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mercoledì 1 novembre 2006

Firenze da piccola

Elena Stancanelli 

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Prezzo di copertina € 9

Editore: Laterza , 2006

l’Isolotto

Prima di salutarlo, chiedo a Virgilio Sieni dove abiti. Sono curiosa di sapere dove abbia ritrovato la sua città, dopo essere stato per tanti anni in giro per il mondo. Sono tornato nel posto dove sono nato, mi risponde, all’Isolotto. Ci sto bene, ho in testa anche alcuni progetti da realizzare con le persone del posto.

L’Isolotto non è un quartiere come gli altri, non è un agglomerato di case con strade dai nomi di scrittori, o fiumi, generali o eroi della stessa guerra. È una piccola comunità, le case hanno ancora un prezzo abbordabile e c’è meno ferocia e spaesamento che al centro.

Il quartiere dell’Isolotto deve il suo nome a un grumo di terra sull’Arno, un’isola appunto che stava là sotto, sotto le sponde delle Cascine. Scomparsa da quando, in seguito a una serie di studi di Leonardo da Vinci, fu deciso di creare un argine alto e potente ai lati del fiume, l’Argin Grosso che oggi dà il nome alla strada. Sarebbe servito a dar sfogo alla piena senza danneggiare le popolose zone che si estendevano lungo la via Pisana. Prima che fosse bonificata, quest’area della città veniva chiamata Sardinia, che significa terra malsana. Dopo la creazione dell’argine, l’isola scomparve.

Sul lato opposto alle Cascine, la riva sinistra, su una superficie di circa sessanta ettari, l’Ina-Casa in accordo col Comune fa progettare un complesso di abitazioni sul modello dei quartieri-giardino inglesi e della tradizione scandinava: case basse, molto verde, strade piccole e pedonali. Prima dei lavori di costruzione, all’isolotto c’erano un lazzaretto e un cimitero di cavalli, una discarica di rifiuti nella quale andavano a frugare un gruppo di cernitori, che si chiamavano tra loro «la tribù dei serpenti gialli». Chissà, forse per via dei vestiti, o del colore della pelle che non doveva essere brillante. Morivano giovani, di setticemia o tubercolosi, contratte tra i miasmi della spazzatura.


Lo chiamavano Bronx o anche Corea. L’unico mezzo a disposizione per raggiungere il centro era l’autobus numero 9, che si fermava spesso in salita costringendo tutti quanti a scendere per spingerlo.

Le vie dell’Isolotto, nella parte più vicina al ponte della Vittoria, sulla sinistra del Lungarno del Pignone, hanno nomi di fiori. Sono viuzze strette, piene di biciclette, che si dipartono dalla via principale: via dei Bambini.. Incontro alcuni anziani con le borse della spesa, una coppia di adolescenti che ha fatto forca a scuol Dicono che questo sia il quartiere della città che offre più giochi e spazi verdi pubblici, una specie di paradiso dei bimbi. A camminarci in mezzo dà un’idea di pacea e, seduta su una panchina, si infila ogni cosa possibile in ogni cosa possibile, come una statua di Laocoonte in movimento silenzioso e lentissimo, braccia gambe lingue, nasi, dita.


Bisognerebbe fare uno studio sul motivo per cui nelle varie città si usano espressioni tanto diverse per indicare la stessa attività, il non andare a scuola. Marinare, fare sega, fare filotto, bigiare. Fare forca. Malgrado sia propensa a credere che niente significa niente, che quanto accade risponde esclusivamente al caso, mi colpisce che noi bambini fiorentini usassimo una variante tanto feroce. Forse ha un’etimologia diversa, ma mi ha sempre fatto pensare a gente con chiodi e martelli, pronta a issare congegni dell’orrore ai quali appendere quaderni e insegnanti, compagni, bidelli e compiti in classe. Una specie di foresta della tortura, dove giustiziare ciò che è indigesto. Come il povero Savonarola. Anche giocare a flipper in qualche bar, o rotolarsi nei giardini di Boboli, incastrarsi l’uno dentro l’altro sulle panchine dell’Isolotto ci fa pensare alla morte. Qualcuno chiama questa attitudine di noi fiorentini «austerità».

Quelle case intorno al viale dei bambini sono le più vecchie e anche le più belle. Non perché siano più vecchie, non sempre l’anzianità è garanzia di bellezza, anzi. Ma perché sono più vecchie di quelle costruite negli anni sessanta e settanta, il terribile ventennio della cosiddetta architettura dei geometri. Quale vuoto di potere e di intelligenza permise il proliferare dell’estetica del casermone, del condominio senza grazia, dell’edificio che iniziava a marcire prima ancora di essere terminato? Che cosa avvenne in quegli anni in Italia che consentì ai costruttori di tirar su robaccia con materiali scadenti e senza alcun tributo non dico alla bellezza ma almeno al buon senso ambientale? Neanche l’Isolotto sfuggì al massacro e quanto si costruì nella seconda stagione dei cantieri, porta sulle spalle la tara del gusto imperdonabile di quegli anni.

Ma quelle case invece, coi giardini e le scalette, i fiori ai balconi e i tetti bassi, sono belle. Quando il 6 novembre 1954 Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, consegna agli assegnatari le chiavi delle prime mille case disponibili del neonato quartiere dell’Isolotto, pronuncia un celebre discorso. Dice:

non case, ma città. Dice, citando Leon Battista Alberti, «la città è una grande casa per una grande famiglia». Rivela così qual era l’utopia che sosteneva il grande progetto approvato da Mario Fabiani, il vecchio sindaco comunista. Da La Pira ostinatamente portato avanti, nell’ambito di una coraggiosa politica sugli alloggi, che attirò su di lui anche critiche violente, tra le quali quella di Indro Montanelli che lo attaccò sul «Corriere della Sera» per la scelta di requisire le case sfitte per le famiglie in difficoltà. Di fronte alle emergenze, come accade nella crisi dei licenziamenti, La Pira reagisce con scelte drastiche e anche scomposte. Ma quando ha tempo per distendere la sua teoria, sogna luoghi vivi, con scuole e giardini, servizi e mezzi di trasporto. Organismi autonomi, satelliti collegati tra di loro ma dotati ognuno della propria anima.

La Pira fu tradito, mi racconta don Mazzi, gli dettero i soldi per far le case ma non quelli per fare i servizi che voleva. Fu tradito. La Pira sapeva che a Torino e Milano gli operai dormivano nei letti a castello, oppure in due nello stesso letto scambiandosi il giorno e la notte a seconda dei turni. Non voleva riprodurre quelle condizioni, voleva una città nella città. Ma nel 1954, quando entrammo, c’erano mille alloggi e nessun servizio, di nessun genere. I bambini furono mandati in una scuola pubblica a due chilometri di distanza. Non c’erano autobus, non c’erano macchine. Allora La Pira fece costruire almeno queste baracche di legno. C’era il rischio che diventassero definitive, nella testa di chi avrebbe dovuto stanziare i fondi per quelle in muratura. Ma almeno c’erano. Però i bambini prendevano la bronchite per l’umidità, e i topi scorazzavano.

Le baracche, nelle quali incontro don Mazzi, sono ancora lì. Una di queste ospita la biblioteca dove io andavo a studiare con scarsi risultati il metodo mimico di Orazio Costa. Quando diventai parroco all’Isolotto, mi racconta don Mazzi, andai a trovare La Pira, in Comune. Mi ricevette e mi disse: sono lieto, rallegra il cuore della gente con tante feste.

Ci conoscevamo già. Apparteneva a un’élite culturale cattolica che si era proposta di avvicinarsi al popolo. Padre Turoldo, Fioretta Mazzei, padre Balducci. Professavano una forte spinta a immedesimarsi nella vita della gente, a rinascere nella gente.

Noi non avevamo nulla, e non avevamo nulla da perdere. Eravamo proiettati verso il nuovo. Come gli stranieri migranti di adesso. Erano anni diversi da questi. La gente che arrivava all’Isolotto era sperduta. Venivano dalla campagna o da altri quartieri della città dai quali erano stati sfrattati, erano profughi istriani, italiani del sud. Tutte persone sradicate, per le quali era necessario ricostituire prima possibile un tessuto, una comunità di appartenenza. La chiesa divenne un luogo di incontro e di scambio. Come primo gesto per avvicinarci ai fedeli girammo l’altare.

La chiesa fu costruita dalla parte opposta rispetto al Palazzo dei Diavoli, ultimo avamposto della città. Moderna, enorme, un po’ glaciale. Così grande che fu messa a disposizione per le riunioni sindacali degli abitanti, durante la stagione calda degli scioperi della Galileo. Provocando l’indignazione della Chiesa di Roma: ma come, i comunisti nella casa di Dio, davanti all’altare? Levate il Cristo, a che non sia profanato! Il cardinale Della Costa rispose che nessuna madre avrebbe chiuso la porta in faccia ai propri figli in tanta pena per il posto di lavoro. E quanto al Santissimo, stava bene dove stava.

Il crocifisso di Primo Conti, grande sul fondo, è blu. In una cappella c’è la sinopia di un affresco: la Madonna in trono èon

Bambino, i santi e gli angeli di Bicci di Lorenzo. L’affresco stava nel tabernacolo di via Palazzo dei Diavoli angolo via dei Mortuli, distrutto nei famosi anni settanta per far posto a chissà cosa. Adesso è stato spostato in un nuovo tabernacolo, accanto all’Oratorio di Santa Maria delle Querce. Per vederlo bisogna chiedere le chiavi al parroco. Chissà perché non è stato messo nella chiesa. Forse perché nella chiesa ci stavano i comunisti.

Le chiese mi imbarazzano, ma le chiese brutte mi gettano nello sconforto. Questa non è brutta come il lanciacristi, almeno da fuori ha una sua indubbia sobrietà, ma è glaciale. Sembra un capannone per la Fiera della Sposa, un outlet in provincia di Pisa. Ci rimango il tempo necessario per capire la questione dell’altare.

Enzo Mazzi e Sergio Gomiti lo fecero costruire al contrario, per dirci messa rivolti ai fedeli e non alla croce. Coram populo e non più coram deo. Un principio che fu ratificato solo alcuni anni più tardi, nel Concilio Vaticano Il, indetto da Giovanni XXIII e proseguito da Paolo VI (1962- 1965). La messa diventava conviviale, un rito al quale l’assemblea partecipava attivamente, non più da spettatrice. Tra le tante idee di Benedetto XVI per rendere la nostra esistenza meno «relativizzata», c’è anche quella di recuperare alcuni dettagli del rito preconciliare, tra i quali la posizione dell’altare. In questa prospettiva, da questi nostri anni l’operato di Enzo Mazzi e Sergio Gomiti appare ancor più rivoluzionario.

Nasce intorno alla chiesa il mito dell’Isolotto.

Dicono che l’Isolotto sia nato due volte. La prima alla consegna delle chiavi e la seconda nel 1968, quando ci fu il violento scontro con l’arcivescovo Florit, che aveva preso il posto del cardinale Della Costa, alleato di La Pira e difensore di quel cristianesimo di base che nel quartiere fiorentino guidava le scelte dei parrocchiani. Ci furono prese di posizione che non piacquero all’arcivescovo, appelli al papa, testimonianze dei fedeli. Ci furono essenzialmente due opinioni diverse rispetto al ruolo della Chiesa, due opinioni inconciliabili. Don Enzo Mazzi fu cacciato via dalla Curia e al suo posto fu insediato un altro prete che officiò messa, per anni, nella gigantesca e gelida chiesa completamente vuota.

I fedeli erano tutti fuori, ad ascoltare ancora le parole di don Mazzi, che ogni domenica celebrava nella piazza la messa intorno alla quale si erano raccolti negli anni più duri, e che volevano continuare ad ascoltare nonostante gli arcivescovi.

Erano gli anni della scuola di Barbiana, di don Milani, di padre Balducci, della comune di Danilo Dolci e delle battaglie pacifiste di Aldo Capitini, di grandi teorici che si trasformavano in operai del pensiero, che combattevano sul campo contro l’aristocrazia frigida della dottrina. Anni nei quali lo stesso La Pira fece un passo indietro, rinquadrato nei ranghi, incapace di accogliere fino in fondo la richiesta della gente. Era in ostaggio della Democrazia cristiana, dice sottovoce don Mazzi. Mentre mi parlava della nascita dell’Isolotto e di quegli anni, io continuavo a pensare a Goffredo Parise. Avevo letto da poco il discorso che aveva pronunciato nel ricevere una laurea honoris causa, pubblicato in un’antologia di scritti che prende il titolo proprio da quel discorso: Quando la fantasia ballava il boogie. Dove non si parla di ballo, ma di tempo, ritmo, di quella parola inglese intraducibile in italiano se non nel suo significato metaforico di libertà.

«Questa libertà non era dovuta soltanto alla fine della guerra, anche se coincise con essa, né agli schieramenti che combatterono, né alla vittoria dell’uno e dell’altro, né alle parti politiche. Vista a distanza la libertà, e con essa il massimo di libertà di immaginazione possibile, giunse in Europa e nel mondo perché doveva giungere, perché non poteva non giungere, indipendentemente dagli anni di guerra, senza precise cause e senza precisi effetti: giunse, come si dice sbagliando, dal cielo. Ecco il dio a cui va dato l’onore. La libertà è un grande scoppio di energia vitale e centrifuga. Bisognava fare tutto, dal cibo ai grattacieli. Fu il momento dell’azione e ancora una volta quel magnifico boogie divenne l’inno mondiale dell’azione dei corpi nella loro massima espressione di libertà pratica, immaginativa e spirituale: corpo e cervello si accordavano perfettamente per esprimerlo, la vitalità ne era l’impulso quasi meccanico

La libertà viene dal cielo, come quasi tutto. Lasciando l’Isolotto penso che certe strade sono belle e altre sono brutte, anche il fiume non è sempre un dono. Questo quartiere è venuto su come gli altri, un po’ a caso un po’ no, un po’ per forza e un po’ con qualche idea. Su un terreno che era una schifezza, gomito a gomito con i morti. Eppure ci si sta bene, èvero, ha un’anima, come diciamo per semplicità.

Una volta, non molto tempo fa, lessi un articolo di Sandro Veronesi, bello e semplice. Lo scrisse su «Roliing Stone» in occasione della morte di Hunter Thompson, l’autore di Paura e disgusto a Las Vegas e soprattutto l’inventore del concetto di «gonzo journalism». Una maniera di fare reportage per la quale lo scrittore e i fatti si pongono sullo stesso piano, dando per scontato che dalla cronaca pura non può uscire nessuna verità. Veronesi diceva una cosa bella e semplice a proposito dei sognatori.

 

Diceva che avevano perso. Che negli anni sessanta sembrava che potessero farcela, che mancasse pochissimo a che il mondo andasse dove avrebbero voluto loro, ma poi, e qui citava le parole di Hunter Thompson, l’onda si era spezzata ed era ritornata indietro. L’utopia era stata sconfitta, e la paura aveva ripreso il sopravvento. Il Vecchio Ordine Mondiale era stato restaurato. Ma, concludeva Veronesi, proviamo a pensare come sarebbe andata se non fossero esistite le armi da fuoco. Proviamo a immaginare che cosa sarebbe accaduto al mondo se l’intelligenza, la capacità, il coraggio, avessero potuto farsi strada senza trovarsi davanti i cannoni.

«Dite, giovani, che è un sogno?» conclude La Pira nel suo discorso del 1954, alla consegna delle chiavi dei primi appartamenti all’Isolotto. «Sia pure: ma la vera vita è quella di coloro che sanno sognare i più alti ideali e che sanno poi tradurre nella realtà del tempo le cose intraviste nello splendore dell’idea! »

FINE 

Grazie a Elena che conclude il suo bel libro su Firenze proprio qui, alle baracche verdi, che sono molto orgogliose della citazione.

 Auguri anche a te, simpatica fiorentina e bravissima narratrice. E buona fortuna.


 

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