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martedì 31 gennaio 2012

L'utopia della base

Gentile comunità dell'Isolotto,

siamo gli autori di un saggio storico che desideriamo portare alla vostra conoscenza. Il saggio, edito alla fine del 2011 dalle Edizioni Punto Rosso di Milano, è intitolato: "L'utopia della base. Un Collettivo operaio nella Toscana tra gli anni '60 e '70". Prefato da Mario Tronti, nel libro viene raccontata la storia del Collettivo operaio sorto alla fine degli anni '60 a Colle di Val d'Elsa, delle sue premesse storiche, economiche e sociali e dei contatti che questo ebbe con le altre realtà "eretiche" della Toscana, come la vostra, da noi documentata nel saggio. In particolare il legame tra il Collettivo e la vostra comunità fu tenuto da una figura che avrà un ruolo non secondario nel nostro saggio: don Auro Giubbolini, sacerdote della parrocchia di Borgatello e organizzatore di un'interessante esperienza di doposcuola.

Il libro che abbiamo scritto a tre mani rientra in un progetto di più ampio respiro che riguarda la costruzione di un archivo multimediale sulla Memoria operaia. Vi allego il link del sito: http://www.utopiadellabase.it

Il 20 febbraio prossimo faremo una presentazione presso il Consiglio Regionale toscano. Siete naturalmente invitati e se il libro ed il progetto trova vostro interesse potete pubblicizzarlo sulle pagine del vostro sito web.

Certi di un vostro interesse vi inviamo i nostri migliori saluti.

Francesco Corsi
Pietro Peli
Stefano Santini.

Abbiamo ritrovato questa memoria d'archivio che dedichiamo agli estensori dell'email e a D.Auro:


09.11.69. Il buon grano e la zizzania crescono insieme. Anche dentro di noi. BA044 (al giro 629
della prima parte della bobina che inizia questa volta con la coda rossa).
(Interventi di: Enzo Mazzi, Sergio Gomiti, d. Auro Giubbolini di Colle Val d’Elsa, Urbano Cipriani, Raffaello Corsi, altre voci non identificate)
Enzo M.: Stamattina si era detto che doveva esserci il battesimo della bambina della Fiorella, quella
signora che ci annunziò questo fatto domenica scorsa, solo che è ammalata nel frattempo e ci tiene
tanto ad esserci anche lei presente insieme a Pierluigi che è suo marito e allora ha preferito
rimandare il battesimo a quando potrà esserci e quando sarà guarita. Per la sua bimba un pochino
più grande mi ha mandato a dire questo e ci ha mandato saluti a tutti. Noi gli auguriamo buona
guarigione e una sollecita guarigione anche. [Una voce maschile fa notare a Enzo M, che invece si tratta del figlio di Maurizio e non della Fiorella]. Ah!, Sì, ho sbagliato, è il figlio di Maurizio, Maurizio, sì, la moglie di Maurizio si è ammalata e gli auguriamo pronta guarigione.
[A questo punto sono registrati solo alcuni accordi di chitarra per iniziare un canto e poi la voce del celebrante che inizia il “Confesso a Dio onnipotente”. Non è registrato il proseguo della messa fino all’intervento del celebrante dopo le letture].
d. Auro G.: Abbiamo letto la lettera di San Paolo ai colossesi, una lettera molto importante perché
quella Comunità della città di Colossi era impegnata a superare alcune difficoltà rappresentate da
idee che contrastavano col messaggio cristiano. Sembra che queste difficoltà nascessero da un
ritorno del giudaismo, del concetto giudaico del rapporto umano basato sul legalismo e non
sull’amore che Cristo era venuto a portare sulla terra. Sembrava che a questo si aggiungesse anche
un’altra forma che minava al fondamento del messaggio cristiano. Ed era il concetto del bene e del
male che non era un qualche cosa che calava nella realtà e nella storia degli uomini ma era un
qualche cosa che dall’esterno veniva imposto agli uomini. L’angelo e il demonio erano le due realtà
di bene e di male esistenti nel mondo. E allora in questo contesto di errori Paolo vuole riportare la
figura di Cristo al suo centro, nel suo vero regno che è la realtà dell’uomo che vive la sua vita. E la
vive in mezzo al bene e in mezzo al male, la vive la lotta del bene e del male, che è una lotta degli
individui, della società, del mondo, dell’uomo, per realizzare quell’avvento del regno che Cristo ha
profetizzato con la sua presenza nel mondo. Quindi è interessante, importante questo. Forse
importante sarebbe leggerla più a lungo non solo in questo pezzo che forse non ci dà questa idea
centrale che ha voluto San Paolo portare alla Chiesa che era nella città di Colossi. Ma certo che
accoppiato soprattutto alla parola di Matteo della zizzania – avete sentito – può essere base di
meditazione del nostro incontro comunitario di questa mattina, della nostra celebrazione eucaristica.
In che cosa consiste per noi il bene e il male? Cioè che cosa vuole Cristo rappresentare in un mondo
e nel mondo degli uomini in cui insieme alla bontà, insieme all’amore, insieme all’attenzione alle
cose e agli altri c’è l’egoismo, c’è la disuguaglianza, c’è la sofferenza? Che cosa vuole
rappresentare il messaggio di Cristo, immesso nei nostri cuori e nella nostra vita, in un mondo dove
il bene e il mal non lo vediamo derivare da fattori extra terreni ma da fattori terreni? Cosa possiamo
rappresentare noi di fronte a questa realtà? Falciamo la zizzania, dicono i servi al padrone. Lasciate
che la storia gli uomini la costruiscano e la costruiscano in questa realtà qui che vivono, perché è da
questa realtà che supereranno anche il loro male, perché in tutti noi il seme del male esiste, quale
(che) sia. Io tento di scoprire il mio; con la mia gente tento di scoprire il nostro; nella realtà che
viviamo tentiamo di scoprire e in questo facciamo la storia delle nostre Comunità, della nostra
Chiesa. Quello che sarà per voi la zizzania della Chiesa fiorentina io non lo so. Questa è una
riflessione che potete fare voi approfondendo questa parte del Vangelo. Forse nelle chiese oggi – il
Vangelo si presta – si ricorderà forse la vostra Comunità come elemento di zizzania nella Chiesa
fiorentina. Non lo so, può darsi. Pensano così. Credo che ci sarà chi lo pensa e chi lo dice così,
magari anche da un altare. Io dico che la cosa non è così facile, perlomeno la cosa non è così facile
stabilire chi è zizzania, chi è grano buono e credo che non sia la divisione verticale, sia orizzontale,
cioè un po’ di male c’è in tutti come un po’ di bene forse ci sarà in tutti. Lo stare insieme, il capirci,
il dialogare è un modo di andare avanti e di capire forse. Fino a che stiamo lontani, fino a che
sentiamo di dare dei giudizi non realizziamo la storia nuova del cristianesimo, quella parola di
amore che ci ha detto Paolo come risoluzione al problema della divisione del bene e del male, Paolo
che ha portato centralità di Cristo nella mia storia: cioè portare questa volontà di rinnovamento, di
conversione, di cambiamento interiore e sociale nella vita dell’individuo e della storia, portare
questa parola nuova che è l’amore, conservare, come dice Paolo, la parola di Dio. Questi sono
elementi positivi che noi possiamo mettere insieme per capirci qualche cosa, per vedere se non
altro, individuare se non altro alcuni aspetti della zizzania che può essere e nella Chiesa di Dio e nel
mondo e nella realtà del mondo. E’ certo che nel vostro cammino, da quanto ho potuto seguire io,
alcuni aspetti della zizzania nel mondo come ingiustizia, come alcune realtà disumane esistenti le
avete presenti nella vostra storia di Comunità dell’Isolotto. Forse ancora del cammino ne farete per
individuare ancora, sia socialmente e sia individualmente, alcuni elementi di divisione nel mondo
degli uomini e questo apporto che voi recate all’umanità sia un apporto veramente di persone vive
come lo siete oggi e come spero rimaniate nella storia futura perché il mondo ha bisogno della
vostra presenza. Come forse ha bisogno degli altri. Una ragione ci sarà. Il Vangelo ci ha detto che
deve e zizzania e grano buono andare avanti insieme, il male e il bene camminare insieme. Una
ragione misterica ci sarà. E’ certo che arriverà il regno e arriverà l’amore. La vostra strada che avete
scelto, la mia strada che ho scelto, la strada di tanti altri forse tenderà a questo recupero dell’amore
nel mondo. Speriamo. E’ certo che la presentazione che la lettera di Paolo e la lettura di Matteo ci
ha presentato non deve, non può finire qui: discorso molto lungo e molto vasto, un discorso che non
posso proporlo io perché è il discorso della vostra Comunità. Il discorso del bene e del male deve
essere visto dove si opera e voi operate in Firenze, nella Chiesa che è in Firenze. Io non sono in
Firenze. Qualche cosa di più potrei dire alla mia gente. A voi non posso altro che prospettarvi il
problema, ricordare la parola di Cristo e augurarvi che le vostre riflessioni e il vostro cammino
continuino sempre per il bene vostro e della Chiesa e anche dell’umanità. Se qualcuno vuole
aggiungere qualche cosa…
Enzo M.: Anzitutto volevo dire che il discorso che ci ha fatto questo sacerdote è un discorso che noi
sentiamo profondamente perché è da tanto tempo che diciamo che noi consideriamo la Chiesa la
Comunità di coloro che si accolgono nonostante tutti i limiti che possiamo avere. Tante volte
abbiamo detto anche questo: che noi non accetteremmo volentieri, non vorremmo un
provvedimento autoritario nemmeno nei confronti di Florit perché tutto ciò che nella Chiesa vi è di
autoritarismo, di oppressione verso chiunque noi lo rifiutiamo proprio in nome di quell’amore, di
quel dialogo, di quell’essere un po’ tutti zizzania e un po’ tutti buon grano di cui ci ha parlato
questo parroco. E quindi ci dà un po’ di fiducia, un po’ di speranza la notizia che è apparsa su un
giornale di ieri, quella del cardinale Florit che ha risposto di no al papa il quale lo voleva mandare a
Venezia. Ci dà una certa fiducia perché anzitutto dimostra che siamo tutti un po’ buon grano e tutti
un po’ zizzania allo stesso modo e quindi è illogico, è ridicolo colpire una Comunità, colpire delle
persone perché hanno della zizzania perché c’è in tutti. Quindi non si deve giudicare l’un l’altro.
Bisogna aiutarsi a trasformarci costantemente in buon grano. Ci dà fiducia questa notizia perché
vogliamo sperare che il cardinale Florit capisca, capisca pagando di persona, trovandosi in fondo
nella nostra stessa situazione, perché capisca e perché arrivi anche lui a cercare una unione nel
dialogo, non nel prepotere, una unione nell’amore, nella fraternità, non nell’autoritarismo, una
unione nella solidarietà con coloro che soffrono e non nel Diritto che il più potente impone verso i
più deboli. Noi abbiamo fiducia. La nostra fiducia non deve venire mai meno ed effettivamente non
viene mai meno. Inoltre vorrei anche dirvi che insieme ad alcuni della comunità, come vi avvisai
domenica scorsa, d’accordo con voi perché ne abbiamo parlato in una assemblea precedente, siamo
stati ad incontrare alcune Comunità in Germania e in Svizzera, e in particolare in Svizzera, gli
emigrati. Una relazione di quello che abbiamo fatto, degli incontri che abbiamo avuto ve la daremo
mercoledì prossimo. Già fino da ora io posso portarvi la simpatia, la solidarietà, l’attenzione e la
ricerca che c’è anche, lo sapevamo di già ma si è toccato con mano, che c’è anche in regioni così
lontane da noi. Ci sono comunità, si cono persone, ci sono laici, sacerdoti che cercano con passione,
con amore, a volte pagando di persona anche loro, cercano questa nuova strada dell’unità, questa
nuova strada della fraternità, questa nuova strada della pace. La cercano con entusiasmo e dobbiamo
dire che questi incontri che abbiamo fatto sono incontri che servono molto, servono a noi perché ci
fanno capire che questo cerchio che noi componiamo intorno a questo altare non è un cerchio
chiuso, ristretto ma è un cerchio aperto che comprende uomini e Comunità di tutto il mondo, che
sono presenti qui anche se non fisicamente sono presenti con tutto il loro essere, con tutta la loro
tensione, la loro ricerca, la loro fede, ci fa capire che la nostra Comunità non è una setta religiosa
ma una Comunità che comprende tanti uomini ormai in tutto il mondo e serve a loro per lo stesso
motivo, perché spesso queste Comunità, questi gruppi, queste persone, questi emigrati hanno
l’impressione di sentirsi soli, hanno l’impressione di essere abbandonati da tutti, hanno
l’impressione di non avere sbocchi e invece questa comunione, questi incontri servono ad aprire
l’animo, il cuore a tutti e a rendere più efficace a rendere più pieno, più comunitario il cammino
della fede. Comunque un resoconto, come ho detto, lo daremo mercoledì prossimo all’assemblea
che faremo alle Baracche come sempre. E un’ultima cosa: dobbiamo di nuovo ringraziare il Signore
per questo sole che ci dà che è qualcosa di misterioso che non sappiamo veramente spiegare. A
Ravensburg, in Germania, quest’anno, a memoria di uomo, sono fiorite le rose di novembre.
Sergio G.: Io vi voglio leggere due lettere che ci sono arrivate molto importanti proprio per
verificare quello che Enzo diceva, di quante persone nel mondo tendono verso questa strada. Questa
lettera è della parrocchia di Cristo Giovane, Largo de Lapas, San Paolo del Brasile. E’ una
parrocchia che ci scrive e dice:
“Caro don Enzo e Comunità dell’Isolotto. La nostra Comunità vuole inviare la propria solidarietà ai
nostri fratelli per l’amore e la lotta sostenuta in ogni momento contro lo strutturalismo e il legalismo
della Chiesa istituzionalizzata allo scopo di restare fermi e fedeli al Vangelo, dentro il dialogo che
lo Spirito del Vangelo ispirò al Concilio Vaticano secondo. Un giorno sarà riconosciuto il vostro
sforzo e il vostro lavoro che noi non dubitiamo affatto sia stato diretto dall’amore per gli uomini e
dal servizio al Popolo di Dio. Noi seguiamo con molta attenzione gli avvenimenti qui in Brasile,
consapevoli che questo sia l’unico mezzo di vivere l’incarnazione nel mondo in cui viviamo. Vi
inviamo le nostre preghiere. Preghiamo Dio che vi mantenga fermi nella lotta in questa prova fino
al punto di uscire dal deserto per arrivare a vivere nella speranza del trionfo della fede che ci
stimola. Ricevete le nostre preghiere di solidarietà. Vostro fratello nella fede don Pedro Vareze,
parroco della parrocchia di Cristo Giovane di San Paolo”.
Questa è invece la lettera di un sacerdote che è prete da poco tempo e ce l’ha scritta prima di essere
ordinato prete:
“Carissimi. Questa lettera avrei dovuto scrivervela diversi giorni fa ma solo oggi mi sono deciso.
Dopodomani sarò ordinato prete dal mio Vescovo. Mi giungono diverse lettere di amici veri e di
amici falsi in cui leggo continuamente auguri e felicitazioni per il coraggio e la testimonianza che
do per il fatto stesso che mi fo prete. E’ tanto il coraggio che non ne ho avuto neanche un pizzico
per scrivervi come ho fatto con tutti gli amici. Vi scrivo ora quasi di nascosto come Nicodemo
quando va a trovare Gesù di notte. Non me ne vogliate e prendetemi così come sono, con la
vigliaccheria che ho dentro di me, incapace ancora di fare precise scelte. Voi avete molti amici che
si dichiarano tali in pubblico senza paura. Io sono vostro amico soltanto dentro di me, non sono
ancora capace di essere libero e di agire come sento. Forse lo Spirito di Dio un giorno o l’altro me
lo concederà. Ancora gli resisto troppo. Dopo la famosa messa di Florit all’Isolotto io ho perduto la
speranza per la pace religiosa della Chiesa fiorentina. Non so a che punto siate adesso voi.
Comunque sia dopodomani anch’io sarò prete. Non ho fatto il passo a occhi chiusi: ormai ho una
certa età e capisco cosa significa farsi prete oggi. Mi manca solo il coraggio che deriva dalla fede e
certo non è poco, comunque aspetto di avere un popolo con cui lavorare e spero di non fallire. Spero di non parlare di un Dio mistificato e falso, fatto su misura per i borghesi. Durante questo mese forse verrò a Firenze e parleremo meglio di queste cose. Intanto vi saluto con i vostri preti Enzo, Sergio e Paolo. Don David”. Ha detto messa pochi giorni fa.
d. Auro G.: Prima di continuare è giusto che dica chi è in comunione con voi questa mattina ed è
qui in mezzo a voi. Sono don Auro, mi chiamo don Auro, don perché è l’usanza da mettere davanti
al prete, al nome del prete. Sono parroco di un chiesetta di campagna alla periferia di Colle,
parrocchietta di poche anime ma interessante come ambiente perché è un ambiente completamente
in trasformazione che è base colonica ma con la vicinanza delle industrie e quindi la unione
economica tra il campo e l’industria ha creato problemi completamente nuovi che è inutile che io
stia qui ad indicarli a voi perché ne avete tutti tanti altri molto più grossi forse di quelli che ci sono
là. Ma in ogni modo, dato che è una società in evoluzione, quindi è interessante starci nel mezzo
come io ci sto, come Auro. Il resto, quello che mi chiedono penso di farlo. Poi ho un doposcuola,
ragazzi che sentono questo mutamento, il cambiamento sociale che vivono nella parrocchia, nella
zona per cui si tenta, nel doposcuola, di crearlo, di orientarlo veramente verso una risposta da dare a
ragazzi di quella specifica società. Non so se avete desiderio di qualche altra notizia…e, se c’è
qualcuno che vuole parlare sia su quello che abbiamo detto in precedenza sia chiedere qualcosa a
me, io sono qua. Ho quarantasei anni fra poco [Applausi]. Che all’Isolotto non parli nessuno, altro che i preti? Non ci credo. Allora i giornali inventano tutto? Allora vi ho addormentato io!
Urbano C.: Io, assieme a Osvaldo, Sergio e Mauro ho parlato fino all’una e mezza di stanotte.
Siamo andati lì in provincia di Lucca e si è avuto un incontro con della gente che è dalla nostra,
qualcheduno con perplessità ma istintivamente. Io sono stato con un gruppo dell’Isolotto da don
Auro dalla sua Comunità vicino a Colle Val D’Elsa e si fece una bella chiacchierata. Fra l’altro io ci
incontrai lì un prete che mi aveva fatto scuola in prima media a cui io volevo tanto bene, di quei
preti simpatici, bravi e si fece una solenne litigata proprio da amici sull’Isolotto e lì venne fuori…
No, non eri te. Io incontrai lì da don Auro quest’altro sacerdote, mio amico, proprio di quei preti che
si fanno voler bene dai bambini, però che quando i bambini diventano ragazzi e giovanotti li
perdono, perché non basta il pallone, non basta la maglietta della Fiorentina, eccetera, non bastano
neppure le olimpiadi e neppure dire ai ragazzi grandi andiamo a fare la San Vincenzo e andiamo a
fare l’elemosina ai poveri. Non basta neppure quello se non c’è accanto un discorso di giustizia. In
parole povere questo prete, che vi dico bravo, onestissimo, in buona fede, di quelli che sono tutto
cuore, pensa ancora, come pensano i preti di Firenze, che gli invalidi si aiutano portandoli a
Lourdes, mandandogli su in cima all’ascensore, però non si aiutano andando un bel giorno per le vie
di Firenze, mentre loro fanno la manifestazione, tutti, unitaria, tutti per avere l’applicazione di una
legge, 382 cosa fosse. Cioè ci sono questi preti che sono ancora così ingenui, così alienati col
lavaggio del cervello che hanno avuto che non si rendono conto di questo. Chi c’era con quegli
invalidi quella mattina? C’era don Borghi, mi pare don Fanfani, un prete che veniva dalle missioni
mi pare delle Filippine, e c’era don Mazzi. Non c’era mica Florit. Non c’era mica monsignor
Panerai, non c’era mica don Pietro, non c’era mica don Gabriele, non c’era mica il diacono. Capito?
Magari non c’erano neanche tanti di noi però noi ci siamo sempre. Ci siamo in altre occasioni, se
non ci siamo stati ci andremo. Questo è il discorso. Ecco e stamani da don Auro imparo di nuovo
questo discorso. Io aspetto e voglio che lui glielo dica a questo prete a cui io voglio tanto bene che
venga a dir messa. Per lui sarebbe come morire, pensare che ha fallito tutta la vita e poi però, dopo
una settimana, rivedrebbe tornare i giovani, quelli che non ci sono più, quelli che gli han voluto
bene da ragazzi, eccetera. Bisogna mettere insieme la carità e la giustizia. Bisogna dire la messa in
quel poggetto dove don Auro la dice e dirla anche su questa piazza perché, senza tante chiacchiere,
lui si sottopone alla stessa oppressione a cui siamo sottoposti noi e soprattutto i poveri del mondo,
perché lui si sottomette al pericolo di essere sospeso a divinis, d’essere dichiarato un sacerdote
contestatore. A quarantasei anni gli diranno che ti sei messo a fare il birichino ma ingrullisci
invecchiando. Nell’ambiente di preti, un uomo che fa come lui a quarantasei anni è una cosa che
bisognerebbe farla noi. D’altronde noi abbiamo queste donne anziane che sono le più feroci
paladine dell’Isolotto e sono quelle che, con la sola presenza e senza parlare, sono quelle che stanno
facendo la rivoluzione all’Isolotto. Io, e finisco, ho letto in un libro scientifico, un discorso
sull’Isolotto fatto da un ragazzo in gamba, marxista, che conosce le cose dal profondo, eccetera,
insomma stringi, stringi di quel libro che cosa dice? La cosa che più mi ha colpito andando
all’Isolotto è stata le persone anziane, quelle vecchie per intendersi e la cosa che più dà noia,
evidentemente, a chi l’Isolotto lo vorrebbe soffocare, è la presenza di quella signora lì, che sta lì
tremolando. Voglio dire, don Auro, anche se non ti parlano, hanno dentro un cuore che basta la
presenza. Queste donne qui così anziane – ora lo dedico a voi perché tanto ho un debole, pazienza!
– con questa sola presenza loro hanno la soddisfazione, dopo una vita di lotte, di sacrifici, forse di
stenti, perché che cos’è una donna che tira al mondo dei figlioli lo sanno solo loro, la soddisfazione
con la sola presenza di fare più canaio, di obbligare la gente a convertirsi molto più di io che sto qui
e faccio il parolaio, proprio stando lì e magari battendo le mani come han fatto prima. Loro aiutano
molto di più quei i bambini di Grottaferrata, quelli dei Celestini, i nostri ragazzi che vanno alla
comunione, aiutano molto di più loro che non io e forse che noi tutti giovani messi insieme. Io
forse sono andato fuori del discorso ma sono sempre dentro al circolo e allora viva le vecchie
dell’Isolotto! [Applausi].
Enzo M.:Non ce ne sono vecchi all’Isolotto, siamo tutti giovani. Anche se ci s’ha parecchi anni ma
lo spirito è giovane e quindi siamo giovani.
Raffaello C.: Scusate, volevo fare una riflessione su San Francesco. L’avevo scritta ma l’ho lasciata
a casa La improvviso così. Da un fatto: San Francesco volle, lasciò detto di voler essere sepolto ad
carnarium. Non so se sapete, cioè fra i giustiziati. Volle essere sepolto nudo e così per essere più
vicino agli ultimi, proprio agli ultimi, agli esclusi, volle essere vicino a questi ultimi seppellito
nudo. E allora io vorrei invitare alla riflessione alla diversità di questo esemplare di quello che è
veramente lo spirito di Cristianesimo, dell’umiltà, della rinuncia ai beni terreni con la diversità di
questo esempio con quello che succede oggi nella Chiesa tradizionale. Con questo atto Francesco
volle anche condannare la società del godimento dei beni terreni e allora vorrei invitare a questa
riflessione: vedere la differenza fra questo che poi è stato fatto santo, fra questo esemplare del
cristianesimo puro a quello che fanno oggi i principi della Chiesa, a come si comportano oggi i
principi della Chiesa, peni di ricchezze, non solo, ma non vogliono addirittura lasciare queste
ricchezze, non solo, ma sono attaccati al potere della ricchezza.
Enzo M.: Il signor Lunghi, Lunghi che è dell’Associazione genitori chiedeva di poter dare un
avviso. Credo che siamo d’accordo.
Lunghi: Soltanto poche parole. Martedì prossimo, alle dieci andiamo in delegazione a parlare con la
Preside della scuola media Barsanti. Avremmo bisogno di essere in diversi. Ora siamo soltanto sei
persone. Avremmo bisogno di essere quindici, venti. Quindi chi è disponibile martedì mattina e ha i
ragazzi alla scuola media Barsanti può venire da me o da Franco o da Sbordoni o da qualcuno di
noi. Martedì mattina alle dieci ci troviamo direttamente alla scuola. Chi può venire lo fa per sé e per
noi tutti. Abbiamo bisogno di tutti. Martedì mattina alle dieci davanti alla scuola Barsanti. Caso mai
per accordi può venire a parlare con me o con Franco Quercioli o con Mauro Sbordoni. Va bene?
Enzo M.: Buon appetito!
[Termina la registrazione e l’assemblea del 9 novembre ’69 al giro 966 della prima parte della bobina. Il resto della bobina nella prima parte ha tracce di musica e canzoni ma si ritiene praticamente vuota. Si passa alla seconda parte che inizia con l’assemblea del 12.11.69]


Scheda del libro:
Un collettivo operaio della Toscana degli anni ‘60 e ‘70 e l’utopia della base [31/01/2012]

Francesco Corsi, Pietro Peli e Stefano Santini
La nostra analisi trova il suo culmine tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, quando più conflittuale fu la dialettica tra le componenti che si muovevano all’interno del movimento operaio locale e più evidente la carica delle contraddizioni destinate a deflagrare sulla scena politica. In effetti, questo nostro lavoro vuol essere il racconto di una rottura politica, nata e sviluppatasi in un ambito ben preciso: quello del Partito comunista e della Camera del Lavoro di Colle Val d’Elsa. E’ in questo contesto che si andarono gettando le basi per la formazione di un nucleo di militanti, prima informale poi sempre più strutturato, che avrebbe dato vita alla singolare esperienza del Collettivo operaio, gruppo a vocazione pre-partitica e di base, animato da operai, intellettuali e studenti.

La storia del Collettivo operaio - Proprio le vicende del Collettivo operaio rappresentano la pietra angolare della nostra ricerca. Questa esperienza fu, principalmente, il risultato dell’incontro di tre diversi elementi: un radicale rinnovamento all’interno della Camera del Lavoro con l’emergere di una diversa concezione del sindacato e della lotta di fabbrica; la presenza all’interno del Pci di una componente critica, seppure minoritaria e non strutturata, che si interrogava da tempo sulla natura dello stalinismo e sull’inadeguatezza del centralismo democratico; infine, l’influenza culturale e politica delle istanze del ’68 studentesco e del ’69 operaio. L’acuirsi della tensione politica tra Pci e Camera del Lavoro, la cui impronta politica si era radicalizzata, portò inevitabilmente a uno scontro frontale tra le due realtà. A questo contribuirono anche significative sollecitazioni esterne come le vicende del Maggio francese, la nascita di nuove formazioni alla sinistra del Pci e, soprattutto, la radiazione del gruppo del Manifesto. Si posero così le condizioni per una cesura di carattere non solo politico, ma anche generazionale, che si concretizzò nel 1970 con la radiazione dal Pci locale di 5 membri del Collettivo, le dimissioni di altri 17 militanti e con la riconquista della Camera del Lavoro da parte della corrente legata al Pci. La rottura determinò la trasformazione del Collettivo da movimento di base della sinistra operaia a organizzazione autonoma, fino alla sua confluenza, nel 1975, nel Pdup per il Comunismo. Gli effetti di questo scontro si ripercossero nell’immediato (tanto nei partiti quanto nelle fabbriche e nel sindacato) e si sarebbero perpetuati, nel corso degli anni, nell’immaginario collettivo e politico del sistema locale.

La Val d’Elsa - Il nostro progetto, tuttavia, non si presenta semplicemente come una ricerca di storia locale. Gli avvenimenti e le dinamiche sociali e politiche che si sono sviluppate a Colle Val d’Elsa in quegli anni possono rappresentare un microcosmo significativo utile per un’analisi più ampia. Lo studio di questo periodo storico in un ambito territoriale ristretto ci permette di osservare, da ottiche diverse, fenomeni che troppo spesso sono diventati emblematici unicamente in ambito metropolitano. Del resto quella colligiana non è semplicemente una realtà di provincia; essa presenta una sua originalità fin dall’età medievale per la vivacità economica e sociale dovuta, in modo particolare, alla forza idraulica che ha alimentato le sue manifatture e attività produttive: un contesto proto-industriale che si è evoluto nel tempo, mantenendo, anche nel ‘900, un significativo rilievo in particolare nel settore del vetro, che contribuì a far emergere dal punto di vista sindacale alcune figure che superavano l’ambito locale, come nel caso del segretario nazionale del Sindacato Vetro, Orazio Marchi. Questa vivacità economica e sociale ha sviluppato una tradizione culturale che si è espressa in vari campi, dalla presenza, a partire dal XIX secolo, di riviste e quotidiani che hanno ricoperto un ruolo spesso determinante all’interno del dibattito politico toscano (e talvolta nazionale), come “La Martinella”, “L’Elsa”, “La Giustizia sociale”, fino al “Selvaggio”, con importanti riflessi nell’ambito della cultura, come nel caso di Romano Bilenchi. Colle Val d’Elsa si inserisce pienamente in quelle aree di subcultura rossa (o di terza Italia) che è stata ampiamente analizzata in numerosi contributi storiografici e sociologici. Mancava tuttavia un’analisi che mettesse a fuoco i rilevanti, e poco conosciuti, spazi di eresia politica sorti all’interno di una salda egemonia riformista.

Gli anni ’60 e ’70 - La nostra ricerca si è concentrata soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, finendo per coincidere con la periodizzazione, ormai classica, del lungo Sessantotto italiano. Rimane aperto, a questo riguardo, un interrogativo: se la vicenda del Collettivo operaio sia completamente ascrivibile alla categoria dei movimenti sessantottini. Senza dubbio il Collettivo può considerarsi, a livello locale, l’espressione più fedele delle istanze della contestazione, dal momento che ha coperto lo spazio politico dei gruppi extraparlamentari e ha attratto a sé gran parte del movimento studentesco. Tuttavia possiamo scorgerne alcuni presupposti sia nella trasformazione del sindacato sia nella dialettica politica all’interno del Pci, a partire dalla crisi del 1956: tematiche politiche che travalicano lo spirito politico del Sessantotto; questo, semmai, ha agito da detonatore per determinare la rottura degli equilibri da un punto di vista politico, sindacale e culturale.

L’importanza della memoria - Il nostro lavoro verte in gran parte sull’analisi di fonti primarie: documenti, circolari, volantini, manifesti e materiali conservati in fondi pubblici e privati; una mole documentaria che, assieme alle cronache riportate sulla stampa del periodo, ha permesso la definizione delle linee portanti e dei contorni della storia che abbiamo provato a raccontare. Tuttavia non ci sarebbe stato possibile completare il quadro senza fare ricorso ad altri tipi di contributi come le testimonianze orali e la memorialistica inedita. Delle prime sono stati già ampiamente ricordati, in sede di ricerca storiografica, pregi e limiti; ci è sufficiente, in questa sede, evidenziare quanto il contributo del ricordo e della rievocazione testimoniale sia stato utile per colmare i vuoti lasciati dalla carenza (quando non dall’assenza) di documentazione ufficiale e, d’altro canto, anche per restituire importanza al lato prettamente umano ed emotivo di quell’esperienza. Diverso, e più complesso, il discorso sull’utilizzo della memorialistica inedita. Da questo punto di vista, due sono state le assi portanti di questo lavoro: la memoria “Il 68 a Colle” scritta da Enzo Sammicheli e il diario di Silvano Tanzini.

Enzo Sammicheli - La memoria di Sammicheli - segretario della Camera del Lavoro colligiana dal 1953 al 1967 e poi sindaco fino al 1980 - ha ricoperto un’importanza significativa per il nostro lavoro perché si è trattato del primo tentativo di fornire una rielaborazione organica degli eventi intorno agli anni della contestazione in ambito locale; ricostruzione tanto più interessante in quanto proveniente da una voce contrapposta a quella del Collettivo operaio.

Silvano Tanzini - Il diario di Tanzini ha assunto invece un ruolo del tutto particolare nell’economia della nostra ricerca. Silvano Tanzini è stato una figura di primaria importanza nell’ambito delle vicende legate al Collettivo e alla rottura all’interno del movimento operaio colligiano1. Il suo diario, che copre un arco di 45 anni, si presenta come un’opera insolitamente ricca dal punto di vista della riflessione politica, culturale ed esistenziale. La traccia lasciata dai ricordi di Tanzini si è trasformata spesso nel filo conduttore delle vicende più importanti che abbiamo raccontato ne “L’utopia della base”. Ma, al di là di questo, Silvano Tanzini ha avuto un altro grande merito: egli è stato il primo a dedicarsi alla ricerca in relazione alla storia del movimento operaio colligiano degli anni Sessanta e Settanta. Molto del materiale da lui raccolto è lo stesso che noi abbiamo utilizzato per portare avanti la stesura del libro e il compimento di questo progetto. E’ anche grazie al suo lavoro se “L’utopia della base” ha potuto essere scritto e pubblicato.


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