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lunedì 25 febbraio 2008

Fede e scienza: da Galileo a Papa Ratzinger

Domenica 2 marzo

(l'assemblea è aperta a tutti. Inizio 10,30)




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(Via degli aceri 1 tel. 055 711362 (traversa di via Torcicoda-Isolotto)



Fede e scienza: da Galileo a Papa Ratzinger.

 

Domenica 2 Marzo 2008

(gruppo Elena, Gian Paolo, Giulia, Maria, Roberto, Sergio)

 

1. Letture bibliche: Luca 10, 17-24; Ia Lettera ai Corinzi cap. I, 17-29.

 

2. Considerazioni generali.

Gli uomini hanno desiderato di conoscere il mondo che li circonda fino da quando, nomadi, andavano alla scoperta di nuovi territori per procurarsi acqua, cibo, pellicce e poi legna da ardere. Le conoscenze si sono man mano sviluppate non solo per soddisfare i bisogni primari ma anche per utilizzare al meglio ciò che la natura offriva, per migliorare le proprie condizioni di vita. Questo ha portato ad uno straordinario sviluppo del cervello umano con il desiderio di conoscere sempre più il mondo, a comprendere i meccanismi che regolano la natura, a comprendere le ragioni dell’esistenza umana.

Dante mette sulla bocca di Ulisse i famosi versi: “ fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” che esprimono mirabilmente la caratteristica dell’uomo di pensare, riflettere, immaginare. Le conoscenze dell’uomo in ogni campo, scientifico, letterario, filosofico, economico, artistico, ecc., seguono percorsi talvolta semplici ma più spesso complicati. Si procede per fili logici ma talvolta anche per ipotesi che possono sembrare, in un primo momento, assurde.

Anche l’interpretazione scientifica della realtà può sembrare in contrasto rispetto a quello che le apparenze ci mostrano e, talvolta, certe ipotesi ci sembrano assurde. Ne è un esempio, per restare a Galileo, delle sue leggi sulla “caduta dei gravi”: tutti i corpi, qualunque sia la loro forma e il loro peso sono soggetti alla stessa legge di gravità cioè sono attratti dalla terra allo stesso modo. Ma allora perché una piuma, un pezzo di sughero, una pallina di piombo cadono in terra con velocità diverse? Questa legge non è contraddetta? Bene, se mettiamo questi oggetti in un tubo di vetro nel quale abbiamo tolto l’aria li vediamo cadere tutti assieme, ovvero è l’effetto dell’aria che fa apparire contraddetta questa legge.

Si possono citare anche le parole del Prof. Giuliano Toraldo di Francia, fisico e filosofo della scienza: “La vita dell’uomo è un apprendimento continuo. Crede di tendere a sapere, ma in realtà tende a imparare. Non abbiamo bisogno di essere, ma di crescere. L’uomo “non è”, ma “diviene”. Ed è non solo capace di “imparare”, ma anche di riflettere sull’apprendimento”. Siamo quindi condannati a conoscere? Sembra di si.

Ma, riflettendo sul nostro apprendimento, ci rendiamo conto dei nostri limiti. Più conosciamo e più ci rendiamo conto di quanto siano limitate le nostre conoscenze. Un esempio: con lo sviluppo di potenti microscopi elettronici, che hanno ingrandimenti molto alti, oggi siamo in grado di vedere particolari estremamente piccoli degli oggetti, invisibili ad occhio nudo, ma ci fanno anche intravedere la possibilità di vedere particolari ancora più piccoli in futuro con macchine più potenti.

La Bibbia, nel libro della Genesi, quando Dio vieta ad Adamo e Eva di “mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male”, secondo una interpretazione che mi convince, vuole porre gli uomini di fronte ai limiti della propria conoscenza: conoscere il bene ed il male significava avere la comprensione completa di se stessi e del mondo e quindi non accettare, con un atto di orgoglio, i limiti della condizione umana.

Un conto sono i limiti oggettivi della conoscenza umana, un conto sono i condizionamenti che ne impediscono lo sviluppo. Le manifestazioni di superstizione che spesso si accompagnano o addirittura sostituiscono celebrazioni religiose ne sono un esempio. I fenomeni naturali, infatti, seguono le leggi fisiche (come la pioggia, i terremoti, le eruzioni vulcaniche) ma se vengono evocati o scongiurati da funzioni propiziatorie contribuiscono a ridurre il livello della cultura scientifica della popolazione.

La recente enciclica del Papa, la Spe salvi, a proposito del rapporto fra fede e scienza afferma che: “La scienza non redime l’uomo. La scienza (…) può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa”.

Questa è la frase che più di altre esprime tutto il pessimismo con cui il Papa guarda all’uomo contemporaneo. E’ una frase che difficilmente uno scienziato laico può accettare. Che la scienza non possa redimere l’uomo è condivisibile. Infatti la scienza può aiutare l’uomo a risolvere molti problemi della sua esistenza, ma può essere usata anche contro l’uomo e il mondo: ad es. la scoperta dell’energia nucleare con la sua applicazione per fini bellici hanno dato all’uomo un’arma capace di distruggere il globo, ma può essere anche usata per curare malattie prima incurabili. Dipende dalle scelte che vengono fatte per il suo utilizzo. Ma chi opera queste scelte? E’ proprio qui che l’enciclica di Ratzinger non è accettabile da coloro che si pongono in maniera laica nella società. Infatti, dicendo che la scienza deve essere orientata da forze ad essa esterne, propone una visione dell’uomo in cui ragione e etica sono irrimediabilmente separate, cristallizzate in una visione gerarchica rigida: prima viene l’etica – che è fuori dalla ragione – poi viene la ragione (la scienza) che la condiziona.

Come può l’etica orientare la ragione quando il nostro pensiero spesso si forma non solo da concetti logici ma anche da quelli assurdi? L’ideazione, la fantasia, vengono sempre prima di qualsiasi sistemazione logica. Nella nostra mente esiste una ricca “sorgente” di immagini, di suggestioni, di sensazioni e di collegamenti che obbedisce ad una logica che spesso ci è ignota o addirittura non segue una logica. Soltanto in un secondo tempo passiamo al setaccio quelle immagini, cercando di trasformarle in concetti logici e scartando tutto quello che ci sembra non abbia senso. Il poeta, il pittore, però, non sottopongono troppo severamente le loro immagini alla sistemazione logica, altrimenti le distruggerebbero. Non è vero che quelle immagini non sono realtà, sono espressioni della realtà umana. Imbrigliare, disseccare le sorgenti del pensiero sarebbe follia.

Dopo Charles Darwin non solo gli scienziati, ma anche i laici, si pongono in una visione naturalistica dell’uomo, cioè collocano la nostra specie dentro la natura, che si modifica secondo criteri evoluzionistici. Questo comporta non solo un’evoluzione dal punto di vista biologico della natura e dell’uomo ma ci mette in grado di elaborare, di modificare non solo i ragionamenti più astratti ma anche i giudizi etici. I comportamenti che nelle diverse culture sono giudicati buoni sono diversi da cultura a cultura e, per ciascuna cultura, cambiano nel tempo. La capacità di esprimere giudizi morali e quindi di costruire sistemi morali è frutto dell’evoluzione umana. Un es. di questo è la recentissima moratoria sulla pena di morte, approvata a maggiorana dall’Assemblea plenaria delle Nazioni Unite, ed a suo tempo la dichiarazione sull’abolizione della tortura. Anche la Città del Vaticano le ha utilizzate fino a non molto tempo fa’.

Non è quindi possibile separare la ragione dall’etica né è, dunque, possibile proporre una gerarchia di valori, ovvero l’etica non viene prima della ragione. Ragione e capacità di esprimere giudizi morali co-esistono e co-evolvono. La scienza può anzi avere un valore universalistico se non si pone al servizio di particolarismi ma se si pone al servizio dell’intera umanità. Fino dal Seicento la comunità scientifica si era posta questa intenzione etica. Oggi la scienza, in larga maggioranza, si pone al servizio dell’umanità quando, ad esempio, denuncia i gravi rischi che corre il mondo se si continua a consumare grandi quantità di risorse naturali non rinnovabili. Questo naturalismo critico colloca l’uomo nella natura con la sua ragione e la sua capacità di elaborare giudizi morali. Anzi da tutto questo ne deriva la possibilità di costruire un’etica laica che costituisce sia un atto di ottimismo e di fiducia nell’umanità sia la premessa per un dialogo senza conflitti tra credenti e non credenti e fra credenti di religioni diverse. La scienza sta dando un contributo positivo a questo dialogo: nei congressi scientifici internazionali si trovano insieme a presentare i loro studi scienziati provenienti da varie parti del mondo con una minima influenza delle differenze di cultura, razza e religione dei congressisti (dall’indiano all’ebreo, dal cinese all’europeo, dall’americano al giapponese). Se un qualsiasi scienziato desse il suo contributo scientifico mostrando di essere influenzato dalle sue credenze religiose si troverebbe poco credibile e isolato.

 

3. Galilei e la Chiesa

 

1542 – Paolo III riorganizza l’Inquisizione moderna con la bolla “Licet ab initio”. E’ la “Sacra Congregazione della romana ed universale Inquisizione ossia Santo Uffitio”. I suoi aspetti più rilevanti sono i seguenti.

L’organizzazione: al vertice sta il Comitato centrale dei cardinali inquisitori competenti in materia di fede e con giurisdizione in tutto il mondo. Si può parlare di una sorta di polizia mondiale.

I cardinali inquisitori nominano: i) i procuratori fiscali cioè gli accusatori, come il pubblico ministero nel processo di oggi; ii) gli inquisitori delegati, cioè i giudici; iii) i notai ed il personale ausiliario.

Principio base della procedura inquisitoriale: il sospetto degli inquisitori costituisce già di fatto giudizio di colpevolezza. Il sospetto si divide in: i) “violento”. La colpa, ossia l’eresia, è giudicata scelta volontaria, dolosa. E’ la peggiore situazione per il “reo”; ii) “veemente”. E’ la colpa preterintenzionale; iii) “leggiero” in caso di comportamento colposo. Il processo si basa sull’inversione dell’onere della prova. Non è l’accusatore che deve provare le proprie accuse, in quanto basta solo il suo sospetto per sottoporre a processo il sospettato, ma è quest’ultimo che deve provare che il sospetto dell’autorità inquisitoriale è infondato. Cosa peraltro assai difficile, dato che la procedura prevede l’uso della tortura per far confessare i rei. L’interrogatorio sotto tortura può riguardare: i) il fatto, cioè si cerca la confessione del reato di eresia; ii) l’intenzione, per saggiare, ad esempio, che la ritrattazione sia sincera.

Da notare che, in concreto, la separazione fra accusatore e giudice è inesistente, poiché ambedue procedono all’unisono sulla base del principio del sospetto, avendo per scopo l’estirpazione della eresia e non quello di rendere giustizia.

Per la prima volta c’è l’uguaglianza giuridica di tutti di fronte alla legge penale, giacché è abolita la distinzione fra laici ed ecclesiastici. Conoscono l’Inquisizione il Cardinale Pole, che nel 1549 non diviene papa per un solo voto, Ignazio di Loyola, Teresa d’Avila, Giovanni della Croce.

Principio ideologico: l’inquisitore si presenta come amico del reo perché lo aiuta a redimersi e ad abbandonare gli errori.

Conclusione del processo. Formalmente si può concludere con assoluzione del sospettato. Quando, ed è il caso più frequente, si chiude con un giudizio formale di eresia, il reo o ritratta, dichiarandosi pentito, oppure va incontro al rogo. A seconda del grado di colpa, al pentito si applicano diversi gradi di pena, anche molto severi.

Chi scrive e pubblica, per cautela, in genere premette la “protestaio”, ossia un’autocritica preventiva. Si tratta di una dichiarazione che comprende:

1.      La “professio fidei”;

2 “cautio”. L’autore dichiara che se nello scritto viene trovato qualcosa giudicato contrario alla fede cattolica, errato, non conforme all’insegnamento della Chiesa o, comunque, sospetto, ciò è da imputare alla propria ignoranza o debolezza mentale;

3.      “declaratio”, con la quale l’autore si dichiara pronto ad allinearsi alle definizioni della Chiesa, a sottostare agli ammonimenti ed alle decisioni ecclesiastiche.

 

1543 - Copernico, ormai prossimo alla morte, che avviene il 24 maggio, pubblica a Norimberga il “De rivolutionibus orbium caelestium” . L’opera è dedicata al papa Paolo III.

In quest’opera si espone un sistema astronomico che fornisce non solo una rappresentazione geometrica del moto degli astri ma anche una dottrina della causa dei fenomeni osservati. Essa vuole essere insomma una fisica del cosmo in quanto descrizione vera della realtà. Vi si affronta anche il problema del rapporto fra questa nuova cosmologia e la Scrittura. Copernico sostiene che il testo sacro non è utilizzabile per la ricerca della verità naturale, avendo ben altro ufficio che quello di fornire agli uomini trattati di fisica e di cosmologia.

In effetti, l’opera di Copernico colpisce profondamente la visione tradizionale della posizione occupata dall’uomo nell’ordinamento cosmico. Essa, infatti, attenta alla posizione privilegiata che faceva dell’umanità il centro ed il fine dell’intero universo; una centralità materializzata e resa appunto concretamente evidente nell’ordinamento geocentrico dei cieli. La tradizionale disposizione fisica del cosmo mostrava infatti, nella propria struttura, un ordine teleologico centrato sulla terra e sull’uomo che la abita. Copernico, capovolgendo la posizione del nostro pianeta, reca anche implicitamente un serio attacco al teleologismo racchiuso nella cosmologia del passato, peraltro confermato dalla lettera della Scrittura.

Benché il libro sia troppo matematico per essere compreso dalla cultura del tempo, presso la quale la matematica gode di scarso apprezzamento, tuttavia in campo protestante Melantone comprende la portata rivoluzionaria di quei calcoli matematici. Soprattutto perché entrano in rotta di collisione con la Scrittura (Giosuè 10). Per eliminare questo scontro, un altro teologo luterano, Osiander, premette, sotto forma di “lettera al lettore” come se fosse scritta dallo stesso Copernico, l’avvertimento che tutti quei calcoli intendono essere soltanto ipotesi geometrico-matematiche che permettono di salvare “le apparenze” cioè i fenomeni celesti osservabili, senza la pretesa però di essere veri. Contro questa interpolazione arbitraria insorgono però immediatamente il cardinale arcivescovo di Capua, Niccolò Schönberg, ed il vescovo di Culm, Tiedman Giese. Quest’ultimo, dopo avere accusato Osiander di falso, lo cita addirittura davanti alla magistratura di Norimberga perché la lettera al lettore venga soppressa.

A metà del Cinquecento l’opera di Copernico trova difficoltà in campo protestante, mentre viene tranquillamente accolta in campo cattolico. Ancora nel 1594 è adottata come libro di testo di astronomia dall’università di Salamanca. Assumendo come criterio della fede la sola Scrittura, per di più presa alla lettera e resa accessibile a tutti i fedeli, è comprensibile che il protestantesimo abbia problemi non indifferenti di fronte ad uno scritto che smentisce alcuni passi biblici. Per contro, nel mondo cattolico, la Scrittura è stata sempre dichiarata indisponibile per il semplice fedele, in quanto l’interprete autentico è soltanto il magistero della Chiesa. Come afferma in un quaresimale a Pisa nel 1304 il domenicano Giordano da Rivalto “la Scrittura è grave e profonda e sottilissima ad intendere, e non è da ogni persona”. Addirittura a partire dal ‘500 la Bibbia finisce nell’Indice dei libri proibiti. In fondo lo scritto di Copernico conferma questa difficoltà di intendere il senso della Scrittura senza una guida superiore. Tanto che proprio in ambito cattolico, in Francia col prete Simon, appaiono i primi accenni ad una analisi critica del testo biblico. Forse in questo momento la Chiesa è presa da altre impellenti preoccupazioni per concentrarsi su un libro di cosmologia matematica. Deve infatti affrontare la sfida protestante con una profonda riorganizzazione interna a cui cerca di provvedere il Concilio di Trento che si apre nel 1545. Comunque sia, a metà del Cinquecento mancano ancora i presupposti perché sorga in campo cattolico una questione copernicana.

 

4. I processi di Galilei

Fra il 1543, anno in cui è pubblicato il libro di Copernico, ed il 1616, anno in cui la teoria copernicana viene formalmente dichiarata eretica e lo scritto è inserito nell’elenco dei libri proibiti dalla Congregazione dell’Indice, corrono 73 anni. Cosa accade in questo lasso di tempo perché un’opera scritta da un prete, accolta tranquillamente all’inizio in campo cattolico finisca così drasticamente censurata? Per rispondere alla domanda occorre considerare un evento storico di enorme rilievo nella storia della Chiesa: il Concilio di Trento che si chiude nel dicembre del 1563.

L’obiettivo dichiarato della riforma della Chiesa cattolica ha per sfondo la lotta contro il protestantesimo e la sua espansione. Nella percezione che le massime autorità ecclesiastiche hanno della situazione della Chiesa è dominante l’immagine di una cittadella assediata che rischia di cadere sotto i colpi del nemico. Per questo occorre mobilitare tutte le forze per la difesa del cattolicesimo, instaurare una ferrea disciplina interna, in modo da fare massa compatta contro il pericoloso avversario. A Trento è varato un programma di controllo che non si limita alle masse popolari e rurali incolte, ma abbraccia anche le élite politiche, sociali ed intellettuali. Si vuole insomma una Chiesa rigorosamente ordinata, dottrinalmente fedele, senza dubbi e tentennamenti alcuni, dalla pronta obbedienza ai poteri ecclesiastici, in una mobilitazione totale nello scontro mortale contro il protestantesimo. L’appello suona quindi anche per gli intellettuali: la loro intelligenza e cultura devono porsi al servizio della fede. Essi hanno l’obbligo di essere organici al progetto ecclesiastico. Non è ammessa una cultura indipendente, quale si è venuta peraltro a sviluppare in Italia con l’Umanesimo ed il Rinascimento. Un Machiavelli ed un Pomponazzi devono essere banditi. Nella figura ideale dell’intellettuale disegnata dalla controriforma cattolica il tratto essenziale è quello del servitore devoto alla Chiesa, a disposizione esclusiva della quale mette tutta la sua intelligenza ed il suo sapere. Il suo compito, allora, non è più quello di capire, di sviluppare un’autonoma capacità di ragionamento per raggiungere la verità, bensì la difesa ad oltranza della dottrina cattolica e, di conseguenza, dell’istituzione ecclesiastica gerarchizzata che quella dottrina definisce e comanda di credere. Come recita il catechismo tridentino – rivolto non ai laici ma agli ecclesiastici trasformati in veri e propri agenti di polizia per il controllo dei fedeli – non è concessa alcuna cittadinanza ad una cultura laica autonoma, indipendente dalle direttive del magistero della Chiesa. Tutto deve essere posto al suo servizio. In breve, all’intellettuale è imposto di trasformarsi in umile servitore dell’istituzione ecclesiastica, di diventare un soldato della fede. A mio parere, per capire il caso Galilei occorre tenere presente questo contesto storico, nel quale la Chiesa tridentina mostra i suoi tratti più significativi nella rigidità istituzionale, nella gerarchizzazione sempre più accentuata, nell’autoritarismo, nel controllo poliziesco sui fedeli, portando peraltro ad esasperazione elementi strutturali provenienti dal lungo processo storico che ha forgiato l’istituzione ecclesiastica.

Galilei, anche sotto il profilo del temperamento personale, stona, è un corpo estraneo in questo ambiente religioso e culturale. Non è un soggetto da disciplina ossequiosa. Una volta trovato il suo spazio culturale lo difende strenuamente e per questo è messo due volte sotto processo dall’Inquisizione.

 

Il processo del 1615-1616

L’Inquisizione sospetta Galilei fino dal 1611, dopo la pubblicazione, avvenuta l’anno precedente, del “Sidereus Nuncius”. In quest’opera egli espone le sue recenti scoperte col cannocchiale, dal corpo accidentato della luna, ai satelliti di Giove, a cui seguono poco dopo le fasi di Venere, le macchie solari e la natura di Saturno. Ne risulta sconvolta non solo la tradizionale cosmologia ma anche la fisica celeste di impostazione aristotelica, secondo la quale la materia dei cieli è di natura diversa da quella terrestre e qualitativamente più perfetta. Prende corpo, insomma, un sapere che rompe non solo drasticamente con la tradizione, ma che va sviluppandosi in via autonoma con nuove procedure investigative – il metodo galileiano di ipotesi e verifica – ed i cui agenti sono i “filosofi della natura” ed i “matematici”. Si passa, infatti, dalla fisica delle qualità di tipo aristotelico - secondo la quale la spiegazione dei fenomeni, ad esempio il moto naturale di una pietra, va ricercata nella sua natura qualitativa, nella sua essenza – ad una fisica della quantità, dove ciò che viene osservato e sperimentato non è altro che l’effetto dell’azione meccanica di forze misurabili in scala quantitativa. Nel linguaggio della fisica galileiana incontriamo così pesi, masse, tempi, velocità, e non più le qualità della fisica di Aristotele. Perentoriamente Galilei afferma l’avere “per impresa vana il ricercar le essenze”.

In un momento storico delicato come quello della controriforma questa rivoluzione scientifica ovviamente suscita sospetti. Quando Galilei a Roma espone le sue scoperte, l’ambasciatore Guicciardini scrive al Granduca che questi non sono tempi in cui si possa parlare di luna, di sole e cose del genere ed avverte del pericolo di stuzzicare “il can che giace”. Per di più, nelle discussioni a Galilei piace umiliare i suoi oppositori con la forza dei propri argomenti. Fra questi i gesuiti del Sacro collegio romano, che diventano suoi acerrimi nemici.

Anche a Firenze, però, gli avversari non mancano e sono soprattutto i domenicani di San Marco e di Santa Maria Novella. In un clima che si va facendo sempre più teso, la causa scatenante della crisi e della denuncia all’Inquisizione sono le lettere cosiddette “copernicane”. Si tratta di quattro lettere, la prima, del 21 dicembre 1613, indirizzata al benedettino Don Benedetto Castelli che sta a Pisa, due a Monsignor Piero Dini e l’ultima, che è un vero e proprio saggio, alla Granduchessa Cristina di Lorena. A Dini Galilei dichiara di meravigliarsi che la teoria copernicana, accettata tranquillamente in campo cattolico per circa settanta anni, debba suscitare ora tanta avversione. Infatti, già dalla fine del 1612 padre Lorini, domenicano di San Marco, va dichiarando eretico il copernicanesimo e nel 1614 un altro domenicano, Padre Caccini di Santa Maria Novella, rinnova gli attacchi alla scuola galileiana. Ma ciò che scatena padre Lorini e lo porta a denunciare Galilei all’Inquisizione sono le idee esposte nella lettera a Castelli, ribadite con abbondanza di argomentazioni a Cristina di Lorena.

La lettera a Castelli è il vero e proprio manifesto ideologico di Galilei. La questione, che ormai è penetrata anche nel mondo cattolico, è il rapporto fra la teoria copernicana, e dietro essa la nuova scienza galileiana, e la Scrittura. Giosuè 10, è invocato come criterio di verifica della nuova cosmologia. Galilei affronta il problema entrando direttamente nel terreno scritturistico. Richiamandosi implicitamente al criterio presente nella tradizione cattolica della difficoltà di intendere la Bibbia, per cui non la si può prendere alla lettera, sostiene che i passi invocati richiedono di essere interpretati. La domanda fondamentale diventa allora quella del senso della Scrittura, che cosa Dio ci ha rivelato nei testi biblici. Galilei sostiene che Dio ha parlato all’uomo con due linguaggi. Uno è quello della natura, che è scritto in caratteri matematici e che pertanto è oggetto della ricerca scientifica e nel quale, quindi, non trovano spazio altri criteri che quelli del metodo della scienza. Sono dunque gli scienziati, i filosofi della natura ed i matematici, ad essere competenti in questo settore dove si tratta di capire “come vadia il cielo”. L’altro è quello della Scrittura, che non ha per scopo di far conoscere le verità naturali. Infatti, passi come Giosuè 10, sono tali “per accomodarsi all’incapacità del volgo”, per cui la Scrittura in molti punti ha bisogno “di esposizione diversa dall’apparente senso delle parole”. Lo scopo del testo sacro è un altro, è quello di rivelare all’uomo la via per la salvezza dell’anima, cioè di fargli capire “come si vadia in cielo”. E’ questo il campo legittimamente occupato dalla Chiesa, di sua esclusiva competenza, dato che il suo scopo è di condurre gli esseri umani alla salvezza eterna. Ad avvalorare questa impostazione Galilei, nella lettera a Cristina di Lorena, si richiama ai padri della Chiesa, alla tradizione cattolica ed ai concili.

Le argomentazioni proposte sono stringenti. E’ investita la stessa materia teologica con citazioni pertinenti, per di più con grande spirito critico ed apertura mentale che introducono anche in quel delicato settore la libertà di indagine propria della ricerca scientifica. Ma tutto questo è troppo e non è accettabile per l’autorità ecclesiastica. Nel febbraio del 1615 padre Lorini denuncia Galileo all’Inquisizione e si apre l’istruttoria dell’inchiesta. Che cosa gli viene rimproverato? Richiamandosi ai decreti del concilio tridentino, secondo i quali l’unico interprete autentico della Scrittura è il magistero della Chiesa, il domenicano accusa Galilei di essere penetrato illecitamente in un territorio che non è di pertinenza dei laici. Perché se i laici possono permettersi di interpretare personalmente il testo sacro, che ci stanno a fare i teologi, i vescovi, il papa, insomma coloro che soli sono stati investiti da Dio di questo ruolo e della rispettiva autorità, si domanda padre Lorini? Sembra un’accusa di cripto-protestantesimo. E’ dunque la Chiesa, nei suoi organi gerarchici, l’unica fonte di verità. Una verità a tutto campo, che riguarda l’intera realtà, anche quella della natura, giacché, come si è detto prima, la controriforma cattolica vuole portare sotto il comando ed il controllo della gerarchia ecclesiastica l’intero scibile umano. Proprio per questo, per riaffermare l’autorità del magistero si riprende l’interpretazione letterale della Scrittura. Perché così, la nuova cultura scientifica veicolata dalle teorie di Copernico e di Galileo, con l’argomento che entra in collisione con la lettera del testo sacro, finisce delegittimata. La si vuole cioè colpire nella sua pretesa autonomia. Questo è il motivo di fondo dell’attacco a Galilei. Il quale ha avuto l’ardire non solo di togliere alla Chiesa il monopolio della cultura e del sapere, ma addirittura di invadere il territorio scritturistico sul quale, specialmente dopo Trento ed in funzione anti-protestante, rivendica l’esclusività il magistero ecclesiastico e dal quale i laici sono ormai completamente cacciati. L’attacco alla teoria copernicana serve pertanto a riaffermare l’autorità della Chiesa a tutto campo ed a stroncare le pretese di autonomia della nuova cultura scientifica.

Dopo l’istruttoria durata un anno, il processo si avvia alla conclusione agli inizi del 1616. Galileo è a Roma davanti al tribunale dell’Inquisizione, sotto l’imputazione di eresia. Gli è amico il papa Paolo V, ma ciò non toglie che la procedura inquisitoriale faccia il suo corso. Con lui è sotto processo anche il padre carmelitano di Napoli Foscarini, aderente alla teoria copernicana. L’accusa sostiene che la dottrina geocentrica è contraria alla Scrittura, quindi formalmente eretica, giacché se il sole fosse immobile il miracolo di Giosuè 10 non sarebbe stato possibile. Insomma, il copernicanesimo e, si può aggiungere, la nuova fisica galileiana, vengono accusati di attentare ai fondamenti della religione, alle prove della sua verità costituite dai miracoli. Galilei naturalmente si difende. Il suo, se vogliamo, è un argomento formale. Non si deve dimenticare che il diritto inquisitoriale, come tutte le altre specie di diritto, consiste in una serie di norme conseguenziali coerenti sul piano della forma logica. Ebbene, perché l’accettazione della teoria copernicana possa essere considerata un reato di eresia, è necessaria la premessa della sua condanna. Ma la Chiesa non ha mai nel passato condannato la teoria di Copernico. Come si può allora accusare Galilei e Foscarini di sostenere dottrine eretiche? In breve, ci si accorge che manca il reato per emettere una condanna. Il processo di conseguenza si interrompe.

Ovviamente la cosa non finisce qui. Il Santo Uffizio – personaggio di spicco è il cardinale Bellarmino – provvede immediatamente il 24 febbraio ad emettere un decreto in cui si dichiara formalmente eretica la teoria eliocentrica, in quanto contraria alla Scrittura, perché altrimenti il miracolo di Giosuè 10 non sarebbe stato possibile. Quanto alla terra, la teoria che essa si muova nello spazio e su sé stessa – già sostenuta nel VII secolo da Isidoro di Siviglia – è dichiarata “quanto meno erronea in fede”, ossia non formalmente eretica ma sospetta di eresia. Riguardo a Galilei, ora che esistono gli strumenti formali di accusa, non potendolo condannare, gli si ingiunge con una “ammonizione precetto”, davanti a notaio e testimoni, di non sostenere, insegnare, discutere la teoria copernicana, insomma di non trattarla “quovis modo”, in qualsiasi modo, altrimenti un’altra volta si procederà “in Santo Ufficio”. In sostanza gli si impone di ignorarla completamente come se essa non esistesse. Naturalmente il libro di Copernico finisce nell’elenco dell’Indice dei libri proibiti.

 

Il processo del 1633

La passione scientifica di Galilei è però talmente straripante da portarlo a scrivere di nuovo sulla teoria copernicana. Lo fa nel “Dialogo sui massimi sistemi del mondo”. Si tratta di un dialogo fra un sostenitore del copernicanesimo e della nuova scienza, Salviati, ed uno della cosmologia e fisica tolemaico-aristotelica, Simplicio, con un terzo personaggio, Sagredo, che li interroga per conoscere i termini esatti della loro disputa. La pubblicazione del libro è piuttosto tormentata. Nel 1630 Galilei è a Roma per la stampa. Presenta ovviamente l’opera al censore, il Maestro del Sacro Palazzo, padre Riccardi, Padre Mostro come viene chiamato, che la fa controllare a Padre Visconti esperto di matematica. Vengono apportate due modifiche concordate col Riccardi, una all’inizio come “proemio” e l’altra alla conclusione. Dopo di che viene concesso l’imprimatur per Roma. Il libro non viene ancora stampato perché, scoppiata la peste a Firenze, Galilei vi ritorna con l’intento di stampare l’opera nella sua città. Ma la stampa non gli viene concessa ed allora ripartono le procedure di controllo da parte dell’inquisitore fiorentino. Nel frattempo il Maestro del Sacro Palazzo gli nega l’autorizzazione a pubblicare a Firenze e rivuole l’opera a Roma. Galilei si rifiuta per timore di perdere nella spedizione il manoscritto e finalmente l’opera esce nel febbraio del 1632 stampata a Firenze e reca l’imprimatur dell’inquisitore locale ed addirittura di Roma.

Appena le copie giungono a Roma cominciano ad addensarsi nubi tempestose sulla testa di Galilei. Dà inizio il Maestro del Sacro Palazzo secondo il quale Galileo non ha seguito tutte le correzioni che erano state imposte. Ma i fulmini pericolosi sono quelli scagliati dal papa Urbano VIII. Entra in gioco anche una questione personale. Infatti, Galilei ha l’inavvertenza di mettere in bocca a Simplicio, che rappresenta, talvolta quasi in maniera comica, la cultura tradizionale, un argomento caro al papa, l’argomento del fine, tanto da presentarlo in un tono artificioso che non rende ragione della sua complessità. Galilei, insomma, lo svalorizza, non gli dà il rilievo che il papa invece ritiene debba attribuirglisi. L’argomento riguarda l’onnipotenza di Dio. Esso sostiene che Dio non è vincolato da uno schema rigido nella disposizione del cosmo. Essendo onnipotente avrebbe potuto e quindi saputo disporre diversamente il moto degli astri, in maniera tale da salvare comunque le apparenze dei fenomeni che appaiono. In altre parole, a spiegare i fenomeni celesti si possono fare infinite ipotesi, giacché Dio ha il potere di disporli in moltissime maniere, pur restando ferma la loro apparenza. Questo significa che la teoria copernicana, come la fisica di Galileo, non possono pretendere di possedere una conoscenza certa della realtà. Di conseguenza trovano legittimità più ipotesi esplicative, quindi anche quella tolemaica tradizionale. L’argomento non è banale – nella scienza moderna si è abbandonata l’idea della conoscenza assolutamente certa - e coglie un pregiudizio nella concezione galileiana, quello della semplicità e razionalità della natura.

Urbano VIII si sente ridicolizzato da Galilei e preme immediatamente, nell’agosto del 1632, per iniziare una procedura inquisitoriale. Naturalmente questo elemento personale non fa che accentuare l’azione repressiva, i cui motivi di fondo restano in realtà quelli, già visti in precedenza, della negazione di autonomia a sfere di conoscenza indipendenti dalla disciplina e dal controllo ecclesiastici. L’accusa con cui lo si traduce davanti al tribunale dell’Inquisizione è quella di eresia, ossia di adesione alla teoria copernicana esposta nel “Dialogo”. Galilei si difende dicendo di essersi semplicemente limitato ad illustrare due concezioni in conflitto, senza adesione a quella di Copernico. Riconosce di non essere stato molto accorto nell’esposizione tanto da affermare davanti ai giudici che “io havessi a scrivere adesso le medesime ragioni, non è dubbio che io le snerverei in maniera, ch’elle non potrebbero fare apparente mostra di quella forza, della quale essenzialmente e realmente sono prive. E’ stato dunque l’error mio, e lo confesso, di una vana ambizione e di una pura ignoranza et inavvertenza”. Comunque, in realtà è ben trasparente nel “Dialogo” qual è la sua effettiva preferenza. Per di più gli si rinfaccia di avere trasgredito alla “ingiunzione precetto” del 1616 del Santo Uffizio, che gli faceva divieto di interessarsi “quovis modo”, in qualsiasi modo, della teoria copernicana. Anche l’argomento di avere ricevuto l’imprimatur del Maestro del Sacro Palazzo e dell’Inquisitore di Firenze gli si ritorce contro. Ai due censori ha infatti taciuto dell’ingiunzione cui era sottoposto. Inoltre sulla stampa del libro ha indicato l’imprimatur di Roma che gli era stato revocato dato che la pubblicazione avveniva a Firenze.

Presso gli storici si discute se Galilei sia stato sottoposto o meno a tortura, prevista ed usualmente praticata nelle procedure dell’Inquisizione. Alcuni indizi lo lasciano supporre, benché non esista un’unanimità di opinioni in proposito. Come pure c’è chi sostiene che per giungere alla condanna non si siano rispettate completamente le norme procedurali previste dal codice inquisitoriale. Comunque, sulla base delle premesse prima accennate, il processo si chiude con una sentenza di condanna a motivo del fatto che – recita il testo – “ti sei reso a questo S.Off.o vehementemente sospetto di heresia, cioè d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture…e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni et altre constitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate”. Ma l’Inquisizione vuole presentarsi benevola verso il reo, pertanto la sentenza prosegue: “Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che, prima, con cuore sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li suddetti errori et heresie et qualunque altro errore et heresia contraria alla Cattolica et Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data”.

A questo punto a Galilei si aprono due alternative. O quella di non abiurare, con la conseguenza di rischiare di ripetere l’esperienza di Giordano Bruno o comunque di pene durissime, come il carcere a vita. O l’abiura. La sua scelta è quest’ultima e dichiara che “con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie, e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla S.ta Chiesa… e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simile sospitione; ma se conoscerò alcun heretico o che sia sospetto d’heresia, lo denontiarò a questo S. Offitio, o vero all’Inquisitore o ordinario nel luogo dove mi trovarò. Come si vede, nella logica dell’Inquisizione il ravvedimento del reo richiede il suo impegno a diventare un delatore.

L’esecuzione della pena prevede che Galilei non debba più rientrare a Firenze allo scopo di lasciarlo in stato di isolamento. Inizialmente viene ospitato presso il vescovo di Siena che gli è amico. Successivamente, temendo che sfruttando questa amicizia possa evadere l’obbligo, è trasferito ad Arcetri, presso Firenze, nella villa “Il gioiello” dove soggiorna fino alla morte avvenuta nel 1642.

Nonostante l’abiura Galilei rimane intimamente fedele alle sue idee. Continua a scrivere e nel 1638 pubblica in Olanda il suo capolavoro scientifico “I discorsi intorno a due nuove scienze”. In quest’opera è raccolta la sostanza della scienza galileiana e, quindi, è ribadita quella visione del mondo naturale che l’Inquisizione considera contraria alla Scrittura. Lo scritto passa tranquillamente perché dato il raffinato e specialistico linguaggio matematico, il senso vero dell’opera sfugge ai censori.

 

5. Conclusione

La scienza galileiana non è solamente un paradigma nuovo che sostituisce quello della filosofia tradizionale nella descrizione dei fenomeni naturali. Con essa è messo in moto un processo di revisione profonda, sul piano religioso ma anche a livello antropologico generale, della rappresentazione che l’uomo ha di sé stesso e della sua posizione nel cosmo. Infatti, alla concezione ingenua di chi si crede ancora al centro dell’universo e pretende che tutto sia stato creato per lui, Galilei sostituisce una visione nella quale la terra è tolta da questa centralità e proiettata in uno spazio illimitato, piccolo corpo celeste fra infiniti altri corpi celeste. In tal modo gli esseri umani sembrano trovarsi smarriti in questo cosmo immenso, abbandonati dalle precedenti certezze per le quali i cieli recavano segni di significati e di senso per la stessa vita umana. L’essere umano da fine e scopo del tutto, si rimpiccolisce a dimensioni insignificanti in scala cosmica. Nella “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, è questo il rimprovero che Fra Fulgenzio, discepolo di Galilei, rivolge al maestro. Si tratta di un evento di portata rivoluzionaria nella storia della coscienza umana, a cui seguono ulteriori passaggi con lo sviluppo della modernità. Alla perdita del privilegio cosmico, si aggiungerà poi la perdita di quello nei confronti del mondo animale con Darwin, e di quello spirituale dell’anima con Freud. E’ in questo contesto storico-culturale che i moderni sono costretti a ricostruire dalla base l’edificio umano, a ritrovare nuovi sensi e significati per la loro vita, per il loro stare nel mondo, giacché ormai in nessun passato, culturale, religioso, sociale che sia, si può andare a cercare apporti positivi.  

 

NB

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