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venerdì 20 giugno 2008

Cristianesimo ribelle

NOVITÀ



Copertina


Mazzi Enzo

Cristianesimo ribelle





2008 pp.192 20,00 €









Il cristianesimo è geneticamente ribelle verso tutte le forme di alienazione e in particolare nei confronti del dominio del sacro. Dall’età di Costantino c’è stata una modificazione genetica nell’assetto istituzionale ecclesiastico. Ma una linea di fedeltà al carattere ribelle del primo cristianesimo è stata mantenuta, pur con fatica e contraddizioni fino ad oggi da movimenti, correnti di pensiero critico e comunità di base. Attingendo alla propria esperienza elaborata e vissuta all’interno di una rete di relazioni comunitarie aperte, specialmente a partire dall’anima profonda del sessantotto, l’autore analizza il processo storico di liberazione dal dominio del sacro e, con molti interrogativi irrisolti, vede l’esistenza personale e della storia come tracciato non sempre lineare ma dotato di senso, passo dopo passo: dalla schiavitù al riscatto, dalla oppressione alla liberazione, dalla alienazione alla responsabilità, dalla sacralità come dominio esterno alla sacralità intrinseca al tutto, dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza, all’accettazione fondamentalmente gioiosa del “nulla creativo” che ci avvolge.


Introduzione



La gestazione planetaria della speranza



Le riflessioni contenute in questo libro sono dovute a una ricca socializzazione comunitaria e hanno la loro radice nell’anima profonda del ’68, che a mio parere è tuttora vitale e generativa. Sono molti i ’68. È gravemente scorretto e rozzamente superficiale ridurre, come fa molta parte della cultura storiografica dominante, un imponente processo storico di trasformazione globale della società alla rivolta studentesca, considerata una folata velleitaria, contraddittoria e violenta, un conato o al massimo un sogno giovanile, senza passato e senza futuro. C’è ovviamente il ’68 degli studenti. Ma c’è anche il ’68 del movimento operaio, che inizia in quell’anno con lotte significative per esplodere l’anno successivo, e c’è il ’68 della psichiatria e della medicina alternativa, della magistratura, del mondo della scuola, del movimento femminista, del movimento conciliare nella Chiesa, perfino di un certo fermento democratico dentro la polizia. Tant’è vero che quando si tirano le somme della repressione giudiziaria del movimento complessivo del ’68-’69, si trovano accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc. (cfr. 14.000 denunce, chi, dove, come, quando, perché, a cura di L. Borgomeo e A. Forbice, ed. Stasind, Roma 1970). La domanda che sorge è la seguente: c’è qualcosa che accomuna i molti ’68, un ethos, una spinta profonda, un orizzonte di senso?

Nel ’68, ho fatto anch’io molte scoperte, sostenuto dalle relazioni comunitarie (cito da: Comunità dell’Isolotto, Il mio ’68, Centrolibro, Firenze 2000); ma una mi sembra che possa in qualche modo racchiudere tutte le altre: la gestazione planetaria della speranza. La speranza è perennemente in gestazione, ma la sua manifestazione nella storia è apparsa finora in forma episodica e settoriale. Nel ’68 invece ci siamo trovati davanti a un fenomeno planetario e globale, una specie di eruzione vulcanica che esplodeva da una miriade di camini in ogni angolo del pianeta, coinvolgeva tutti i settori della società e portava in superficie dall’anima profonda dell’umanità un magma incandescente ricchissimo di elementi creativi, capace di produrre un balzo in avanti della evoluzione culturale della specie. Si tratta di un punto di vista relativo. Non pretendo di assolutizzarlo. Ho detto e sono convinto che il ’68 è molti sessantotto. Non intendo contraddirmi.

C’è chi non vede affatto questo balzo in avanti. Magari perché non crede che la storia abbia una dimensione evolutiva dotata di senso. Io invece il balzo l’ho visto e lo vedo operante tutt’ora, nonostante la restaurazione. Questo non significa che non mi ponga interrogativi. Potrebbe essere il ’68 non un salto evolutivo ma una ennesima ripetizione, un ritorno ciclico della dialettica fra dominio e liberazione, fra paura e speranza, fra potere e amore? Non si può negare che in quell’anno fatale sia emerso il paradigma di sempre, che ha attraversato i millenni: il confronto insanabile fra la liberazione perennemente in divenire dell’amore universale, amore per la vita nella sua dimensione essenziale di finitezza, amore per tutti i viventi nella loro fragilità esistenziale, e il dominio della paura, della violenza, del patto con la morte. Tutto qui? Ma questo sarebbe il trionfo dell’inevitabile, del così è e così sia per tutti i secoli dei secoli, che è l’opposto della speranza. Niente di nuovo sotto il sole? E la nuova lingua universale e unificante della speranza che vedevamo sbocciare in ogni angolo del mondo poteva non essere affatto un balzo in avanti dell’evoluzione umana ma piuttosto un passo di danza in un girotondo senza fine? E l’avanzamento della liberazione dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza e il bisogno di felicità non illusoria che s’intravvedeva al fondo degli obiettivi di lotta sarebbe stato un sogno senza storia e senza futuro? E pura ripetizione di una genesi storica altalenante sarebbe stato quella specie di parto a cui partecipavo, quel passaggio generativo dal “seno materno” costituito da istituzioni, ideologie, confini, patrie, chiese, abitudini, a un mondo nuovo senza contorni, magmatico, appena intravisto da occhi incerti ancora incapaci di distinguere il vuoto dal pieno?

Domande inquietanti e pungenti che restarono sospese nel pieno di quell’anno cruciale e che restano sospese tutt’ora dopo quarant’anni. Quando dico che vedo il ’68 come un balzo evolutivo della specie non dico che ho risolto quegli interrogativi ma solo che li sto elaborando all’interno di reti di relazioni intense. E lo faccio non teoricamente, quanto piuttosto analizzando fatti concreti di vita.

Le esperienze di cambiamento dal basso, che da anni stavamo portando avanti nel nostro piccolo spazio vitale, le scoprivamo condivise inconsapevolmente da realtà sociali diffuse in tutto il mondo. Nei mesi a cavallo fra il ’68 e il ’69 la vicenda vissuta dalla Comunità dell’Isolotto ebbe risonanza mondiale. La piazza dell’Isolotto divenne un crocevia internazionale. Potemmo comunicare col mondo. Ed avemmo la consapevolezza che a livello universale stava nascendo una società basata su valori nuovi e al tempo stesso antichi: pace, solidarietà, primato della coscienza, dissenso creativo, diritti umani e sociali come diritti di tutti e di ognuno/a, centralità delle relazioni: “il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, comunitarietà oltre i confini. L’utopia che da sempre aveva animato i sogni di “uomini e donne di buona volontà” si stava rivelando ormai come la più autentica razionalità e si incarnava in mille e mille percorsi di ricerca positiva diffusi in tutti gli angoli della terra. Finora era sembrato che fosse la paura a tenere unito il mondo sotto la cupola di fuoco della bomba. Ora invece vedevamo che la grande forza unificante a livello finalmente planetario era la speranza. Si rivelò per noi come l’ecografia di una gestazione.

E vennero le doglie del parto. Fu la conferma, se ce n’era bisogno, che la gestazione planetaria e globale della speranza era incombente. Il sistema mondiale del dominio si sentì scosso dalle fondamenta e scatenò il conflitto. Perché la speranza è la grande nemica del potere. Il quale si nutre di disperazione, paura, rassegnazione e sottomissione. Come la speranza nuova prendeva forma a livello mondiale, così anche la strategia per pianificare l’aborto fu globale. Dietro la maschera dell’anticomunismo e con la scusa del confronto apocalittico fra i due grandi sistemi di dominio, fu messa in atto la strategia delle “guerre di bassa intensità”, per uccidere la speranza e riportare sul trono l’inevitabile. E in Italia venne la repressione spietata ed esplosero le bombe in una sequenza tragica di stragi. E la strategia della tensione generò o comunque alimentò il terrorismo come propria immagine speculare. L’aborto sembrò cosa fatta.

Anche nella Chiesa il conflitto fu inevitabile. E risultò tremendo e tragico. Perché la gestazione della speranza si configurava come vera e propria rivoluzione del sistema ecclesiastico del sacro travasato dal medioevo nell’età moderna. Era stato il Concilio che aveva dato voce e forza a tale rivoluzione. I documenti conciliari infatti avevano sancito un germe di trasformazione radicale definito da un grande teologo conciliare, Marie-Dominique Chenu, “Rivoluzione copernicana della Chiesa”, in quanto poneva al centro non più la gerarchia ma il “Popolo di Dio”. Lì, in quel germe appena enunciato, si può individuare il succo stesso del Concilio. Non che i ministeri scomparissero. Solo che riacquistavano la loro funzione di servizio in una Chiesa vissuta come “comunità di comunità in cammino”, fondata sul protagonismo, la dignità e i diritti delle persone e della loro fede, a cominciare dagli ultimi. Quando tale “rivoluzione copernicana” dall’enunciazione di principio nei documenti ufficiali fu trasferita nella pratica di vita ecclesiale dal proliferare di una quantità di esperienze di base, fece paura e fu osteggiata da un intreccio perverso, composto da massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia: quel medesimo intreccio che in Italia tentò di bloccare il processo democratico complessivo, ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore. Non sembri un’esagerazione. Quello che ho chiamato “intreccio perverso” esisteva realmente. [...]



Cristianesimo ribelle

NOVITÀ



Copertina


Mazzi Enzo

Cristianesimo ribelle





2008 pp.192 20,00 €









Il cristianesimo è geneticamente ribelle verso tutte le forme di alienazione e in particolare nei confronti del dominio del sacro. Dall’età di Costantino c’è stata una modificazione genetica nell’assetto istituzionale ecclesiastico. Ma una linea di fedeltà al carattere ribelle del primo cristianesimo è stata mantenuta, pur con fatica e contraddizioni fino ad oggi da movimenti, correnti di pensiero critico e comunità di base. Attingendo alla propria esperienza elaborata e vissuta all’interno di una rete di relazioni comunitarie aperte, specialmente a partire dall’anima profonda del sessantotto, l’autore analizza il processo storico di liberazione dal dominio del sacro e, con molti interrogativi irrisolti, vede l’esistenza personale e della storia come tracciato non sempre lineare ma dotato di senso, passo dopo passo: dalla schiavitù al riscatto, dalla oppressione alla liberazione, dalla alienazione alla responsabilità, dalla sacralità come dominio esterno alla sacralità intrinseca al tutto, dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza, all’accettazione fondamentalmente gioiosa del “nulla creativo” che ci avvolge.


Introduzione



La gestazione planetaria della speranza



Le riflessioni contenute in questo libro sono dovute a una ricca socializzazione comunitaria e hanno la loro radice nell’anima profonda del ’68, che a mio parere è tuttora vitale e generativa. Sono molti i ’68. È gravemente scorretto e rozzamente superficiale ridurre, come fa molta parte della cultura storiografica dominante, un imponente processo storico di trasformazione globale della società alla rivolta studentesca, considerata una folata velleitaria, contraddittoria e violenta, un conato o al massimo un sogno giovanile, senza passato e senza futuro. C’è ovviamente il ’68 degli studenti. Ma c’è anche il ’68 del movimento operaio, che inizia in quell’anno con lotte significative per esplodere l’anno successivo, e c’è il ’68 della psichiatria e della medicina alternativa, della magistratura, del mondo della scuola, del movimento femminista, del movimento conciliare nella Chiesa, perfino di un certo fermento democratico dentro la polizia. Tant’è vero che quando si tirano le somme della repressione giudiziaria del movimento complessivo del ’68-’69, si trovano accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc. (cfr. 14.000 denunce, chi, dove, come, quando, perché, a cura di L. Borgomeo e A. Forbice, ed. Stasind, Roma 1970). La domanda che sorge è la seguente: c’è qualcosa che accomuna i molti ’68, un ethos, una spinta profonda, un orizzonte di senso?

Nel ’68, ho fatto anch’io molte scoperte, sostenuto dalle relazioni comunitarie (cito da: Comunità dell’Isolotto, Il mio ’68, Centrolibro, Firenze 2000); ma una mi sembra che possa in qualche modo racchiudere tutte le altre: la gestazione planetaria della speranza. La speranza è perennemente in gestazione, ma la sua manifestazione nella storia è apparsa finora in forma episodica e settoriale. Nel ’68 invece ci siamo trovati davanti a un fenomeno planetario e globale, una specie di eruzione vulcanica che esplodeva da una miriade di camini in ogni angolo del pianeta, coinvolgeva tutti i settori della società e portava in superficie dall’anima profonda dell’umanità un magma incandescente ricchissimo di elementi creativi, capace di produrre un balzo in avanti della evoluzione culturale della specie. Si tratta di un punto di vista relativo. Non pretendo di assolutizzarlo. Ho detto e sono convinto che il ’68 è molti sessantotto. Non intendo contraddirmi.

C’è chi non vede affatto questo balzo in avanti. Magari perché non crede che la storia abbia una dimensione evolutiva dotata di senso. Io invece il balzo l’ho visto e lo vedo operante tutt’ora, nonostante la restaurazione. Questo non significa che non mi ponga interrogativi. Potrebbe essere il ’68 non un salto evolutivo ma una ennesima ripetizione, un ritorno ciclico della dialettica fra dominio e liberazione, fra paura e speranza, fra potere e amore? Non si può negare che in quell’anno fatale sia emerso il paradigma di sempre, che ha attraversato i millenni: il confronto insanabile fra la liberazione perennemente in divenire dell’amore universale, amore per la vita nella sua dimensione essenziale di finitezza, amore per tutti i viventi nella loro fragilità esistenziale, e il dominio della paura, della violenza, del patto con la morte. Tutto qui? Ma questo sarebbe il trionfo dell’inevitabile, del così è e così sia per tutti i secoli dei secoli, che è l’opposto della speranza. Niente di nuovo sotto il sole? E la nuova lingua universale e unificante della speranza che vedevamo sbocciare in ogni angolo del mondo poteva non essere affatto un balzo in avanti dell’evoluzione umana ma piuttosto un passo di danza in un girotondo senza fine? E l’avanzamento della liberazione dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza e il bisogno di felicità non illusoria che s’intravvedeva al fondo degli obiettivi di lotta sarebbe stato un sogno senza storia e senza futuro? E pura ripetizione di una genesi storica altalenante sarebbe stato quella specie di parto a cui partecipavo, quel passaggio generativo dal “seno materno” costituito da istituzioni, ideologie, confini, patrie, chiese, abitudini, a un mondo nuovo senza contorni, magmatico, appena intravisto da occhi incerti ancora incapaci di distinguere il vuoto dal pieno?

Domande inquietanti e pungenti che restarono sospese nel pieno di quell’anno cruciale e che restano sospese tutt’ora dopo quarant’anni. Quando dico che vedo il ’68 come un balzo evolutivo della specie non dico che ho risolto quegli interrogativi ma solo che li sto elaborando all’interno di reti di relazioni intense. E lo faccio non teoricamente, quanto piuttosto analizzando fatti concreti di vita.

Le esperienze di cambiamento dal basso, che da anni stavamo portando avanti nel nostro piccolo spazio vitale, le scoprivamo condivise inconsapevolmente da realtà sociali diffuse in tutto il mondo. Nei mesi a cavallo fra il ’68 e il ’69 la vicenda vissuta dalla Comunità dell’Isolotto ebbe risonanza mondiale. La piazza dell’Isolotto divenne un crocevia internazionale. Potemmo comunicare col mondo. Ed avemmo la consapevolezza che a livello universale stava nascendo una società basata su valori nuovi e al tempo stesso antichi: pace, solidarietà, primato della coscienza, dissenso creativo, diritti umani e sociali come diritti di tutti e di ognuno/a, centralità delle relazioni: “il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, comunitarietà oltre i confini. L’utopia che da sempre aveva animato i sogni di “uomini e donne di buona volontà” si stava rivelando ormai come la più autentica razionalità e si incarnava in mille e mille percorsi di ricerca positiva diffusi in tutti gli angoli della terra. Finora era sembrato che fosse la paura a tenere unito il mondo sotto la cupola di fuoco della bomba. Ora invece vedevamo che la grande forza unificante a livello finalmente planetario era la speranza. Si rivelò per noi come l’ecografia di una gestazione.

E vennero le doglie del parto. Fu la conferma, se ce n’era bisogno, che la gestazione planetaria e globale della speranza era incombente. Il sistema mondiale del dominio si sentì scosso dalle fondamenta e scatenò il conflitto. Perché la speranza è la grande nemica del potere. Il quale si nutre di disperazione, paura, rassegnazione e sottomissione. Come la speranza nuova prendeva forma a livello mondiale, così anche la strategia per pianificare l’aborto fu globale. Dietro la maschera dell’anticomunismo e con la scusa del confronto apocalittico fra i due grandi sistemi di dominio, fu messa in atto la strategia delle “guerre di bassa intensità”, per uccidere la speranza e riportare sul trono l’inevitabile. E in Italia venne la repressione spietata ed esplosero le bombe in una sequenza tragica di stragi. E la strategia della tensione generò o comunque alimentò il terrorismo come propria immagine speculare. L’aborto sembrò cosa fatta.

Anche nella Chiesa il conflitto fu inevitabile. E risultò tremendo e tragico. Perché la gestazione della speranza si configurava come vera e propria rivoluzione del sistema ecclesiastico del sacro travasato dal medioevo nell’età moderna. Era stato il Concilio che aveva dato voce e forza a tale rivoluzione. I documenti conciliari infatti avevano sancito un germe di trasformazione radicale definito da un grande teologo conciliare, Marie-Dominique Chenu, “Rivoluzione copernicana della Chiesa”, in quanto poneva al centro non più la gerarchia ma il “Popolo di Dio”. Lì, in quel germe appena enunciato, si può individuare il succo stesso del Concilio. Non che i ministeri scomparissero. Solo che riacquistavano la loro funzione di servizio in una Chiesa vissuta come “comunità di comunità in cammino”, fondata sul protagonismo, la dignità e i diritti delle persone e della loro fede, a cominciare dagli ultimi. Quando tale “rivoluzione copernicana” dall’enunciazione di principio nei documenti ufficiali fu trasferita nella pratica di vita ecclesiale dal proliferare di una quantità di esperienze di base, fece paura e fu osteggiata da un intreccio perverso, composto da massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia: quel medesimo intreccio che in Italia tentò di bloccare il processo democratico complessivo, ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore. Non sembri un’esagerazione. Quello che ho chiamato “intreccio perverso” esisteva realmente. [...]



giovedì 19 giugno 2008

Non in nostro nome

Città da paura

Le nostre città si caratterizzano sempre più per una somma di elementi critici (la precarietà o la mancanza del lavoro, l’impoverimento delle famiglie, la mancanza di abitazioni, la solitudine degli anziani, il futuro difficile dei giovani, la presenza di nuove popolazioni) che contribuiscono ad alimentare un diffuso senso di insicurezza.


Una insicurezza che esprime l’inadeguatezza individuale di fronte ai mutamenti fisici e sociali dei propri contesti di vita, di fronte all’erosione delle tutele e delle garanzie collettive, di fronte agli effetti perversi della globalizzazione. L’idea di sicurezza che domina il discorso pubblico e la scena della città in Italia, è invece declinata esclusivamente sotto la forma della pericolosità degli immigrati. Ogni tentativo di ribattere questa presunta evidenza, anche se basato su dati e fatti concreti, viene liquidato in nome del primato della “percezione”.


E la percezione diffusa è che la città, la “nostra” città, da idilliaco luogo della memoria è diventata una fonte di pericolo. La xenofobia e il razzismo si esprimono spesso come disperato tentativo di difendere il proprio status (in questo caso il proprio territorio e quel che resta dello stato sociale) da invasori smaniosi di saccheggiarlo.


E’ necessario un momento di responsabilità collettiva di fronte ai roghi delle baracche dei rom, di fronte alle aggressioni, di fronte ad un linguaggio che alimenta l’odio anche se viene giustificato dall’intenzione di evitare “guerre tra poveri”. In un mondo sempre più aperto, il destino obbligato della città sarà far convivere una moltitudine plurale e frammentata. Indicare l’esclusione, la riduzione dei diritti degli immigrati come soluzione al pericolo da essi rappresentato, renderà molto più difficile e rischiosa questa sfida che tutti abbiamo di fronte.




ARCI

Caritas diocesana Firenze

CNCA Toscana

Cospe

Fondazione Michelucci

RAZZISMO.

NON IN NOSTRO NOME.

Razzismo e xenofobia: non in nostro nome

Le nostre città si caratterizzano sempre più per una somma di elementi critici (la precarietà o la mancanza del lavoro, l’impoverimento delle famiglie, la mancanza di abitazioni, la solitudine degli anziani, lo smarrimento dei giovani) che contribuiscono ad alimentare, in numerose situazioni, il loro progressivo degrado, e costituiscono una miscela potenzialmente esplosiva in un tessuto apparentemente fuori dal controllo politico e sociale.

Tutto questo produce nelle moderne “società del rischio” un diffuso senso di insicurezza. Una insicurezza che esprime l’inadeguatezza individuale di fronte all’erosione delle tutele e delle garanzie collettive, di fronte agli effetti perversi della globalizzazione, di fronte ai mutamenti fisici e sociali dei propri contesti di vita.

L’idea di sicurezza che domina il discorso pubblico e la scena della città in Italia, è invece declinata esclusivamente sotto la forma della pericolosità degli immigrati. Come spesso accade, a parole imprudenti sono seguiti atti gravissimi, in un clima di caccia allo straniero, in particolare se romeno o rom. In un imbarazzante silenzio. O, peggio, nel miserabile tentativo di “giustificare” i fatti con l’esasperazione e l’insicurezza popolare. In maniera irresponsabile si è voluta accreditare l’idea, socialmente devastante, che agli immigrati siano riservati trattamenti di privilegio nell’accesso a beni e servizi limitati come la casa, il lavoro o le sempre più scarse risorse dello stato sociale. Che gli immigrati godano di un eccesso di diritti e di una sostanziale esenzione dai doveri. Che i comportamenti illegali degli stranieri siano di fatto impuniti, mentre la spada della giustizia colpisce inesorabile i piccoli vizi italici.

Ogni tentativo di ribattere queste presunte evidenze, anche se basato su dati e fatti concreti, viene liquidato

in nome del primato della “percezione”.

La xenofobia e il razzismo si esprimono spesso come disperato tentativo di difendere il proprio status (in

questo caso quel che resta dello stato sociale) da invasori smaniosi di saccheggiarlo.

Se il razzismo, come forma estrema della competizione individuale a cui le persone sono abbandonate con la tutta loro precarietà, è un rischio latente a cui tutti siamo sempre esposti, gravissima è la responsabilità di chi lo evoca, con parole e comportamenti che indicano nell’immigrazione una minaccia per il futuro incerto della popolazione “locale”.

In questa costruzione dell’immaginario collettivo, a cui concorrono principalmente coloro che detengono il

monopolio del discorso pubblico, si perdono di vista le responsabilità di chi non ha saputo fornire risposte

adeguate alle ansie sociali: e cioè politiche efficaci ed inclusive per la casa, il lavoro, l’assistenza, la lotta alla solitudine.

Altrettanto irresponsabile è il calcolo di chi pensa di poter gestire a proprio vantaggio il rancore e il rifiuto

che viene indirizzato verso persone e popolazioni. Come la storia insegna, a un certo punto questi sentimenti vivono di vita propria, si autoalimentano oltre ogni evidenza contraria, agiscono come una profezia che si autoavvera.

E’ necessario un momento di responsabilità collettiva di fronte ai roghi delle baracche dei rom, di fronte alle aggressioni, di fronte ad un linguaggio che alimenta l’odio anche se viene giustificato dall’intenzione di evitare “guerre tra poveri”. Il linguaggio adoperato in questi frangenti, così come le scelte politiche e i comportamenti istituzionali, devono essere ispirati da una volontà di risolvere i problemi e non di inasprirli, di produrre coesione sociale e non divisione. E devono ispirarsi a valori irrinunciabili, come il rispetto dei diritti fondamentali della persona. In un mondo sempre più aperto, il destino obbligato della città sarà far convivere una moltitudine plurale e frammentata. Indicare l’esclusione, la riduzione dei diritti degli immigrati come soluzione al pericolo da essi rappresentato, renderà molto più difficile e rischiosa questa sfida che tutti abbiamo di fronte.


http://www.michelucci.it/

Non in nostro nome

Città da paura

Le nostre città si caratterizzano sempre più per una somma di elementi critici (la precarietà o la mancanza del lavoro, l’impoverimento delle famiglie, la mancanza di abitazioni, la solitudine degli anziani, il futuro difficile dei giovani, la presenza di nuove popolazioni) che contribuiscono ad alimentare un diffuso senso di insicurezza.


Una insicurezza che esprime l’inadeguatezza individuale di fronte ai mutamenti fisici e sociali dei propri contesti di vita, di fronte all’erosione delle tutele e delle garanzie collettive, di fronte agli effetti perversi della globalizzazione. L’idea di sicurezza che domina il discorso pubblico e la scena della città in Italia, è invece declinata esclusivamente sotto la forma della pericolosità degli immigrati. Ogni tentativo di ribattere questa presunta evidenza, anche se basato su dati e fatti concreti, viene liquidato in nome del primato della “percezione”.


E la percezione diffusa è che la città, la “nostra” città, da idilliaco luogo della memoria è diventata una fonte di pericolo. La xenofobia e il razzismo si esprimono spesso come disperato tentativo di difendere il proprio status (in questo caso il proprio territorio e quel che resta dello stato sociale) da invasori smaniosi di saccheggiarlo.


E’ necessario un momento di responsabilità collettiva di fronte ai roghi delle baracche dei rom, di fronte alle aggressioni, di fronte ad un linguaggio che alimenta l’odio anche se viene giustificato dall’intenzione di evitare “guerre tra poveri”. In un mondo sempre più aperto, il destino obbligato della città sarà far convivere una moltitudine plurale e frammentata. Indicare l’esclusione, la riduzione dei diritti degli immigrati come soluzione al pericolo da essi rappresentato, renderà molto più difficile e rischiosa questa sfida che tutti abbiamo di fronte.




ARCI

Caritas diocesana Firenze

CNCA Toscana

Cospe

Fondazione Michelucci

RAZZISMO.

NON IN NOSTRO NOME.

Razzismo e xenofobia: non in nostro nome

Le nostre città si caratterizzano sempre più per una somma di elementi critici (la precarietà o la mancanza del lavoro, l’impoverimento delle famiglie, la mancanza di abitazioni, la solitudine degli anziani, lo smarrimento dei giovani) che contribuiscono ad alimentare, in numerose situazioni, il loro progressivo degrado, e costituiscono una miscela potenzialmente esplosiva in un tessuto apparentemente fuori dal controllo politico e sociale.

Tutto questo produce nelle moderne “società del rischio” un diffuso senso di insicurezza. Una insicurezza che esprime l’inadeguatezza individuale di fronte all’erosione delle tutele e delle garanzie collettive, di fronte agli effetti perversi della globalizzazione, di fronte ai mutamenti fisici e sociali dei propri contesti di vita.

L’idea di sicurezza che domina il discorso pubblico e la scena della città in Italia, è invece declinata esclusivamente sotto la forma della pericolosità degli immigrati. Come spesso accade, a parole imprudenti sono seguiti atti gravissimi, in un clima di caccia allo straniero, in particolare se romeno o rom. In un imbarazzante silenzio. O, peggio, nel miserabile tentativo di “giustificare” i fatti con l’esasperazione e l’insicurezza popolare. In maniera irresponsabile si è voluta accreditare l’idea, socialmente devastante, che agli immigrati siano riservati trattamenti di privilegio nell’accesso a beni e servizi limitati come la casa, il lavoro o le sempre più scarse risorse dello stato sociale. Che gli immigrati godano di un eccesso di diritti e di una sostanziale esenzione dai doveri. Che i comportamenti illegali degli stranieri siano di fatto impuniti, mentre la spada della giustizia colpisce inesorabile i piccoli vizi italici.

Ogni tentativo di ribattere queste presunte evidenze, anche se basato su dati e fatti concreti, viene liquidato

in nome del primato della “percezione”.

La xenofobia e il razzismo si esprimono spesso come disperato tentativo di difendere il proprio status (in

questo caso quel che resta dello stato sociale) da invasori smaniosi di saccheggiarlo.

Se il razzismo, come forma estrema della competizione individuale a cui le persone sono abbandonate con la tutta loro precarietà, è un rischio latente a cui tutti siamo sempre esposti, gravissima è la responsabilità di chi lo evoca, con parole e comportamenti che indicano nell’immigrazione una minaccia per il futuro incerto della popolazione “locale”.

In questa costruzione dell’immaginario collettivo, a cui concorrono principalmente coloro che detengono il

monopolio del discorso pubblico, si perdono di vista le responsabilità di chi non ha saputo fornire risposte

adeguate alle ansie sociali: e cioè politiche efficaci ed inclusive per la casa, il lavoro, l’assistenza, la lotta alla solitudine.

Altrettanto irresponsabile è il calcolo di chi pensa di poter gestire a proprio vantaggio il rancore e il rifiuto

che viene indirizzato verso persone e popolazioni. Come la storia insegna, a un certo punto questi sentimenti vivono di vita propria, si autoalimentano oltre ogni evidenza contraria, agiscono come una profezia che si autoavvera.

E’ necessario un momento di responsabilità collettiva di fronte ai roghi delle baracche dei rom, di fronte alle aggressioni, di fronte ad un linguaggio che alimenta l’odio anche se viene giustificato dall’intenzione di evitare “guerre tra poveri”. Il linguaggio adoperato in questi frangenti, così come le scelte politiche e i comportamenti istituzionali, devono essere ispirati da una volontà di risolvere i problemi e non di inasprirli, di produrre coesione sociale e non divisione. E devono ispirarsi a valori irrinunciabili, come il rispetto dei diritti fondamentali della persona. In un mondo sempre più aperto, il destino obbligato della città sarà far convivere una moltitudine plurale e frammentata. Indicare l’esclusione, la riduzione dei diritti degli immigrati come soluzione al pericolo da essi rappresentato, renderà molto più difficile e rischiosa questa sfida che tutti abbiamo di fronte.


http://www.michelucci.it/

martedì 10 giugno 2008

Almafida

La tribù dei serpenti gialli


Se a 40 anni di distanza il ‘68 è di nuovo oggetto di attacchi di particolare virulenza, una ragione ci deve essere. Ed è, probabilmente, quella che attraverso l’attacco alle ragioni ideali di quella stagione di lotte (come di altre) si intende squalificare anche coloro che oggi continuano a battersi affinché – almeno in parte – quel patrimonio di energie, di istanze, di conquiste, nonché l'aspirazione stessa alla giustizia sociale, l'insofferenza verso ogni dogmatismo, la critica di ogni potere o gerarchia possa continuare ad avere cittadinanza. Vale la pena, allora, al di là della retorica delle celebrazioni, continuare a far parlare il ’68, e precisamente il ’68 vissuto e sofferto all’interno della Chiesa cattolica in Italia. Dobbiamo quindi premettere che il vero ’68, nella Chiesa, comincia nel 1965, quando, con la chiusura del Concilio, si innescò un processo di rinnovamento che a fatica - e al prezzo di una durissima repressione - riuscirà a mettere in discussione un apparato rimasto sostanzialmente immutato dai tempi della Controriforma. Se il ‘68 degli studenti non risparmiò nessuno dei simulacri del potere borghese, dai giornali ai tribunali, dalle fabbriche alla scuola, dal mondo della cultura alla famiglia, dall’università ai partiti politici (compresi – anzi, soprattutto – quelli della sinistra istituzionale), nella Chiesa il ‘68 mise in discussione il simbolo stesso della sacralità e dell’immutabilità dell’istituzione: la gerarchia cattolica. E la scintilla divenne incendio, grazie a figure come don Milani, padre Camillo Da Piaz, padre David Maria Turoldo, padre Ernesto Balducci, solo per citare i più noti. E grazie anche ai teologi del postconcilio, a quelli del Terzo Mondo, agli esponenti della Chiesa latinoamericana di Medellín, alle migliaia di credenti che sui sagrati e nelle Chiese di tutta Europa celebravano liturgie alternative, che incarnavano la volontà di cambiamento nella scelta di stare dalla parte degli oppressi.


Certo, non mancarono segnali di un potere che non era disposto a cedere: basti pensare alla "rimozione forzata" del card. Lercaro, arcivescovo di Bologna, a causa della sua opposizione alla guerra in Vietnam), o alla chiusura dell’Avvenire d’Italia.


Ci fu poi con don Giussani la nascita, sulle ceneri di Gioventù Studentesca, di Comunione e Liberazione che assumeva, come altri movimenti, le forme e gli slogan del ‘68, ma che veicolava contenuti reazionari. Ciononostante la contestazione assumeva, anche nella Chiesa, le proporzioni di un fenomeno di massa. E si espandeva a macchia d’olio: a Trento, un gruppo di giovani cattolici organizzò un controquaresimale di fronte al Duomo (in quella stessa città si era appena conclusa l’occupazione della facoltà di Sociologia, sostenuta da 9 preti iscritti alla facoltà); ci fu la contestazione degli studenti della Cattolica, a Roma, in piazza S. Pietro (la Cattolica verrà occupata 4 volte e l'ultima durerà 15 giorni con il Rettore chiuso nel suo ufficio); la nascita, a Torino, della comunità del Vandalino e a Genova del movimento dei Camillini (che iniziò la contestazione al card. Siri) e, successivamente, della comunità di Oregina intorno a padre Agostino Zerbinati; a Udine si iniziò a stampare I quattro gatti, un giornale fatto da credenti posizionati sulla linea del dissenso; a Napoli nacque Il tetto, guidato da Pasquale Colella; a Verona, i giovani francescani del convento di San Bernardino contestavano le logiche mondane del loro Ordine. A novembre, il Consiglio pastorale della diocesi di Ivrea si pronunciò contro la partecipazione azionaria del Vaticano alla Lancia. Intanto le Acli prendevano le distanze dal collateralismo con la Dc, mentre l’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet si preparava alla grande svolta della "scelta religiosa" (1969). A Roma, intanto, muoveva i primi passi l’Agenzia di stampa Adista considerata subito voce della sinistra cristiana e in seguito del dissenso cattolico e delle Comunità di Base. Il clou arrivò in settembre, quando giovani cattolici (alcuni della Fuci) occupano la cattedrale di Parma per denunciare i finanziamenti delle banche alla Chiesa. La parrocchia dell'Isolotto di Firenze, insieme ad altre due parrocchie fiorentine, espresse solidarietà agli occupanti. Il card. Ermenegildo Florit, colse al volo l’occasione per destituire i preti dell’Isolotto don Enzo Mazzi, don Sergio Gomiti e don Paolo Caciolli. Ma la comunità era tutta con loro e lo seguirono fuori dal tempio: le celebrazioni sul piazzale antistante alla chiesa testimoniavano che un’altra Chiesa era ormai matura.


Proprio le parole di una donna dell’Isolotto - Almafida - testimoniano in modo efficacissimo, più di tante analisi, gli effetti di quella straordinaria rivoluzione nel modo di intendere la fede che maturò all’interno del ‘68. Almafida faceva parte di un gruppo di cernitori di spazzatura nel quartiere dell'Isolotto, chiamato "la tribù dei serpenti gialli", perché costretto a lavorare dalla mattina alla sera nella melma maleodorante e vagamente giallognola della spazzatura in decomposizione. Qualche anno fa, ormai in età avanzata, Almafida chiamò il nipote Francesco, consegnandoli un pacchetto con tre oggetti: "Qui c'è tutta la vita della nostra famiglia", gli disse. "Quei due attrezzi - spiegò puntando il dito - sono un forcone e un marraffio e servivano al tuo babbo, ai tuoi zii e ai tuoi nonni per scegliere la spazzatura. Servivano a comprare il pane e poco altro. In questo incarto - proseguì - c’è un libro. Questo è servito per un altro tipo di pane: quello della dignità e della speranza". Era Incontro a Gesù, il catechismo dell’Isolotto: "Gesù - disse l’anziana cernitrice - era amico di noi poveri e nessuno ce lo aveva mai detto! S'era schiavi dell'ignoranza e della miseria, si mangiava pane e moccio. Quando si era fortunati ad avere il pane! Abbiamo vissuto l'inferno, l'inferno quello vero, non quello inventato. Com'era lontano Dio! Come si tenevano a debita distanza coloro che nel tempio predicavano in suo nome. Poi arrivò un soffio di vento e un brivido di speranza, sembrava che dall'inferno si potesse uscire: qualcuno si era messo a cercare Dio proprio nell'inferno tra la gente come noi". Ed è quel soffio di vento che – anche attraverso queste pagine – speriamo possa tornare a soffiare. (valerio gigante)


Su adista

Almafida

La tribù dei serpenti gialli


Se a 40 anni di distanza il ‘68 è di nuovo oggetto di attacchi di particolare virulenza, una ragione ci deve essere. Ed è, probabilmente, quella che attraverso l’attacco alle ragioni ideali di quella stagione di lotte (come di altre) si intende squalificare anche coloro che oggi continuano a battersi affinché – almeno in parte – quel patrimonio di energie, di istanze, di conquiste, nonché l'aspirazione stessa alla giustizia sociale, l'insofferenza verso ogni dogmatismo, la critica di ogni potere o gerarchia possa continuare ad avere cittadinanza. Vale la pena, allora, al di là della retorica delle celebrazioni, continuare a far parlare il ’68, e precisamente il ’68 vissuto e sofferto all’interno della Chiesa cattolica in Italia. Dobbiamo quindi premettere che il vero ’68, nella Chiesa, comincia nel 1965, quando, con la chiusura del Concilio, si innescò un processo di rinnovamento che a fatica - e al prezzo di una durissima repressione - riuscirà a mettere in discussione un apparato rimasto sostanzialmente immutato dai tempi della Controriforma. Se il ‘68 degli studenti non risparmiò nessuno dei simulacri del potere borghese, dai giornali ai tribunali, dalle fabbriche alla scuola, dal mondo della cultura alla famiglia, dall’università ai partiti politici (compresi – anzi, soprattutto – quelli della sinistra istituzionale), nella Chiesa il ‘68 mise in discussione il simbolo stesso della sacralità e dell’immutabilità dell’istituzione: la gerarchia cattolica. E la scintilla divenne incendio, grazie a figure come don Milani, padre Camillo Da Piaz, padre David Maria Turoldo, padre Ernesto Balducci, solo per citare i più noti. E grazie anche ai teologi del postconcilio, a quelli del Terzo Mondo, agli esponenti della Chiesa latinoamericana di Medellín, alle migliaia di credenti che sui sagrati e nelle Chiese di tutta Europa celebravano liturgie alternative, che incarnavano la volontà di cambiamento nella scelta di stare dalla parte degli oppressi.


Certo, non mancarono segnali di un potere che non era disposto a cedere: basti pensare alla "rimozione forzata" del card. Lercaro, arcivescovo di Bologna, a causa della sua opposizione alla guerra in Vietnam), o alla chiusura dell’Avvenire d’Italia.


Ci fu poi con don Giussani la nascita, sulle ceneri di Gioventù Studentesca, di Comunione e Liberazione che assumeva, come altri movimenti, le forme e gli slogan del ‘68, ma che veicolava contenuti reazionari. Ciononostante la contestazione assumeva, anche nella Chiesa, le proporzioni di un fenomeno di massa. E si espandeva a macchia d’olio: a Trento, un gruppo di giovani cattolici organizzò un controquaresimale di fronte al Duomo (in quella stessa città si era appena conclusa l’occupazione della facoltà di Sociologia, sostenuta da 9 preti iscritti alla facoltà); ci fu la contestazione degli studenti della Cattolica, a Roma, in piazza S. Pietro (la Cattolica verrà occupata 4 volte e l'ultima durerà 15 giorni con il Rettore chiuso nel suo ufficio); la nascita, a Torino, della comunità del Vandalino e a Genova del movimento dei Camillini (che iniziò la contestazione al card. Siri) e, successivamente, della comunità di Oregina intorno a padre Agostino Zerbinati; a Udine si iniziò a stampare I quattro gatti, un giornale fatto da credenti posizionati sulla linea del dissenso; a Napoli nacque Il tetto, guidato da Pasquale Colella; a Verona, i giovani francescani del convento di San Bernardino contestavano le logiche mondane del loro Ordine. A novembre, il Consiglio pastorale della diocesi di Ivrea si pronunciò contro la partecipazione azionaria del Vaticano alla Lancia. Intanto le Acli prendevano le distanze dal collateralismo con la Dc, mentre l’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet si preparava alla grande svolta della "scelta religiosa" (1969). A Roma, intanto, muoveva i primi passi l’Agenzia di stampa Adista considerata subito voce della sinistra cristiana e in seguito del dissenso cattolico e delle Comunità di Base. Il clou arrivò in settembre, quando giovani cattolici (alcuni della Fuci) occupano la cattedrale di Parma per denunciare i finanziamenti delle banche alla Chiesa. La parrocchia dell'Isolotto di Firenze, insieme ad altre due parrocchie fiorentine, espresse solidarietà agli occupanti. Il card. Ermenegildo Florit, colse al volo l’occasione per destituire i preti dell’Isolotto don Enzo Mazzi, don Sergio Gomiti e don Paolo Caciolli. Ma la comunità era tutta con loro e lo seguirono fuori dal tempio: le celebrazioni sul piazzale antistante alla chiesa testimoniavano che un’altra Chiesa era ormai matura.


Proprio le parole di una donna dell’Isolotto - Almafida - testimoniano in modo efficacissimo, più di tante analisi, gli effetti di quella straordinaria rivoluzione nel modo di intendere la fede che maturò all’interno del ‘68. Almafida faceva parte di un gruppo di cernitori di spazzatura nel quartiere dell'Isolotto, chiamato "la tribù dei serpenti gialli", perché costretto a lavorare dalla mattina alla sera nella melma maleodorante e vagamente giallognola della spazzatura in decomposizione. Qualche anno fa, ormai in età avanzata, Almafida chiamò il nipote Francesco, consegnandoli un pacchetto con tre oggetti: "Qui c'è tutta la vita della nostra famiglia", gli disse. "Quei due attrezzi - spiegò puntando il dito - sono un forcone e un marraffio e servivano al tuo babbo, ai tuoi zii e ai tuoi nonni per scegliere la spazzatura. Servivano a comprare il pane e poco altro. In questo incarto - proseguì - c’è un libro. Questo è servito per un altro tipo di pane: quello della dignità e della speranza". Era Incontro a Gesù, il catechismo dell’Isolotto: "Gesù - disse l’anziana cernitrice - era amico di noi poveri e nessuno ce lo aveva mai detto! S'era schiavi dell'ignoranza e della miseria, si mangiava pane e moccio. Quando si era fortunati ad avere il pane! Abbiamo vissuto l'inferno, l'inferno quello vero, non quello inventato. Com'era lontano Dio! Come si tenevano a debita distanza coloro che nel tempio predicavano in suo nome. Poi arrivò un soffio di vento e un brivido di speranza, sembrava che dall'inferno si potesse uscire: qualcuno si era messo a cercare Dio proprio nell'inferno tra la gente come noi". Ed è quel soffio di vento che – anche attraverso queste pagine – speriamo possa tornare a soffiare. (valerio gigante)


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lunedì 9 giugno 2008

MANI DI DONNA

 L’ESPERIENZA DEL LABORATORIO KIMETA




clicca sulla foto per vedere l'interno

34474. FIRENZE-ADISTA. Nel quartiere dell’Isolotto, a Firenze, sono mani di donne quelle che tessono le trame dell’integrazione e del dialogo col popolo rom, in questo momento in cui l’intolleranza e la xenofobia sembrano non lasciare spazio alla speranza: sono le donne del progetto Kimeta che da cinque anni hanno dato vita ad un piccolo laboratorio di cucito e stireria. Proprio nel 2003, ad aprile, prendeva infatti avvio un’esperienza di solidarietà femminile tra donne appartenenti all’associazionismo, alla Comunità di Base dell’Isolotto, alle istituzioni del quartiere e al campo rom del Poderaccio: esperienza raccontata dalla viva voce delle protagoniste nel volume “Mani di donne” curato da Luciana Angeloni e stampato dalla Regione Toscana (il libro può essere richiesto al "Laboratorio Kimeta", via Modigliani 125 ‑ 50142 Firenze; tel. 055/7332192; e‑mail: lucianaangeloni@tosnet.it). La strada tentata è quella che “passa attraverso la lenta decostruzione della fissità delle relative appartenenze culturali e l’altrettanto lenta costruzione condivisa della ‘comunità oltre i confini’”. Il Laboratorio di cucito e stireria è, nelle intenzioni e nei fatti, attività di cura per le persone e per le cose: i prezzi non sono calcolati col metro del profitto, ma in base ad un difficile equilibrio tra dignità di chi offre il servizio e di chi ne usufruisce. Recuperando questa “antica cultura della cura”, si è restituito a queste donne la loro soggettività e il loro ruolo, persi in una società dell’“in-curanza” in cui “l’usa e getta ha coperto di rifiuti non solo la faccia della terra ma anche la memoria, le competenze accumulate in millenni di cultura dell’attenzione amorosa per la vita, della preoccupazione e responsabilità verso le persone”.


I risultati, a cinque anni di distanza dall’inizio del progetto, sono tangibili: nelle relazioni intrecciate, nei pregiudizi abbattuti, nell’emancipazione delle donne rom che, pur rappresentando un elemento fondamentale nell’economia familiare, vivono in un contesto fortemente patriarcale e maschilista. Le parole di Paola, raccolte in “Mani di donne”, rendono appieno il senso di questa esperienza: “Penso a come mi dispiace non averle conosciute nel loro ambiente queste donne. Sabilja che correva a gara coi maschi nella neve e non voleva che il fratello sparasse agli animali nel bosco, Zenepa che si aggirava nell’orto a scovare i piccoli cetrioli teneri di nascosto dalla suocera, Scegersada che saliva a piedi i molti piani della casa del babbo quando l’ascensore era rotto. Proprio come da noi. Magari si potrebbe anche aggiungere che l’uguaglianza preesiste, è il dato biologico, la diversità viene dopo, è accidentale e spesso porta con sé povertà e svantaggi notevoli. Per questo possiamo stare insieme e parlarci perché sotto la diversità affiora quello che abbiamo in comune”.


Trovato qui


Un po' di foto

MANI DI DONNA

 L’ESPERIENZA DEL LABORATORIO KIMETA




clicca sulla foto per vedere l'interno

34474. FIRENZE-ADISTA. Nel quartiere dell’Isolotto, a Firenze, sono mani di donne quelle che tessono le trame dell’integrazione e del dialogo col popolo rom, in questo momento in cui l’intolleranza e la xenofobia sembrano non lasciare spazio alla speranza: sono le donne del progetto Kimeta che da cinque anni hanno dato vita ad un piccolo laboratorio di cucito e stireria. Proprio nel 2003, ad aprile, prendeva infatti avvio un’esperienza di solidarietà femminile tra donne appartenenti all’associazionismo, alla Comunità di Base dell’Isolotto, alle istituzioni del quartiere e al campo rom del Poderaccio: esperienza raccontata dalla viva voce delle protagoniste nel volume “Mani di donne” curato da Luciana Angeloni e stampato dalla Regione Toscana (il libro può essere richiesto al "Laboratorio Kimeta", via Modigliani 125 ‑ 50142 Firenze; tel. 055/7332192; e‑mail: lucianaangeloni@tosnet.it). La strada tentata è quella che “passa attraverso la lenta decostruzione della fissità delle relative appartenenze culturali e l’altrettanto lenta costruzione condivisa della ‘comunità oltre i confini’”. Il Laboratorio di cucito e stireria è, nelle intenzioni e nei fatti, attività di cura per le persone e per le cose: i prezzi non sono calcolati col metro del profitto, ma in base ad un difficile equilibrio tra dignità di chi offre il servizio e di chi ne usufruisce. Recuperando questa “antica cultura della cura”, si è restituito a queste donne la loro soggettività e il loro ruolo, persi in una società dell’“in-curanza” in cui “l’usa e getta ha coperto di rifiuti non solo la faccia della terra ma anche la memoria, le competenze accumulate in millenni di cultura dell’attenzione amorosa per la vita, della preoccupazione e responsabilità verso le persone”.


I risultati, a cinque anni di distanza dall’inizio del progetto, sono tangibili: nelle relazioni intrecciate, nei pregiudizi abbattuti, nell’emancipazione delle donne rom che, pur rappresentando un elemento fondamentale nell’economia familiare, vivono in un contesto fortemente patriarcale e maschilista. Le parole di Paola, raccolte in “Mani di donne”, rendono appieno il senso di questa esperienza: “Penso a come mi dispiace non averle conosciute nel loro ambiente queste donne. Sabilja che correva a gara coi maschi nella neve e non voleva che il fratello sparasse agli animali nel bosco, Zenepa che si aggirava nell’orto a scovare i piccoli cetrioli teneri di nascosto dalla suocera, Scegersada che saliva a piedi i molti piani della casa del babbo quando l’ascensore era rotto. Proprio come da noi. Magari si potrebbe anche aggiungere che l’uguaglianza preesiste, è il dato biologico, la diversità viene dopo, è accidentale e spesso porta con sé povertà e svantaggi notevoli. Per questo possiamo stare insieme e parlarci perché sotto la diversità affiora quello che abbiamo in comune”.


Trovato qui


Un po' di foto

Tabù

 ANCHE IN ITALIA STA CADENDO IL TABÙ


Il caso di Modena e soprattutto i tanti altri casi che non salgono alla ribalta della cronaca, dimostrano che se il Parlamento non perverrà, neppure con questa maggioranza, a una legge sul testamento biologico, gli italiani tralasceranno la formalizzazione giuridica e utilizzeranno comunque questo strumento di espressione di volontà e autonomia del malato. Succede, del resto, non solo in Italia che se la politica non ascolta i bisogni reali della popolazione, allora la popolazione fa a meno della politica.

Questo è vero almeno per le questioni che toccano da vicino la nostra vita e la sua qualità. Il grande movimento popolare olandese che ha condotto alla legislazione più avanzata in Europa sulle decisioni di fine vita è nato, ormai vent’anni fa, quando la popolazione ha potuto constatare che la medicina oggi è in grado di prolungare artificialmente la vita biologica, opponendosi a una fine naturale per giorni, per mesi o per anni. In Germania, pur in assenza di una legge, a seguito dell’iniziativa popolare, in due anni sono stati depositati sette milioni di testamenti biologici.

In Italia il testamento biologico era tabù e la sua definizione pressoché sconosciuta fino al marzo di due anni fa, quando la Fondazione che porta il mio nome pubblicò il primo opuscolo divulgativo e organizzò la prima presentazione a Roma, alla Cassa Forense. Il motivo: una incomprensibile resistenza ideologica, molto preoccupante per la libertà di ognuno di noi, da parte di molti opinionisti che vedono nel testamento biologico un’anticamera dell’eutanasia mentre così non è, anzi concettualmente è l’opposto e anche di molti medici che rivendicano il loro potere di decidere, oppure, al contrario, hanno paura di decidere e preferiscono affidarsi alle potenzialità di una medicina tecnologica. Dal 2006 sono molte migliaia le persone che si sono rivolte a noi, e continuano a farlo, per avere informazioni e sapere che fare.

Innanzitutto va ripetuto che il testamento biologico (che, ricordiamolo, è un’espressione scritta di volontà individuale revocabile e modificabile, circa le cure che si vogliono o non si vogliono ricevere, da utilizzare nel caso in cui non ci si potesse esprimere di persona) può già essere ritenuto valido nel nostro ordinamento perché è un’estensione del consenso informato alle cure, che è non solo legittimo ma obbligatorio nel nostro Paese. Inoltre l’Italia ha siglato la Convenzione di Oviedo sui «diritti umani e la biomedicina» che afferma che «il medico, anche tenendo conto della volontà del paziente laddove espressa, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento per la qualità di vita».

Anche il mondo cattolico non si è mai opposto al testamento biologico. In Spagna, dove il Testamento Vidal è appena diventato legge, il modulo del testamento si trova sul sito web della Conferenza episcopale spagnola. E indirizzato: «Alla mia famiglia, al mio medico, al mio sacerdote, al mio notaio» e si basa sul principio che «la vita è un dono e una benedizione di Dio, ma non è il valore supremo assoluto». Il giorno dell’approvazione della legge spagnola mi ha colpito il commento di Marcelo Palacios, consigliere del governo Zapatero e presidente della Società internazionale di bioetica: «Un malato terminale non muore perché si sospendono le cure, muore perché era terminale. Dobbiamo concentrarci piuttosto sulla sua dignità di persona».

In Italia pare che la politica non la pensi così.




- DI UMBERTO VERONESI

da: la Repubblica di domenica 8 giugno 2008

Tabù

 ANCHE IN ITALIA STA CADENDO IL TABÙ


Il caso di Modena e soprattutto i tanti altri casi che non salgono alla ribalta della cronaca, dimostrano che se il Parlamento non perverrà, neppure con questa maggioranza, a una legge sul testamento biologico, gli italiani tralasceranno la formalizzazione giuridica e utilizzeranno comunque questo strumento di espressione di volontà e autonomia del malato. Succede, del resto, non solo in Italia che se la politica non ascolta i bisogni reali della popolazione, allora la popolazione fa a meno della politica.

Questo è vero almeno per le questioni che toccano da vicino la nostra vita e la sua qualità. Il grande movimento popolare olandese che ha condotto alla legislazione più avanzata in Europa sulle decisioni di fine vita è nato, ormai vent’anni fa, quando la popolazione ha potuto constatare che la medicina oggi è in grado di prolungare artificialmente la vita biologica, opponendosi a una fine naturale per giorni, per mesi o per anni. In Germania, pur in assenza di una legge, a seguito dell’iniziativa popolare, in due anni sono stati depositati sette milioni di testamenti biologici.

In Italia il testamento biologico era tabù e la sua definizione pressoché sconosciuta fino al marzo di due anni fa, quando la Fondazione che porta il mio nome pubblicò il primo opuscolo divulgativo e organizzò la prima presentazione a Roma, alla Cassa Forense. Il motivo: una incomprensibile resistenza ideologica, molto preoccupante per la libertà di ognuno di noi, da parte di molti opinionisti che vedono nel testamento biologico un’anticamera dell’eutanasia mentre così non è, anzi concettualmente è l’opposto e anche di molti medici che rivendicano il loro potere di decidere, oppure, al contrario, hanno paura di decidere e preferiscono affidarsi alle potenzialità di una medicina tecnologica. Dal 2006 sono molte migliaia le persone che si sono rivolte a noi, e continuano a farlo, per avere informazioni e sapere che fare.

Innanzitutto va ripetuto che il testamento biologico (che, ricordiamolo, è un’espressione scritta di volontà individuale revocabile e modificabile, circa le cure che si vogliono o non si vogliono ricevere, da utilizzare nel caso in cui non ci si potesse esprimere di persona) può già essere ritenuto valido nel nostro ordinamento perché è un’estensione del consenso informato alle cure, che è non solo legittimo ma obbligatorio nel nostro Paese. Inoltre l’Italia ha siglato la Convenzione di Oviedo sui «diritti umani e la biomedicina» che afferma che «il medico, anche tenendo conto della volontà del paziente laddove espressa, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento per la qualità di vita».

Anche il mondo cattolico non si è mai opposto al testamento biologico. In Spagna, dove il Testamento Vidal è appena diventato legge, il modulo del testamento si trova sul sito web della Conferenza episcopale spagnola. E indirizzato: «Alla mia famiglia, al mio medico, al mio sacerdote, al mio notaio» e si basa sul principio che «la vita è un dono e una benedizione di Dio, ma non è il valore supremo assoluto». Il giorno dell’approvazione della legge spagnola mi ha colpito il commento di Marcelo Palacios, consigliere del governo Zapatero e presidente della Società internazionale di bioetica: «Un malato terminale non muore perché si sospendono le cure, muore perché era terminale. Dobbiamo concentrarci piuttosto sulla sua dignità di persona».

In Italia pare che la politica non la pensi così.




- DI UMBERTO VERONESI

da: la Repubblica di domenica 8 giugno 2008

sabato 7 giugno 2008

Contento come un papa

SCV  giugno 2008





Italia 1929


...il cardinale MERRY DEL VAL espresse un   altrettanto lapidario giudizio "Mussolini con chiara visione della realtà ha    voluto e vuole che la religione sia rispettata, onorata, praticata". Ma non si    fermò qui, espresse anche un giudizio politico "Visibilmente protetto da Dio,    Mussolini ha sapientemente rialzato le sorti della nazione accrescendone il    prestigio in tutto il mondo". Durante la cerimonia della firma, il  cardinale    GASPARRI che ha condotto tutta l'operazione, regalò a Mussolini la penna d'oro    che era servita per firmare i protocolli, e nello stesso tempo non trattenne   le lacrime dalla gioia. 

     Pio XI, anche lui visibilmente emozionato alla firma dei Patti, disse  che per il compimento di un'opera così alta che aveva ridato Dio all'Italia e    l'Italia a Dio…    "forse ci voleva un uomo come quello che la provvidenza ci ha fatto   incontrare".


Spagna 1939


Res optime procedunt   (Tutto va per il meglio)

Telegramma al Vaticano da parte del nunzio apostolico a Madrid alla vigilia della guerra civile spagnola.


Contento come un papa

SCV  giugno 2008





Italia 1929


...il cardinale MERRY DEL VAL espresse un   altrettanto lapidario giudizio "Mussolini con chiara visione della realtà ha    voluto e vuole che la religione sia rispettata, onorata, praticata". Ma non si    fermò qui, espresse anche un giudizio politico "Visibilmente protetto da Dio,    Mussolini ha sapientemente rialzato le sorti della nazione accrescendone il    prestigio in tutto il mondo". Durante la cerimonia della firma, il  cardinale    GASPARRI che ha condotto tutta l'operazione, regalò a Mussolini la penna d'oro    che era servita per firmare i protocolli, e nello stesso tempo non trattenne   le lacrime dalla gioia. 

     Pio XI, anche lui visibilmente emozionato alla firma dei Patti, disse  che per il compimento di un'opera così alta che aveva ridato Dio all'Italia e    l'Italia a Dio…    "forse ci voleva un uomo come quello che la provvidenza ci ha fatto   incontrare".


Spagna 1939


Res optime procedunt   (Tutto va per il meglio)

Telegramma al Vaticano da parte del nunzio apostolico a Madrid alla vigilia della guerra civile spagnola.


giovedì 5 giugno 2008

Ahmadinajad's speech

   

Dear all,

  I was surprised to see how the Italian media dealt with President Ahmadinajad's speech delivered yesterday at the FAO. It seemed to me little difference was accorded to the speech content: the Italian media had already prepared their reactions. 

  

  I personally found it more balanced than what I had expected but certainly less diplomatic than what one would expect to hear in such meetings, and to be honest, I don't think that was a bad thing. At least it contained more thruth than the Brazilian president speech that did not disclose the social effects of biofuels (but was largely applauded).

  

  You can find the english translation of the speeches on

  
http://www.fao.org/foodclimate/conference/statements/day1-am/en/

  

  Now, I wonder if we could have a role in communicating the true content if the Iranian speech at least to the alternative media? Any suggestions? 

     

  Cherine
  Khallaf


Audio of the speech 


French translation


English translation


Ahmadinajad's speech

   

Dear all,

  I was surprised to see how the Italian media dealt with President Ahmadinajad's speech delivered yesterday at the FAO. It seemed to me little difference was accorded to the speech content: the Italian media had already prepared their reactions. 

  

  I personally found it more balanced than what I had expected but certainly less diplomatic than what one would expect to hear in such meetings, and to be honest, I don't think that was a bad thing. At least it contained more thruth than the Brazilian president speech that did not disclose the social effects of biofuels (but was largely applauded).

  

  You can find the english translation of the speeches on

  
http://www.fao.org/foodclimate/conference/statements/day1-am/en/

  

  Now, I wonder if we could have a role in communicating the true content if the Iranian speech at least to the alternative media? Any suggestions? 

     

  Cherine
  Khallaf


Audio of the speech 


French translation


English translation


mercoledì 4 giugno 2008

Rifiuti che fare insieme

   La riunione del 28 maggio alle baracche sul tema dei "rifiuti che fare insieme" è stata una bella cosa. Abbiamo socializzato inquietudini, esperienze positive, voglia di coordinare i nostri sforzi e di essere protagonisti.


 alleghiamo il testo della lettera che è insieme anche un documento in qualche modo programmatico e vi invitiamo a farla circolare nelle vostre associazioni e anche in altre realtà associative raccogliendo più firme possibile.

Coordinamento propositivo

sul tema dei rifiuti urbani

del quartiere Isolotto


    Ai signori


Giuseppe D’Eugenio

Presidente del Consiglio di Quartiere 4


    Marco Maria Samoggia

Presidente del Quadrifoglio


    Livio Giannotti

     Amministratore delegato del Quadrifoglio


    Loro sedi


Si è costituito nel Quartiere 4 di Firenze un Coordinamento propositivo sul tema dei rifiuti urbani a seguito di una iniziativa che è partita dal basso. E’ composto da rappresentanti di molte associazioni, da cittadini responsabili e da rappresentanti della Commissione Ambiente del Consiglio del Q4.

Siamo tutti convinti della necessità di essere informati e di contare di più su scelte che toccano da vicino la qualità della vita e la salute nostra e dei nostri figli. E’ necessario secondo noi un salto di qualità nella cultura e nella partecipazione democratica, oltre che nella politica, per non trovarsi a subire emergenze gravissime senz’altra possibilità che la protesta contro le istituzioni e non di rado anche la guerra tra territori. Il nostro obiettivo di fondo è una società equa, sobria e solidale. Sappiamo che il percorso è lungo e fatto anche di piccoli passi in ogni ambito di vita.

L’ambito rifiuti è oggi essenziale. Tutti, sia come cittadini che come appartenenti a gruppi e associazioni, stiamo realizzando delle iniziative per ridurre i rifiuti, per raccogliere in forma differenziata, per riciclare, per riusare.

Il 28 maggio scorso ci siamo riuniti alle “Baracche” in via degli Aceri, rappresentanti delle seguenti associazioni e istituzioni: Comunità di base dell’Isolotto, Presidenza Commissione Ambiente del Consiglio del Q4, Fattoria dei Ragazzi, Centro Educativo Popolare, Biblioteca comunale Isolotto, Legambiente, rappresentanze sindacali del Quadrifoglio, Gruppo AGESCI FI 2, Fondo Essere, genitori e insegnanti di scuole del territorio, Coordinamento territoriale circoli ARCI, Laboratorio Kimeta, Gruppo Città vivibile, insieme a cittadini variamente impegnati sul tema rifiuti. Hanno dato la loro adesione sebbene occasionalmente impossibilitati ad essere presenti alla riunione: Sezione soci Coop, Stazione di confine, Kantiere.

Abbiamo concordato di attuare insieme iniziative per far crescere la consapevolezza, il protagonismo di base, la partecipazione e l’assunzione di responsabilità. Riteniamo che il nostro territorio con la sua storia di partecipazione democratica e comunitaria e con la sua identità abbia risorse umane e sociali capaci di iniziare un percorso e tracciare una strada verso “rifiuti zero”.

Abbiamo deciso che il primo passo che vogliamo fare è promuovere un incontro fra il nostro Coordinamento e dirigenti qualificati del Quadrifoglio sia per metterli al corrente delle nostre iniziative e ottenere collaborazione, sia per rivolgere loro la precisa richiesta di realizzare in tempi brevi nel territorio del Q4 la raccolta differenziata porta a porta.

Siamo determinati a raggiungere questo obiettivo nei modi e nei tempi che concorderemo insieme.

Riteniamo importante che si investa nella raccolta differenziata porta a porta come in una scelta per il futuro, l’unica possibile per raggiungere elevate percentuali di raccolta differenziata e per dimostrare che i benefici sono per tutti: per i cittadini, per le istituzioni, per l’ambiente, per i lavoratori, per il decoro urbano. L’alternativa è inquinamento e disastri ambientali, gravi attentati alla salute, pessima qualità della vita.

Pertanto chiediamo formalmente:

- al Presidente del Consiglio di Q4 di aderire in forma ufficiale attraverso un’apposita delibera di Consiglio al Coordinamento e ai suoi obiettivi individuati e decisi insieme a noi dal Presidente della Commissione ambiente dello stesso Q4;

- al Presidente e all’Amministratore delegato del Quadrifoglio di partecipare a un incontro col nostro Coordinamento in una data che potremo concordare in base alle sue e nostre disponibilità, nella terza settimana di giugno (indicativamente potrebbe andar bene per noi lunedì 16, mercoledì 18 o giovedì 19 giugno alle ore 17,30 alle “Baracche” in via degli Aceri 1).


Al fine di organizzare al meglio l’incontro chiediamo di inviare la vostra gentile risposta in tempi brevi. Distinti saluti


Coordinamento “emergenza rifiuti” Quartiere 4 Firenze


Referente provvisorio “Comunità Isolotto” via degli Aceri 1 – 50142 Firenze

tel. + segreteria tel. + fax 055 71136

(cellulare 330451089 - risponde Enzo Mazzi)


Firenze 3 giugno 2008

Rifiuti che fare insieme

   La riunione del 28 maggio alle baracche sul tema dei "rifiuti che fare insieme" è stata una bella cosa. Abbiamo socializzato inquietudini, esperienze positive, voglia di coordinare i nostri sforzi e di essere protagonisti.


 alleghiamo il testo della lettera che è insieme anche un documento in qualche modo programmatico e vi invitiamo a farla circolare nelle vostre associazioni e anche in altre realtà associative raccogliendo più firme possibile.

Coordinamento propositivo

sul tema dei rifiuti urbani

del quartiere Isolotto


    Ai signori


Giuseppe D’Eugenio

Presidente del Consiglio di Quartiere 4


    Marco Maria Samoggia

Presidente del Quadrifoglio


    Livio Giannotti

     Amministratore delegato del Quadrifoglio


    Loro sedi


Si è costituito nel Quartiere 4 di Firenze un Coordinamento propositivo sul tema dei rifiuti urbani a seguito di una iniziativa che è partita dal basso. E’ composto da rappresentanti di molte associazioni, da cittadini responsabili e da rappresentanti della Commissione Ambiente del Consiglio del Q4.

Siamo tutti convinti della necessità di essere informati e di contare di più su scelte che toccano da vicino la qualità della vita e la salute nostra e dei nostri figli. E’ necessario secondo noi un salto di qualità nella cultura e nella partecipazione democratica, oltre che nella politica, per non trovarsi a subire emergenze gravissime senz’altra possibilità che la protesta contro le istituzioni e non di rado anche la guerra tra territori. Il nostro obiettivo di fondo è una società equa, sobria e solidale. Sappiamo che il percorso è lungo e fatto anche di piccoli passi in ogni ambito di vita.

L’ambito rifiuti è oggi essenziale. Tutti, sia come cittadini che come appartenenti a gruppi e associazioni, stiamo realizzando delle iniziative per ridurre i rifiuti, per raccogliere in forma differenziata, per riciclare, per riusare.

Il 28 maggio scorso ci siamo riuniti alle “Baracche” in via degli Aceri, rappresentanti delle seguenti associazioni e istituzioni: Comunità di base dell’Isolotto, Presidenza Commissione Ambiente del Consiglio del Q4, Fattoria dei Ragazzi, Centro Educativo Popolare, Biblioteca comunale Isolotto, Legambiente, rappresentanze sindacali del Quadrifoglio, Gruppo AGESCI FI 2, Fondo Essere, genitori e insegnanti di scuole del territorio, Coordinamento territoriale circoli ARCI, Laboratorio Kimeta, Gruppo Città vivibile, insieme a cittadini variamente impegnati sul tema rifiuti. Hanno dato la loro adesione sebbene occasionalmente impossibilitati ad essere presenti alla riunione: Sezione soci Coop, Stazione di confine, Kantiere.

Abbiamo concordato di attuare insieme iniziative per far crescere la consapevolezza, il protagonismo di base, la partecipazione e l’assunzione di responsabilità. Riteniamo che il nostro territorio con la sua storia di partecipazione democratica e comunitaria e con la sua identità abbia risorse umane e sociali capaci di iniziare un percorso e tracciare una strada verso “rifiuti zero”.

Abbiamo deciso che il primo passo che vogliamo fare è promuovere un incontro fra il nostro Coordinamento e dirigenti qualificati del Quadrifoglio sia per metterli al corrente delle nostre iniziative e ottenere collaborazione, sia per rivolgere loro la precisa richiesta di realizzare in tempi brevi nel territorio del Q4 la raccolta differenziata porta a porta.

Siamo determinati a raggiungere questo obiettivo nei modi e nei tempi che concorderemo insieme.

Riteniamo importante che si investa nella raccolta differenziata porta a porta come in una scelta per il futuro, l’unica possibile per raggiungere elevate percentuali di raccolta differenziata e per dimostrare che i benefici sono per tutti: per i cittadini, per le istituzioni, per l’ambiente, per i lavoratori, per il decoro urbano. L’alternativa è inquinamento e disastri ambientali, gravi attentati alla salute, pessima qualità della vita.

Pertanto chiediamo formalmente:

- al Presidente del Consiglio di Q4 di aderire in forma ufficiale attraverso un’apposita delibera di Consiglio al Coordinamento e ai suoi obiettivi individuati e decisi insieme a noi dal Presidente della Commissione ambiente dello stesso Q4;

- al Presidente e all’Amministratore delegato del Quadrifoglio di partecipare a un incontro col nostro Coordinamento in una data che potremo concordare in base alle sue e nostre disponibilità, nella terza settimana di giugno (indicativamente potrebbe andar bene per noi lunedì 16, mercoledì 18 o giovedì 19 giugno alle ore 17,30 alle “Baracche” in via degli Aceri 1).


Al fine di organizzare al meglio l’incontro chiediamo di inviare la vostra gentile risposta in tempi brevi. Distinti saluti


Coordinamento “emergenza rifiuti” Quartiere 4 Firenze


Referente provvisorio “Comunità Isolotto” via degli Aceri 1 – 50142 Firenze

tel. + segreteria tel. + fax 055 71136

(cellulare 330451089 - risponde Enzo Mazzi)


Firenze 3 giugno 2008