Translate

venerdì 20 giugno 2008

Cristianesimo ribelle

NOVITÀ



Copertina


Mazzi Enzo

Cristianesimo ribelle





2008 pp.192 20,00 €









Il cristianesimo è geneticamente ribelle verso tutte le forme di alienazione e in particolare nei confronti del dominio del sacro. Dall’età di Costantino c’è stata una modificazione genetica nell’assetto istituzionale ecclesiastico. Ma una linea di fedeltà al carattere ribelle del primo cristianesimo è stata mantenuta, pur con fatica e contraddizioni fino ad oggi da movimenti, correnti di pensiero critico e comunità di base. Attingendo alla propria esperienza elaborata e vissuta all’interno di una rete di relazioni comunitarie aperte, specialmente a partire dall’anima profonda del sessantotto, l’autore analizza il processo storico di liberazione dal dominio del sacro e, con molti interrogativi irrisolti, vede l’esistenza personale e della storia come tracciato non sempre lineare ma dotato di senso, passo dopo passo: dalla schiavitù al riscatto, dalla oppressione alla liberazione, dalla alienazione alla responsabilità, dalla sacralità come dominio esterno alla sacralità intrinseca al tutto, dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza, all’accettazione fondamentalmente gioiosa del “nulla creativo” che ci avvolge.


Introduzione



La gestazione planetaria della speranza



Le riflessioni contenute in questo libro sono dovute a una ricca socializzazione comunitaria e hanno la loro radice nell’anima profonda del ’68, che a mio parere è tuttora vitale e generativa. Sono molti i ’68. È gravemente scorretto e rozzamente superficiale ridurre, come fa molta parte della cultura storiografica dominante, un imponente processo storico di trasformazione globale della società alla rivolta studentesca, considerata una folata velleitaria, contraddittoria e violenta, un conato o al massimo un sogno giovanile, senza passato e senza futuro. C’è ovviamente il ’68 degli studenti. Ma c’è anche il ’68 del movimento operaio, che inizia in quell’anno con lotte significative per esplodere l’anno successivo, e c’è il ’68 della psichiatria e della medicina alternativa, della magistratura, del mondo della scuola, del movimento femminista, del movimento conciliare nella Chiesa, perfino di un certo fermento democratico dentro la polizia. Tant’è vero che quando si tirano le somme della repressione giudiziaria del movimento complessivo del ’68-’69, si trovano accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti e laici, insegnanti, psichiatri, medici, ecc. (cfr. 14.000 denunce, chi, dove, come, quando, perché, a cura di L. Borgomeo e A. Forbice, ed. Stasind, Roma 1970). La domanda che sorge è la seguente: c’è qualcosa che accomuna i molti ’68, un ethos, una spinta profonda, un orizzonte di senso?

Nel ’68, ho fatto anch’io molte scoperte, sostenuto dalle relazioni comunitarie (cito da: Comunità dell’Isolotto, Il mio ’68, Centrolibro, Firenze 2000); ma una mi sembra che possa in qualche modo racchiudere tutte le altre: la gestazione planetaria della speranza. La speranza è perennemente in gestazione, ma la sua manifestazione nella storia è apparsa finora in forma episodica e settoriale. Nel ’68 invece ci siamo trovati davanti a un fenomeno planetario e globale, una specie di eruzione vulcanica che esplodeva da una miriade di camini in ogni angolo del pianeta, coinvolgeva tutti i settori della società e portava in superficie dall’anima profonda dell’umanità un magma incandescente ricchissimo di elementi creativi, capace di produrre un balzo in avanti della evoluzione culturale della specie. Si tratta di un punto di vista relativo. Non pretendo di assolutizzarlo. Ho detto e sono convinto che il ’68 è molti sessantotto. Non intendo contraddirmi.

C’è chi non vede affatto questo balzo in avanti. Magari perché non crede che la storia abbia una dimensione evolutiva dotata di senso. Io invece il balzo l’ho visto e lo vedo operante tutt’ora, nonostante la restaurazione. Questo non significa che non mi ponga interrogativi. Potrebbe essere il ’68 non un salto evolutivo ma una ennesima ripetizione, un ritorno ciclico della dialettica fra dominio e liberazione, fra paura e speranza, fra potere e amore? Non si può negare che in quell’anno fatale sia emerso il paradigma di sempre, che ha attraversato i millenni: il confronto insanabile fra la liberazione perennemente in divenire dell’amore universale, amore per la vita nella sua dimensione essenziale di finitezza, amore per tutti i viventi nella loro fragilità esistenziale, e il dominio della paura, della violenza, del patto con la morte. Tutto qui? Ma questo sarebbe il trionfo dell’inevitabile, del così è e così sia per tutti i secoli dei secoli, che è l’opposto della speranza. Niente di nuovo sotto il sole? E la nuova lingua universale e unificante della speranza che vedevamo sbocciare in ogni angolo del mondo poteva non essere affatto un balzo in avanti dell’evoluzione umana ma piuttosto un passo di danza in un girotondo senza fine? E l’avanzamento della liberazione dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza e il bisogno di felicità non illusoria che s’intravvedeva al fondo degli obiettivi di lotta sarebbe stato un sogno senza storia e senza futuro? E pura ripetizione di una genesi storica altalenante sarebbe stato quella specie di parto a cui partecipavo, quel passaggio generativo dal “seno materno” costituito da istituzioni, ideologie, confini, patrie, chiese, abitudini, a un mondo nuovo senza contorni, magmatico, appena intravisto da occhi incerti ancora incapaci di distinguere il vuoto dal pieno?

Domande inquietanti e pungenti che restarono sospese nel pieno di quell’anno cruciale e che restano sospese tutt’ora dopo quarant’anni. Quando dico che vedo il ’68 come un balzo evolutivo della specie non dico che ho risolto quegli interrogativi ma solo che li sto elaborando all’interno di reti di relazioni intense. E lo faccio non teoricamente, quanto piuttosto analizzando fatti concreti di vita.

Le esperienze di cambiamento dal basso, che da anni stavamo portando avanti nel nostro piccolo spazio vitale, le scoprivamo condivise inconsapevolmente da realtà sociali diffuse in tutto il mondo. Nei mesi a cavallo fra il ’68 e il ’69 la vicenda vissuta dalla Comunità dell’Isolotto ebbe risonanza mondiale. La piazza dell’Isolotto divenne un crocevia internazionale. Potemmo comunicare col mondo. Ed avemmo la consapevolezza che a livello universale stava nascendo una società basata su valori nuovi e al tempo stesso antichi: pace, solidarietà, primato della coscienza, dissenso creativo, diritti umani e sociali come diritti di tutti e di ognuno/a, centralità delle relazioni: “il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, comunitarietà oltre i confini. L’utopia che da sempre aveva animato i sogni di “uomini e donne di buona volontà” si stava rivelando ormai come la più autentica razionalità e si incarnava in mille e mille percorsi di ricerca positiva diffusi in tutti gli angoli della terra. Finora era sembrato che fosse la paura a tenere unito il mondo sotto la cupola di fuoco della bomba. Ora invece vedevamo che la grande forza unificante a livello finalmente planetario era la speranza. Si rivelò per noi come l’ecografia di una gestazione.

E vennero le doglie del parto. Fu la conferma, se ce n’era bisogno, che la gestazione planetaria e globale della speranza era incombente. Il sistema mondiale del dominio si sentì scosso dalle fondamenta e scatenò il conflitto. Perché la speranza è la grande nemica del potere. Il quale si nutre di disperazione, paura, rassegnazione e sottomissione. Come la speranza nuova prendeva forma a livello mondiale, così anche la strategia per pianificare l’aborto fu globale. Dietro la maschera dell’anticomunismo e con la scusa del confronto apocalittico fra i due grandi sistemi di dominio, fu messa in atto la strategia delle “guerre di bassa intensità”, per uccidere la speranza e riportare sul trono l’inevitabile. E in Italia venne la repressione spietata ed esplosero le bombe in una sequenza tragica di stragi. E la strategia della tensione generò o comunque alimentò il terrorismo come propria immagine speculare. L’aborto sembrò cosa fatta.

Anche nella Chiesa il conflitto fu inevitabile. E risultò tremendo e tragico. Perché la gestazione della speranza si configurava come vera e propria rivoluzione del sistema ecclesiastico del sacro travasato dal medioevo nell’età moderna. Era stato il Concilio che aveva dato voce e forza a tale rivoluzione. I documenti conciliari infatti avevano sancito un germe di trasformazione radicale definito da un grande teologo conciliare, Marie-Dominique Chenu, “Rivoluzione copernicana della Chiesa”, in quanto poneva al centro non più la gerarchia ma il “Popolo di Dio”. Lì, in quel germe appena enunciato, si può individuare il succo stesso del Concilio. Non che i ministeri scomparissero. Solo che riacquistavano la loro funzione di servizio in una Chiesa vissuta come “comunità di comunità in cammino”, fondata sul protagonismo, la dignità e i diritti delle persone e della loro fede, a cominciare dagli ultimi. Quando tale “rivoluzione copernicana” dall’enunciazione di principio nei documenti ufficiali fu trasferita nella pratica di vita ecclesiale dal proliferare di una quantità di esperienze di base, fece paura e fu osteggiata da un intreccio perverso, composto da massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia: quel medesimo intreccio che in Italia tentò di bloccare il processo democratico complessivo, ricorrendo a tutti i mezzi compreso il terrore. Non sembri un’esagerazione. Quello che ho chiamato “intreccio perverso” esisteva realmente. [...]



Nessun commento:

Posta un commento