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domenica 21 ottobre 2007


18 ottobre 2007

 Eutanasia: «Al paziente anche il diritto di morire»

di Giovanni Negri

Il malato è libero di curarsi, naturalmente. Ma anche di non curarsi. Sino alle estreme conseguenze. E lo Stato non può farci niente. Quando poi il paziente non è capace di intendere e volere, in stato vegetativo da anni, l'autorità giudiziaria può autorizzare i medici a interrompere le cure. Sono queste le conclusioni della Corte di cassazione che, con una densa e fondamentale sentenza (la n. 21748 depositata il 16 ottobre), ha affrontato il caso di Eluana Englaro, una giovane donna in coma dal 1992 dopo un incidente stradale. La famiglia da anni insiste perchè venga interrotta l'alimentazione sino al sopraggiungere della morte. La Corte ieri, ribaltando il verdetto di secondo grado che aveva respinto le richieste dei familiari, ha stabilito che dovrà essere di nuovo la Corte d'appello di Milano a esaminare il caso, tenendo presenti però i principi di diritto forniti nella pronuncia. Per il padre di Eluana, Beppe, dalla Corte è arrivato «un sussulto di umanità e di libertà verso una vittima sacrificale del codice deontologico dei medici e della legge».



Naturalmente, e già alcune reazioni a una decisione destinata a fare molto discutere vanno in questo senso, si parlerà di un intervento a favore dell'eutanasia. Ma i giudici, in 60 pagine di motivazioni, hanno usato quel termine una sola volta. Per escludere che il rifiuto delle terapie mediche, anche quando conduce alla morte, possa essere scambiato per eutanasia e cioè per un comportamento che intende abbreviare la vita, provocando in maniera deliberata la morte. Un rifiuto di questo genere, invece, esprime, sottolineano i giudici, «un atteggiamento di scelta da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale».



Piergiorgio Welby non viene mai citato nella sentenza, ma lui e Eluana diventano, certo loro malgrado, simboli delle due condizioni che la Cassazione ha preso in considerazione. Il caso Welby è quello di uomo in possesso della capacità di intendere e volere che sceglie di respingere terapie che ritiene serviranno solo a prolungare l'agonia. Per queste situazioni la Corte spiega che «deve escludersi che il diritto all'autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorchè da esso consegua il sacrificio del bene della vita». I giudici precisano che la salute dell'individuo non può essere oggetto di un atto di imposizione coattiva. Certo, il medico può avviare, nel rispetto del percorso culturale del paziente, una «strategia della persuasione», in sintonia anche con il compito solidaristico dell'ordinamento giuridico. Ma se poi il rifiuto delle cure resiste ed è «informato, autentico e attuale» non può essere aggirato nel nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.

Il diritto del singolo alla salute è un diritto di libertà che comprende anche un risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, «di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire».



Il caso di Eulana Englaro però è diverso. La donna infatti è in stato vegetativo da anni, è alimentata da un sondino e idratata artificialmente. In una situazione come questa, per la quale la stessa Cassazione conclude per l'incapacità di vivere esperienze cognitive ed emotive, un ruolo di primo piano lo svolge il tutore (nel caso di Eluana è il padre). È lui che deve ricostruire la volontà del paziente, tenendo conto dei desideri espressi prima di perdere la coscienza, della sua persona-lità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei valori di riferimento e delle convinzioni etiche, religiose e culturali.

La Cassazione afferma con forza il diritto alla vita e alla continuazione delle cure per chi è in stato vegetativo permanente. Ma non ignora la realtà di chi lega la propria dignità «alla vita di esperienza e questa alla coscienza » ritenendo insensata la prosecuzione della vita priva della percezione del mondo esterno e di una sintonia tra corpo e mente. È allora che l'autorità giudiziaria può assentire all'interruzione del trattamento medico (che non è accanimento) chiesta da chi rappresenta il paziente. Una maniera per rispettare il malato all'interno di uno Stato pluralista, che è possibile a due condizioni: irreversibilità dello stato vegetativo e presenza di elementi di prova chiari e convincenti della voce del paziente e del suo modo di interpretare l'idea di dignità della persona.



Il testo della sentenza

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