la volontà del Signore lo pretendeva, segno dell’ amore col quale proteggeva la patria. < Rassegnati, Dio lo sa >. Nell’interpretazione di questi sacerdoti, la rassegnazione disinfettava dagli insetti maligni la nuova società. Ma non erano insetti e non erano maligni: solo ragazzi che non sopportavano l’oppressione armata.
Ecco perché 30 anni dopo memoria e perdono restano i problemi irrisolti della Chiesa nel continente più cattolico del mondo. Von Wermich non è diventato improvvisamente colpevole otto giorni fa. Subito dopo la sentenza del tribunale, la Chiesa annuncia procedure che gli statuti vaticani contemplano per decidere il destino di un prete del quale si conoscono i delitti da tempo immemorabile. Negli ultimi mesi ogni vescovo ha incontrato ogni giorno su ogni giornale e ogni Tv i racconti dei testimoni e i documenti che provano l’orrore. Non a caso il comunicato della Commissione Episcopale appare cinque minuti dopo l’annuncio dell’ergastolo. Perché cinque minuti dopo e non cinque anni o cinque mesi fa come i credenti pretendevano ? Parole preparate da tempo; poche righe che deludono: < Il vangelo di Cristo impone a noi discepoli una condotta rispettosa verso i fratelli. Un sacerdote cattolico, per azioni e omissioni, si è allontanato dall’esigenze della missione che gli era stata affidata. Chiediamo perdono con pentimento sincero mentre pregiamo Dio nostro Signore di illuminarci per poter compiere la missione di unità e di servizio >. Non una parola di pena per le vittime. La deviazione di Von Wermich rimpicciolisce nella deviazione personale, pecora nera lontana dall’impegno della comunità ecclesiale. Ed è vero, ma il silenzio della comunità ecclesiale resta il peccato inspiegabile che ha riunito tanti vescovi e tanti sacerdoti alcuni di loro prossimi al processo. E dopo la sentenza se ne aggiungono altri. Il vescovo vicario della diocesi di san Miguel, Federico Gogala, visitava giovani donne che stavano per partorire. Nude e incappucciate per non riconoscerlo. Se ne andava col bambino appena nato mentre la madre veniva assassinata. Una suora e un’infermiera stanno testimoniando. E testimoniano le nonne di piazza di Maggio con la prova di una nipote ritrovata, data in adozione dal Movimento Familiare Cristiano vicino al vescovo ausiliare Gocala. Comprensibile l’imbarazzo e il dolore eppure nessuna spiegazione su < omissioni ed azioni > che tormentano il clero argentino, ma anche sacerdoti e cattolici di tutte le americhe latine, e non solo delle americhe. Non hanno saputo affrontare il passato prossimo con la lealtà che obbliga la loro missione. Per il diritto canonico la decisione sul futuro sacerdotale dell’ex cappellano militare è competenza del vescovo della diocesi, monsignor Martin Elizaide, 67 anni, profilo incolore nella gerarchia argentina. Facile pensare che il verdetto risentirà degli umori della conferenza episcopale. La procedura sarà lunga, Martin Elizaide non ha indicato quanto finirà. A Von Wermich è consentito ricorrere al tribunale vaticano se gli sarà proibito di esercitare la funzione ministeriale. Si apre un tempo paradossale. Von Wermich può continuare a confessare, celebrare messa come ogni parroco in pace con Dio; potrà distribuire la comunione agli altri torturatori chiusi nella stessa prigione fino a quando la decisione del vescovo non lo impedirà. Ma glielo proibirà per sempre o < la contrizione palese per il male commesso > potrà risorgerlo a nuova vita restituendogli messa, comunione e confessione? Su Ernesto Cardenal e Manuel D’Escoto, ministri nel governo sandinista, papa Woytila aveva alzato l’indice del rimprovero. Hanno perso la messa per sempre. Ferdinando Cardenal, fratello di Ernesto e gesuita, a 70 anni ha riaffrontato il noviziato con l’umiltà di un seminarista adolescente. Ed è tornato a celebrare dopo la lunga punizione. Loro colpa aver accettato un ruolo politico come è successo in altre regioni, anche in Italia. Baget Bozzo ( don Gianni per i ragazzi ormai bianchi del ’68 ) era diventato parlamentare europeo nel nome di Craxi: gli hanno benevolmente imposto la proibizione del predicare in pubblico. Nel privato restava il prete di sempre. Nessuna sanzione radicale.
I delitti di Von Vernich oscurati da silenzio e complicità aprono un capitolo finora esplorato con imbarazzo: il rapporto tra cappellani militari e dittature, dall’America Centrale a Brasile, Cile, Argentina. Con quale spiritualità si sono rivolti a Dio gomito a gomito con le squadre della morte ? Fedeli ai doveri pastorali o ligi all’obbedienza dovuta che incatena ogni militare ? Fino al processo Von Wernich, ai cappellani militari di Argentina e Cile la Chiesa non ha detto niente. Si sapeva e si sa delle ambiguità a volte degenerate in collaborazione al delitto. Sembra impossibile che i vescovi cappellani militari e i vescovi amici dei vescovi militari siano stati all’oscuro. Possibile che i nunzi apostolici, ambasciatori del Papa, si siano limitati ai sussurri ? Forse i doveri diplomatici e l’amicizia personale con gli strateghi della repressione hanno annacquato nell’ipocrisia l’impegno che impone la fede. Vent’anni dopo, 1996, i vescovi argentini si fanno vivi con un’autocritica superficiale. Nel 2000 chiedono per la prima volta perdono. In Cile il silenzio continua. Alla messa della domenica nella cattedrale castrense di Santiago, vecchi e nuovi militari si accostano all’altare con la devozione di Pinochet.
La storia dei rapporti chiesa-stato ha conosciuto in Argentina momenti che oggi ( solo oggi ) imbarazzano le coscienze. Subito dopo il colpo di stato 1976, il cardinale di Buenos Aires Carlo Aramburu invita i fedeli a collaborare col governo dei generali < i cui membri appaiono assai bene ispirati >. Gran parte dei vescovi e il nunzio apostolico Pio Laghi ( cardinale romano ) assistono alla cerimonia di insediamento del generale Videla. Laghi è il solo diplomatico straniero presente. Perché ? Tre mesi dopo benedice a Tucuman le truppe scatenate nella repressione: < l’autodifesa contro chi vorrebbe far prevalere idee estranee alla nazione… impone misure determinate. In queste circostanze si potrà rispettare il diritto fin dove si potrà >. Anche Benelli, sostituto segretario di stato vaticano, si dichiara < soddisfatto per l’orientamento assunto dal nuovo governo argentino nella sua vocazione cristiana e occidentale >. Paolo VI era stanco, malato. Lo si informa in qualche modo nascondendo quasi tutto. Anche Giovanni Paolo II viene a sapere della tragedia argentina dalle Madri di piazza di Maggio. La Chiesa di Buenos Aires tranquillizzava il Vaticano ma le madri alle quali avevano rubato i ragazzi vengono a Roma sperando di informare il papa. Per sopravvivere lavorano come perpetue o inservienti in collegi religiosi e parrocchie. Ed è così che Giovanni Paolo II, e non un vescovo argentino, pronuncia per primo la parola < desaparecido >. Tardi, purtroppo: 30 mila morti.
Ieri, come oggi, in Argentina e nel continente latino ( Venezuela compreso ) si delineano Chiese che non si capiscono. Tanti preti e qualche vescovo fra le vittime. Romero e dodici religiosi in Salvador. Due vescovi e religiosi assassinati in Argentina. Il primo a morire don Carlos Mugica, fondatore del movimento dei sacerdoti terzomondismi. Poi padre Josè Tedeschi, poi l’intera comunità dei Pallottini: tre preti, due seminaristi. Il vescovo Enrique Angeletti viene ucciso al ritorno da un convegno in Ecuador organizzato dai teologi della liberazione; il vescovo Carlos Ponce muore a San Nicolas in un incidente stradale che la polizia definisce < immaginario >. Due suore francesi violentate, torturate e uccise dal guardiamarina Astiz. L’essere riconosciuto colpevole non ferma la sua carriera: l’indulto del presidente Menem gli permette la divisa immacolata di capitano di vascello. I vescovi Karlic e Novak non sopportano: precedono il mea culpa ufficiale invocando perdono per il male che la Chiesa < non ha impedito, sopportato e in qualche caso aiutato >. Il regime cade eppure certe solidarietà non svaniscono. 24 settembre 1991: il nunzio apostolico Ubaldo Calabresi organizza un ricevimento per festeggiare il dodicesimo anniversario dell’investitura di Giovanni Paolo II. Fra gli invitati i generali Videla, Viola e l’ammiraglio Massera riconosciuti colpevoli dell’uccisione di migliaia persone, ma perdonati e rimessi in libertà dalla legge che < riappacifica il paese >. L’altra Chiesa argentina guarda al futuro in modo diverso. Dopo la condanna di Von Wernich la Commissione Giustizia e Pace assistita dal vescovo Jorge Casaretto ( 71 anni, origini genovesi ) si preoccupa del dolore dei familiari ed esprime pietà per le vittime invitando la giustizia a scoprire quali complicità e quanti tradimenti siano allo radice di una tragedia impossibile da nascondere. Casaretto ha guidato la Caritas negli anni del disastro economico: metà Argentina non sapeva cosa mangiare. Ha aperto mense popolari, bussato alle porte che contano. Von Wernich appartiene all’altra Chiesa. Il suo ergastolo illumina lo scandalo dei sacerdoti che hanno trasformato la confessione in un gadget della tortura. < Era difficile >, sospirava qualche anno fa il vescovo Laguna, portavoce della conferenza episcopale, nella sua stanzetta di Morelos. < Difficile restare fedeli alla promessa e sopravvivere nella paura >. Difficile, ma non impossibile. Cambiando latitudine ecco la storia del cardinale di Praga Miloslav Vlk. Il socialismo reale avevo imposto l’ateismo trasformando la devozione religiosa in un < sentimento privato >. I preti dovevano lavorare per vivere. Per i credenti una sfida andare a messa mentre mani curiose annotavano i nomi sul registro dei sovversivi. Il giovane prete Miloslav Vlk lavava vetri agli angoli delle strade. Ogni tanto perdeva tempo a discorrere coi passanti. Lo racconta nel libro di Sara Regina ( edizione San Paolo: < Da lavavetri a cardinale > ). Chi lo avvicinava voleva confessarsi lontano dagli occhi delle polizie. Col secchio d’acqua in mano, Miloslav Vlk ascoltava e assolveva chiudendo nel cuore le loro parole. Qualcuno dovrebbe mandare il libro a Von Wernich e a chissà quanti cappellani militari dell’altra America ( ma non solo ). Magari capiranno.
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18 ottobre 2007
Eutanasia: «Al paziente anche il diritto di morire»
di Giovanni Negri
Il malato è libero di curarsi, naturalmente. Ma anche di non curarsi. Sino alle estreme conseguenze. E lo Stato non può farci niente. Quando poi il paziente non è capace di intendere e volere, in stato vegetativo da anni, l'autorità giudiziaria può autorizzare i medici a interrompere le cure. Sono queste le conclusioni della Corte di cassazione che, con una densa e fondamentale sentenza (la n. 21748 depositata il 16 ottobre), ha affrontato il caso di Eluana Englaro, una giovane donna in coma dal 1992 dopo un incidente stradale. La famiglia da anni insiste perchè venga interrotta l'alimentazione sino al sopraggiungere della morte. La Corte ieri, ribaltando il verdetto di secondo grado che aveva respinto le richieste dei familiari, ha stabilito che dovrà essere di nuovo la Corte d'appello di Milano a esaminare il caso, tenendo presenti però i principi di diritto forniti nella pronuncia. Per il padre di Eluana, Beppe, dalla Corte è arrivato «un sussulto di umanità e di libertà verso una vittima sacrificale del codice deontologico dei medici e della legge».
Naturalmente, e già alcune reazioni a una decisione destinata a fare molto discutere vanno in questo senso, si parlerà di un intervento a favore dell'eutanasia. Ma i giudici, in 60 pagine di motivazioni, hanno usato quel termine una sola volta. Per escludere che il rifiuto delle terapie mediche, anche quando conduce alla morte, possa essere scambiato per eutanasia e cioè per un comportamento che intende abbreviare la vita, provocando in maniera deliberata la morte. Un rifiuto di questo genere, invece, esprime, sottolineano i giudici, «un atteggiamento di scelta da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale».
Piergiorgio Welby non viene mai citato nella sentenza, ma lui e Eluana diventano, certo loro malgrado, simboli delle due condizioni che la Cassazione ha preso in considerazione. Il caso Welby è quello di uomo in possesso della capacità di intendere e volere che sceglie di respingere terapie che ritiene serviranno solo a prolungare l'agonia. Per queste situazioni la Corte spiega che «deve escludersi che il diritto all'autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorchè da esso consegua il sacrificio del bene della vita». I giudici precisano che la salute dell'individuo non può essere oggetto di un atto di imposizione coattiva. Certo, il medico può avviare, nel rispetto del percorso culturale del paziente, una «strategia della persuasione», in sintonia anche con il compito solidaristico dell'ordinamento giuridico. Ma se poi il rifiuto delle cure resiste ed è «informato, autentico e attuale» non può essere aggirato nel nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.
Il diritto del singolo alla salute è un diritto di libertà che comprende anche un risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, «di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire».
Il caso di Eulana Englaro però è diverso. La donna infatti è in stato vegetativo da anni, è alimentata da un sondino e idratata artificialmente. In una situazione come questa, per la quale la stessa Cassazione conclude per l'incapacità di vivere esperienze cognitive ed emotive, un ruolo di primo piano lo svolge il tutore (nel caso di Eluana è il padre). È lui che deve ricostruire la volontà del paziente, tenendo conto dei desideri espressi prima di perdere la coscienza, della sua persona-lità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei valori di riferimento e delle convinzioni etiche, religiose e culturali.
La Cassazione afferma con forza il diritto alla vita e alla continuazione delle cure per chi è in stato vegetativo permanente. Ma non ignora la realtà di chi lega la propria dignità «alla vita di esperienza e questa alla coscienza » ritenendo insensata la prosecuzione della vita priva della percezione del mondo esterno e di una sintonia tra corpo e mente. È allora che l'autorità giudiziaria può assentire all'interruzione del trattamento medico (che non è accanimento) chiesta da chi rappresenta il paziente. Una maniera per rispettare il malato all'interno di uno Stato pluralista, che è possibile a due condizioni: irreversibilità dello stato vegetativo e presenza di elementi di prova chiari e convincenti della voce del paziente e del suo modo di interpretare l'idea di dignità della persona.
18 ottobre 2007
Eutanasia: «Al paziente anche il diritto di morire»
di Giovanni Negri
Il malato è libero di curarsi, naturalmente. Ma anche di non curarsi. Sino alle estreme conseguenze. E lo Stato non può farci niente. Quando poi il paziente non è capace di intendere e volere, in stato vegetativo da anni, l'autorità giudiziaria può autorizzare i medici a interrompere le cure. Sono queste le conclusioni della Corte di cassazione che, con una densa e fondamentale sentenza (la n. 21748 depositata il 16 ottobre), ha affrontato il caso di Eluana Englaro, una giovane donna in coma dal 1992 dopo un incidente stradale. La famiglia da anni insiste perchè venga interrotta l'alimentazione sino al sopraggiungere della morte. La Corte ieri, ribaltando il verdetto di secondo grado che aveva respinto le richieste dei familiari, ha stabilito che dovrà essere di nuovo la Corte d'appello di Milano a esaminare il caso, tenendo presenti però i principi di diritto forniti nella pronuncia. Per il padre di Eluana, Beppe, dalla Corte è arrivato «un sussulto di umanità e di libertà verso una vittima sacrificale del codice deontologico dei medici e della legge».
Naturalmente, e già alcune reazioni a una decisione destinata a fare molto discutere vanno in questo senso, si parlerà di un intervento a favore dell'eutanasia. Ma i giudici, in 60 pagine di motivazioni, hanno usato quel termine una sola volta. Per escludere che il rifiuto delle terapie mediche, anche quando conduce alla morte, possa essere scambiato per eutanasia e cioè per un comportamento che intende abbreviare la vita, provocando in maniera deliberata la morte. Un rifiuto di questo genere, invece, esprime, sottolineano i giudici, «un atteggiamento di scelta da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale».
Piergiorgio Welby non viene mai citato nella sentenza, ma lui e Eluana diventano, certo loro malgrado, simboli delle due condizioni che la Cassazione ha preso in considerazione. Il caso Welby è quello di uomo in possesso della capacità di intendere e volere che sceglie di respingere terapie che ritiene serviranno solo a prolungare l'agonia. Per queste situazioni la Corte spiega che «deve escludersi che il diritto all'autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorchè da esso consegua il sacrificio del bene della vita». I giudici precisano che la salute dell'individuo non può essere oggetto di un atto di imposizione coattiva. Certo, il medico può avviare, nel rispetto del percorso culturale del paziente, una «strategia della persuasione», in sintonia anche con il compito solidaristico dell'ordinamento giuridico. Ma se poi il rifiuto delle cure resiste ed è «informato, autentico e attuale» non può essere aggirato nel nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.
Il diritto del singolo alla salute è un diritto di libertà che comprende anche un risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, «di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire».
Il caso di Eulana Englaro però è diverso. La donna infatti è in stato vegetativo da anni, è alimentata da un sondino e idratata artificialmente. In una situazione come questa, per la quale la stessa Cassazione conclude per l'incapacità di vivere esperienze cognitive ed emotive, un ruolo di primo piano lo svolge il tutore (nel caso di Eluana è il padre). È lui che deve ricostruire la volontà del paziente, tenendo conto dei desideri espressi prima di perdere la coscienza, della sua persona-lità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei valori di riferimento e delle convinzioni etiche, religiose e culturali.
La Cassazione afferma con forza il diritto alla vita e alla continuazione delle cure per chi è in stato vegetativo permanente. Ma non ignora la realtà di chi lega la propria dignità «alla vita di esperienza e questa alla coscienza » ritenendo insensata la prosecuzione della vita priva della percezione del mondo esterno e di una sintonia tra corpo e mente. È allora che l'autorità giudiziaria può assentire all'interruzione del trattamento medico (che non è accanimento) chiesta da chi rappresenta il paziente. Una maniera per rispettare il malato all'interno di uno Stato pluralista, che è possibile a due condizioni: irreversibilità dello stato vegetativo e presenza di elementi di prova chiari e convincenti della voce del paziente e del suo modo di interpretare l'idea di dignità della persona.